La peculiarità della ricerca etnografica sulle emozioni risiede nell’eterogeneità delle interpretazioni che produce (Pussetti 2012). Le emozioni, proprio per la loro inconsistenza materica direttamente osservabile e registrabile tramite i consueti metodi etnografici, rappresentano una sfida in ambito antropologico. La necessità di decostruire, dal punto di vista teorico, la nozione di emozione ha sollevato ambiguità epistemologiche proprio per la vastità delle sue espressioni culturali e contestuali. Le emozioni rappresentano delle concezioni considerate come scontate sia a livello di senso comune, sia nella conoscenza specialistica. Come affermano ironicamente Fehr e Russell (1984), tutti sanno cos’è un’emozione finché non si chiede di definirla. L’esperienza emozionale sembra pertanto scontata, immediata e concreta ma, nonostante le apparenze, ci si trova ad avere a che fare con una nebbia concettuale (Knapp 1958).
Malgrado si sia avuta, in vari campi del sapere, una grande fioritura di risposte relative alla natura, agli elementi costitutivi e alla classificazione delle emozioni, di fatto non è ancora stata costruita una definizione univoca. In tempi recenti si è tentato di definire l’emozione attraverso una forma ampia ed articolata, descrivendola come un’esperienza pluri-componenziale caratterizzata da aspetti cognitivi, fisiologici, espressivi e comportamentali (Pussetti 2012). Ciononostante, la genericità di tale definizione non ha permesso di decifrare le caratteristiche basilari per definire l’emozione come una categoria concettuale. Affrontando, in un’ottica interdisciplinare, la letteratura esistente sulle emozioni, è evidente come questo concetto venga utilizzato per comprendere una vasta costellazione di fenomeni umani. Uno degli elementi costitutivi delle emozioni è il suo essere un aggregato di stati psicofisici con caratteristiche diverse, difficili però da individuare e da definire concettualmente. La stessa idea di emozione potrebbe rivelarsi inutile come categoria scientifica, in quanto non è in grado di costituire quello che i filosofi della scienza chiamano una classe naturale, cioè un insieme omogeneo di elementi attraverso cui si possano compiere generalizzazioni.
Proprio per queste difficoltà, per quanto in alcuni resoconti etnografici possano essere presenti alcuni vaghi riferimenti agli stati emozionali delle persone, le emozioni sono state un oggetto di studio piuttosto trascurato dagli antropologi, considerate per lo più come eventi privati ed ineffabili oltre che, a volte, addirittura indipendenti dalla cultura. Questa marginalizzazione delle emozioni nel campo degli studi sociali è legata a vari fattori, come per esempio alla concezione filosofica che le ha considerate sopravvivenze del livello più rudimentale proprio dell’essere umano (Darwin 1872), o comunque fenomeni naturali e biologici di carattere non cognitivo, universali, innati e quindi non interessanti né accessibili alla metodologia dell’analisi antropologica. Non possiamo inoltre dimenticare la dicotomia ragione/emozione con profonde radici storiche nella tradizione culturale delle società occidentali dalle quali provengono, o si sono formati, gli scienziati sociali, la quale ha banalizzato la natura complessa delle emozioni e ha originato, contrapponendo conoscenza oggettiva e sfera privata soggettiva, una serie di problemi metodologici che hanno escluso le emozioni dal campo delle problematiche delle scienze sociali.
Nonostante l’urgenza, dettata dalla fase storica che stiamo vivendo, di una comprensione più articolata sulle emozioni, come anche delle varie sfumature che le compongono (tra cui l’ansia, la paura, la felicità, la noia ecc.), costituiscono ancora l’aspetto dell’esperienza umana meno costruito o appreso e di conseguenza meno accessibile anche all’analisi socioculturale.
Quanto fin d’ora affermato non nega l’esistenza di teorie antropologiche sulle emozioni. A partire dagli anni Settanta comincia, per esempio, ad affermarsi l’interpretazione costruttivista dell’esperienza emozionale. L’emozione, secondo tale prospettiva, deriverebbe dall’interpretazione e dalla valutazione di uno stimolo, ossia da un processo di attribuzione di senso e di valore. Lo sviluppo emozionale viene considerato come risultante dell’apprendimento individuale e dell’assunzione di modelli di comportamento socialmente acquisiti e condivisi. In questo senso le emozioni sono considerate costruzioni sociali, variabili come qualsiasi altro fenomeno culturale. Per un verso quindi non ha senso parlare di emozioni innate e universali, identiche attraverso le culture e attraverso il tempo; per l’altro non è possibile comprendere le emozioni rivolgendo lo sguardo esclusivamente all’organismo fisico o al singolo individuo decontestualizzato. Occorre quindi guardare all’emozione essenzialmente come ad un processo relazionale, attraverso il quale abbiamo attivamente esperienza del mondo e comunichiamo con gli altri.
Le emozioni sono interpretazioni che si alimentano di norme collettive implicite, intima conseguenza di un apprendimento sociale, espresse poi a livello corporeo, in base al modo di fare e alla storia personale di ciascuna persona. Questo apprendimento differisce dall’educazione formale, costituendosi piuttosto come una vera e propria educazione dei sensi, la quale avviene attraverso l’interazione quotidiana con il mondo fisico e sociale. Le emozioni, nel palesare la loro natura di costrutti culturali, non perdono la loro dimensione corporea, rivelando una essenza contemporaneamente biologica e sociale. Un contributo importante a questa prospettiva giunge da Michelle Rosaldo, che ben sintetizza il senso della complessità e ambivalenza costitutiva delle emozioni, coniando la definizione di “pensieri incorporati” (Rosaldo 1984: 162).
Se l’emozione sentita traduce il significato particolare dato dall’individuo alle circostanze che gli accadono, allora le emozioni possono essere considerate veicolo privilegiato per comprendere le teorie locali sulla morale e per cogliere le norme e i valori fondamentali sui quali si basa una determinata società. A partire dagli anni Ottanta vengono quindi interpretate dagli antropologi come fenomeni sociali consistenti in una serie di risposte apprese che servono a regolare l’interazione sociale tra gli individui. Diversi lavori etnografici si sono dedicati all’analisi delle esperienze emozionali, intese non solo come veicoli espressivi, ma piuttosto come atti pragmatici. In queste ricerche, le emozioni sono state considerate come un linguaggio primario per definire, negoziare, riflettere e strutturare relazioni sociali e per costruire una condotta sociale, indagando modelli locali di persona, raccogliendo commenti e giudizi sui comportamenti propri e altrui, analizzando attività istituzionalizzate oppure osservando rituali come modelli esemplari “cristallizzati” di stili emozionali.
Mentre molti ricercatori si sono dedicati a interpretare le emozioni in relazione al contesto culturale come forma di discorso sociale, altri hanno posto l’attenzione sugli aspetti estetici della cultura e sulla relazione tra arte e sentimenti, trattando racconti, performance, poesie e suoni non solo come testi per un’analisi culturale, ma come pratiche sociali con effetti reali. L’attenzione sui discorsi locali è cruciale per comprendere come siano costituite le emozioni, tanto che ci porta a considerarle come pratiche o modalità di azione che partecipano di uno specifico sistema di senso e valore, del quale al contempo confermano la legittimità, diventando una componente attiva del sistema che contribuiscono a foggiare.
A tal proposito esistono alcune principali strategie utilizzate per affrontare lo studio antropologico delle emozioni, le quali si basano sul rivitalizzare, storicizzare e contestualizzare il discorso su di esse. La prima strategia mette in discussione la certezza e la validità universale dei modi in cui pensiamo e parliamo di cose come le emozioni, verificando, tramite comparazioni, possibili uguaglianze o differenze. La seconda strategia mira ad analizzare i discorsi sull’emozione, la soggettività e il sé esaminandoli da un punto di vista diacronico, osservandoli in contesti locali e momenti storici particolari e studiando come e se sono cambiati. La terza strategia consiste nel concentrarsi sul discorso sociale, basandosi meno sulla comparazione antropologica o sull’inquadramento storico del problema. In particolare essa è stata seguita da autori interessati all’emozione intesa come costrutto socioculturale che acquisisce forma e significato attraverso la sua collocazione e la pratica nel dominio pubblico del discorso.
Il concetto di discorso assume quindi una valenza particolare in quanto non si riferisce solo ad una forma linguistica, ma viene impiegato per indicare tutte le modalità attraverso cui si costruisce una conoscenza. In questa definizione vengono incluse le pratiche sociali, le forme specifiche di soggettività e le relazioni di potere che vanno a costruire tali conoscenze e le varie connessioni tra saperi. La dimensione del discorso non è perciò né una struttura, né un sistema, ma una pratica nella quale vengono a formarsi sia gli oggetti di cui si parla, sia i soggetti che in esso parlano. Il discorso sulle emozioni crea quindi individui come esseri emozionali di un certo tipo. Secondo questo approccio, parlare di emozione significa discutere questioni che hanno a che fare con il potere, con la politica, con la parentela, con i cambiamenti storici, con i concetti di normalità e di devianza, con le differenze di status e con le caratteristiche di genere. Il compito interpretativo non è quindi cogliere cosa le persone percepiscono, quanto piuttosto tradurre da un contesto ad un altro il significato dei termini usati nelle conversazioni quotidiane per parlare delle emozioni. Comprendere il significato di un’emozione significa, secondo questo approccio, riuscire a cogliere e a partecipare in quei momenti complessi in cui azioni, relazioni sociali, norme, giudizi e concezioni morali vengono strategicamente messe in atto.
A fianco di quei processi di costruzione delle emozioni che si svolgono in maniera continua e progressiva, vi sono anche quelle occasioni che, contrariamente, irrompono nella vita delle persone alterandone la cosiddetta normalità, foggiando drammaticamente la personalità degli individui affinché corrisponda ad uno specifico ideale di umanità. Ci si riferisce in particolare a tutti quei processi che introducendo violenza, paura, dolore, sofferenza fisica e psicologica, determinano l’attivazione del sistema neuroendocrino, il quale reagisce con la messa in circolo di determinati ormoni prodotti nelle ghiandole surrenali. In particolare, l’adrenalina interagisce con i recettori presenti nell’amigdala, la quale costituisce il punto chiave del circuito emozionale del cervello e centro della memoria emozionale, mentre il cortisolo stimola l’ippocampo potenziando l’apprendimento ed accrescendo la ritenzione dei ricordi. Varie etnografie mostrano l’esistenza di riti di passaggio destinati a formare, disciplinare e guidare l’emotività verso una direzione ideale, coerente e funzionale al mantenimento di un preciso ordine morale e sociale e alla costruzione di un certo tipo di persona adulta. Queste pratiche non propongono tanto delle norme cui gli individui dovrebbero attenersi, quanto costruiscono gli individui come esseri umani emozionali di un certo tipo (Pussetti 2012).
Al di là degli aspetti fin qui delineati sullo studio delle emozioni, il presente contributo intende occuparsi di una loro determinata tipologia. In particolare, questo articolo vuole focalizzarsi sull’ansia la quale costituisce un aspetto, spesso scomodo ma comune nella vita di tutti i giorni, particolarmente sentito nell’attuale fase storica. Relativamente allo studio dell’ansia, le scienze sociali, a prescindere da alcune eccezioni (Beck 1992; Giddens 1990), hanno prestato poca attenzione. Se altre emozioni come la rabbia o la paura, l’amore o la compassione, sono state più spesso indagate come stati individuali e collettivi (Bericat 2016; Goodwin et al. 2001; Scribano 2020), l’ansia solo recentemente è stata definita nelle scienze sociali come uno stato emotivo comune, frequentemente presente nella vita quotidiana, spesso responsabile di disagio fisico e correlato non solo a situazioni contingenti ma anche a disposizioni e orientamenti culturali (Davidson et al. 2005; Harding, Pribram 2002).
L’ansia è un’emozione difficilmente interpretabile, nonostante sia una comune e spesso pervasiva esperienza quotidiana. L’ansia non è necessariamente uno stato temporaneo o la risposta emotiva a una situazione. È diversa dalla paura. Essa non nasce da un oggetto specifico da cui sfuggire come nel caso di un pericolo temporaneo. L’ansia può essere anche una condizione emotiva permanente, uno stato di fondo tipicamente suscitato da motivi di incertezza, imprevedibilità, giudizio, competizione, necessità di prendere una decisione. In molte situazioni, l’ansia è una tipica risposta allo stress tanto che nella letteratura psicologica essa è descritta come un “disturbo emotivo” (Broschot et al. 2016) correlato a preoccupazione, apprensione ed associato a sentimenti di minaccia. L’ansia può essere anche uno stato cronico in grado di scatenare malattie somatiche.
Nella cultura occidentale, l’ansia è un’emozione tipicamente protesa verso il futuro (Melucci 1996) ed è correlata ad un’alterazione del sentimento di fiducia nei confronti della vita. Come ha notato Giddens (Giddens 1991), la modernità orientata al futuro favorisce la fiducia nei sistemi esperti, ma anche la riflessività, la critica e l’ansia nella loro prestazione. L’uomo moderno occidentale riconosce che il futuro è inconoscibile, ma contemporaneamente lo valuta come un’arena piena di possibilità da controllare, attraverso un calcolo del rischio, per abbassare i livelli di incertezza nei confronti di un orizzonte ignoto.
L’ansia, come tutti gli stati emotivi, ha un’espressione non solo soggettiva ma anche culturale. Ogni persona è acculturata in comportamenti particolari per esprimere socialmente l’ansia la quale, a seconda dei contesti, può essere espressa oppure repressa. Tenendo conto della variabilità geo-culturale dell’espressione dell’ansia, la prima parte di questo articolo esaminerà il legame tra cultura occidentale e ansia. Fenomeno emotivo e culturale specifico, in Europa è un fattore che sta al centro di discipline, come la psicoanalisi, le cui radici affondano nel XX secolo. Le società occidentali si basano su una cultura storica della razionalità, del controllo e della speranza teleologica in un progresso senza fine. Queste società, avendo una bassa tolleranza all’incertezza, hanno mobilitato una continua ricerca di una causa, di un colpevole, di un nemico da rimuovere per ristabilire un ordine (Giddens 1990). Inoltre, ciò che è motivo di preoccupazione e di ansia nel mondo occidentale fissa l’agenda delle preoccupazioni globali con effetti sistematici. Queste fonti di ansia pubblica sono solitamente legate alla governance dell’immediato futuro, le cui tematiche principali riguardano la gestione dei flussi migratori, la previsione di sconvolgimenti economici, l’esclusione sociale e i disordini politici, il monitoraggio della ricerca tecnico-scientifica, la stima delle catastrofi ambientali e dei cambiamenti climatici ecc. Tali angosce vengono solitamente espresse e monitorate in termini di rischio e il modo in cui vengono modellate e gestite può cambiare a seconda della categorie di persone coinvolte, a seconda delle generazioni, nonché del contesto locale e delle sue caratteristiche (Beck 2009).
La seconda parte di questo articolo analizzerà la crisi pandemica del Covid-19 e i suoi effetti in Europa in termini di ansia collettiva, ponendo una particolare attenzione alla fiducia nei confronti della conoscenza scientifica. Questo periodo storico rappresenta un caso esemplare in cui analizzare lo stato emotivo di ansia generato da un improvviso evento destabilizzante. La precarietà, l’incertezza e l’insicurezza non sono mai state così evidenti – almeno dal dopoguerra in poi – come nell’attuale condizione di pandemia (Lee 2020). La crisi scatenata dal Covid-19 è fonte di ansia pervasiva ed interessa le relazioni sociali, l’impatto sui sistemi economici e sanitari e rivela inquietanti scenari di collettiva ignoranza scientifica. In questo senso, la diffusione emotiva dell’ansia è legata alla messa in discussione delle conoscenze scientifiche, alla capacità politica di reagire rapidamente alla crisi e alla necessità degli individui di riorganizzare la loro quotidianità sulla base di disposizioni inedite, non quotidiane e spesso poco chiare.
La crisi pandemica ha trasformato l’ansia legata a potenziali e ipotetici rischi nella concreta necessità di gestire un evento improvviso e poco conosciuto. Per attivare un simulacro di controllo, la condizione virale è stata inquadrata entro linguaggi militari. Il virus è il nemico; medici e infermieri i soldati (celebrati o incolpati); virologi ed epidemiologi i generali che insieme al governo hanno pianificato le strategie vincenti o fallimentari. Questo codice marziale è stato presentato come un tentativo di far fronte all’ansia, incoraggiando le capacità reattive di tutti gli attori coinvolti. Tuttavia, nel mondo occidentale, questa scelta comunicativa ha spesso impedito un rapporto più dialogico e riflessivo con l’informazione scientifica e le preoccupazioni economiche si sono trovate in un rapporto dialogico oppositivo con le raccomandazioni sanitarie e con l’infodemia rappresentata dall’enorme quantità di informazioni, vere e false, che circolano attorno alla spiegazione del virus (Pulido et al. 2020).
La modernità come età dell’ansia
Nella geografia culturale delle emozioni, l’ansia è stata considerata come l’emozione occidentale più tipica. Essa è radicata nella storia della modernità europea, nelle sue concettualizzazioni di soggettività e autonomia, nei suoi rapporti con la laicità e la scienza, nella sua relazione teologica ed escatologica con il futuro e con le sue ambizioni di controllo dei rischi (Golob 2017). Certo questo non significa che in altre culture, in altri contesti geografici e sociali, oltre che in altre esperienze storiche le persone non siano preoccupate di fare fronte all’ansia e al disagio. Ma è anche vera un’affinità elettiva tra cultura occidentale e ansia. Questo rapporto è stato al centro di molte indagini filosofiche della cultura moderna a partire dal XIX secolo, nonché di analisi culturali e critiche da un punto di vista non occidentale, come quelle del sociologo e psicologo indiano Ashis Nandy, che considera l’ansia un tipico stato d’animo moderno ed eurocentrico legato alla perdita di un desiderio imperiale di controllo (Nandy 1983, 2013).
Nella tradizione culturale occidentale, questa affinità è stata esplicitamente notata per la prima volta da Søren Kierkegaard nel suo saggio “The Concept of Anxiety” (1844), il quale rappresenta un testo di riferimento per tutte le successive riflessioni filosofiche su questo argomento. Se da un lato Kierkegaard considerava l’ansia un sentimento tipico della cultura cristiana – e più precisamente protestante – dall’altro ne evidenziava il carattere mediatore. L’ansia, sosteneva lo studioso, funziona come un mezzo di mediazione tra la libertà e la paura. Questa mediazione è rappresentata dalla possibilità, o dalla necessità, di operare delle scelte come privilegio supremo dell’individuo libero moderno. Pertanto l’ansia è connessa non solo all’incertezza e alle conseguenze imprevedibili, ma anche alla capacità di una persona libera di decidere in modo autonomo, indipendentemente dalla sua comunità.
Solo pochi decenni prima, ne La fenomenologia dello spirito (1807) anche Hegel aveva sviluppato, sulla base della sua idea di negatività, una fondamentale intuizione del rapporto tra la libertà dell’individuo moderno e l’angoscia. Per Hegel diventare una persona autocosciente significava negare la natura del corpo, oltre che dell’ambiente, i quali diventano mera risorsa per l’attività umana. Questa negazione è anche una forma di distruzione volontaria, di smembramento di una parte di sé. Tale processo era però per Hegel necessario per sviluppare una vita dello spirito capace di superare la morte. Tuttavia, nella vita di tutti i giorni questo processo si riduce spesso allo sforzo di sviluppare l’autocontrollo, la razionalizzazione e la prevedibilità. Tale meccanismo espone pertanto la persona ad un’auto-negatività espressa emotivamente dall’ansia, una disposizione emotiva che Hegel chiamava la “coscienza infelice”.
Max Weber fu il primo a trasformare queste riflessioni filosofiche in un’analisi sociologica dell’ansia come stato d’animo emotivo del mondo occidentale moderno. Nel suo studio sull’etica protestante, Weber ha prestato attenzione all’emozione dell’angoscia nella vita quotidiana dei Padri Pellegrini e dei primi imprenditori della costa orientale americana (Weber 2002 [1905]). Weber non usava infatti la nozione di angoscia, nonostante era evidente che quest’ultima fosse un’apprensione generale verso il futuro. Anche se l’atteggiamento degli imprenditori era legato al credo religioso – e caratterizzato da sentimenti di incompletezza, colpa e attesa – questo aveva un legame speciale con le loro attività quotidiane orientate al futuro degli investimenti, come segni di provvidenza e predestinazione. La persona moderna plasmata dal protestantesimo – in quanto culla del capitalismo – era quindi per Weber un individuo ansioso che fa le sue scelte da solo. Per Weber questo atteggiamento era il precursore delle successive aspirazioni laiche dell’individuo occidentale moderno di controllare il futuro e di acquisire il dominio sulla natura attraverso le tecnoscienze, l’amministrazione burocratica, il formalismo giuridico e il capitalismo economico (Brubaker 1992). L’ansia non è solo una risposta a pericoli indeterminati, ma un’emozione strettamente correlata all’angoscia in quanto risultante dalla coscienza della libertà (Valls 2018). Da questa svolta storica, è proliferata l’ansia sulle ambizioni di sicurezza e controllo nella vita sociale e materiale e sull’inevitabile riconoscimento dell’impossibilità di controllare una crescente varietà di rischi.
Dopo l’analisi weberiana, la connessione tra ansia e modernità occidentale è diventata ancora più esplicita. Tale rapporto venne discusso infatti, sotto l’influenza di Heidegger e Sartre, anche dagli esistenzialisti, nonché dai critici della modernità appartenenti alla Scuola di Francoforte e in particolare da Adorno. Entrambi questi approcci erano orientati – nonostante le loro marcate differenze – verso una critica dell’Illuminismo e del suo retaggio di razionalità strumentale. Da un lato, l’ansia era inquadrata come l’emozione fondamentale di una condizione umana intrappolata nella gabbia della ragione e della singolarità; dall’altro la critica della modernità della Scuola di Francoforte considerava l’ansia come il risultato di una società pianificata dalle strutture economiche e come un malessere tipico di un individuo iperrazionalizzato (Adorno 1981 [1966]). Il vasto programma della modernità fu quindi criticato sia come fonte principale di ansia da prestazione per l’individuo, sia come fonte di paranoia sistemica legata ai suoi dualismi costitutivi quali natura/cultura, emozione/razionalità, identità/alterità (Kosofsky-Sedgwick 2003). Sottolineano a tal proposito alcuni studiosi come non sia fortuita la creazione di una controfigura del programma della modernità attraverso il nichilismo, ossia la contemplazione del non senso di ogni scelta e la ricerca del sollievo dall’ansia nell’abbandono delle illusioni arroganti (Giddens 1991; Severino 2016).
La riflessione sull’eredità dell’Illuminismo in termini di autogoverno e di ansia ha caratterizzato anche l’ultimo lavoro di Michel Foucault – soprattutto nella sua indagine sull’antica pratica dell’epimèleia heautoù come metodo per contrastare l’ansia come stato d’animo emotivo tipico dell’individuo occidentale (Foucault 2005) – nonostante il suo interesse per l’ansia era già presente nei suoi primi lavori sulla malattia mentale e la psicologia (Foucault 1987 [1954]). In questa analisi Foucault si soffermò sull’idea di pratica e tecnica del sé in quanto guida verso un’istanza del presente; in altre parole un’arte del sé attinta dalla cultura greco-romana. Pratiche come l’autoscrittura erano popolari a quel tempo ed erano intese come un modo per prevenire «un atteggiamento mentale rivolto al futuro che, a causa della sua incertezza, provoca ansia e agitazione dell’anima» (Foucault 1983: 8). Infatti, la lunga digressione di Foucault su stoici ed epicurei era anche una riflessione sull’angoscia. La sua pervasività potrebbe essere considerata come risultante dalle ambiguità dell’autogoverno nelle società neoliberali, dove l’ingiunzione a condurre la propria condotta, a monitorare la propria azione, è prodotta attraverso tecniche in cui è sempre più difficile individuare chi sta conducendo chi. L’autogoverno alienato si basa sull’ansiosa autogestione dei rischi imminenti e su norme sociali stabilite su ciò che dovrebbe essere desiderabile. Per Foucault, l’ansia non poteva essere separata dal modo in cui gli esseri umani “sono fatti soggetti” tanto che, nei suoi successivi lavori, la nozione sfidante di parresia emerse come principale esercizio di vigilanza e resistenza contro l’ansia e il biopotere.
Le teorie promosse dalla Scuola di Francoforte e da Foucault convergono sia nel descrivere l’ansia come un’emozione caratteristica della modernità occidentale, sia nel riflettere sul rapporto tra ansia, immanenza e contingenza. “Practising the present” è l’esercizio acrobatico di un individuo obbligato a far fronte all’imprevedibilità del futuro e all’incoerenza di un atteggiamento teleologico di autoprogettazione (Sloterdijk 2013). In sintesi, al centro della riflessione sull’ansia nella cultura occidentale moderna c’è l’idea di agency come possibilità di fare una scelta autonoma e governare la situazione, dove l’individuo può decodificare le caratteristiche del contesto, le poste in gioco e i valori, orientare l’azione ed esserne responsabili. L’ansia non è solo un’emozione basata sull’attesa di un futuro incerto, o una risposta allo stress; è anche la condizione in cui si è formata la persona occidentale moderna, in cui l’individualizzazione diventa un obiettivo e una realizzazione continua, una forma di disciplina e il modo in cui gli individui trovano l’autorealizzazione, l’autogratificazione e cercano di dare un senso alla loro esperienza.
Relazione tra ansia ed incertezza
Mentre la storia della modernità occidentale e la particolare concezione di persona nata in essa hanno un rapporto specifico con l’ansia, questo stato emotivo sembra oggi aver acquisito una dimensione culturale quasi globale. Molti tratti culturali che hanno avuto origine in Occidente – dalle strutture economiche e finanziarie, alle abitudini di consumo – sono diventate caratteristiche diffuse in tutto il mondo con adattamenti locali in un contesto di interconnessioni ed interdipendenze globali (Nederveen-Pieterse 2012).
Una fonte di ansia collettiva in un luogo particolare, come un default economico o un disastro ambientale, può avere un impatto emotivo e pratico su scala globale. Ciò è particolarmente vero quando la fonte dell’ansia è localizzata, o ha avuto origine, nel “Nord globale”, ma l’accelerazione delle emergenze sistemiche (ad esempio terrorismo, dichiarazioni di pandemie, crisi economiche, cambiamento climatico) hanno offuscato, nel quadro geopolitico e geografico mondiale, la distinzione culturale delle fonti ansiogeniche (Moisi 2009). Quasi ovunque ormai, l’ansia legata all’incertezza viene razionalizzata nell’ambito dell’esposizione ai rischi e della probabilità, della distribuzione e delle caratteristiche di tali rischi. Questa analisi è stata per esempio al centro del lavoro di Ulrich Beck che ha continuato la tradizione tedesca della riflessione sulla modernità e sull’ansia (Beck 1992,1998, 2009)). Secondo Beck, il tema della gestione del rischio è la connessione più evidente tra ansia e futuro nelle società che pongono una particolare enfasi sull’individualità, dove l’attenzione al rischio si basa sulla rimozione della casualità e sullo sforzo di razionalizzare e pianificare. Beck definisce il rischio come un modo sistematico di affrontare i pericoli e le insicurezze, mentre l’ansia è concepita come l’emozione dominante nelle società in cui i rischi corrispondono a ondate di emergenze e a minacce, oltre che all’impulso di governare l’imponderabilità (Beck 2009). Il rischio è una nozione moderna relativa al calcolo e alla pianificazione ed è basata sull’evidenza e sulla probabilità. Il rischio non corrisponde ad una minaccia generica e significa anticipazione della catastrofe.
La nozione di Beck di società del rischio si è diffusa come interpretazione teorica con portata sistemica, anche se è culturalmente valida principalmente per le società occidentali. Ciononostante – riconosce Beck (Beck 2005) – un approccio in termini di società del rischio non ha lo stesso effetto e le stesse caratteristiche in diversi contesti culturali, tanto che in molti contesti extraoccidentali la categoria di società del rischio è scarsamente applicabile. Inoltre, ci sono diversi atteggiamenti culturali nei confronti del rischio e di conseguenza diverse reazioni emotive, senza contare che ci sono pure differenze in termini di atteggiamento individuale, istruzione, ambiente sociale, genere o età (Lupton 2013). Anche se, secondo Beck, la globalizzazione ingloba varie culture, egli è consapevole comunque che nella cultura occidentale i rischi esistono in uno stato permanente di virtualità. Di conseguenza, secondo lo studioso, nella cultura occidentale l’ansia è legata ad una costante visualizzazione e anticipazione dei rischi indipendentemente dalla loro probabilità.
Questa relazione tra lo stato emotivo di ansia e un approccio in termini di rischi sistemici è presentata da Beck come un’affermazione sia culturale che ontologica. In altre parole, il rischio è allo stesso tempo una griglia interpretativa e uno statuto ontologico. Da un lato, quindi, oggi i rischi sono sempre più sistemici e potenzialmente globali (incidenti nucleari, pandemie virali, cambiamenti climatici); mentre da un punto di vista materiale vi è la difficoltà a trovare luoghi esenti dalle conseguenze almeno indirette di rischi di questo tipo. D’altra parte, il rischio è un quadro culturale di analisi e, indipendentemente dal tipo dei rischi, l’atteggiamento culturale occidentale è quello di individuarli, controllarli e ridurli.
Anche se l’approccio di Beck è stato criticato per la sua eccessiva enfasi sulla relazione tra ansia e rischio (Rabsborg 2012), ciò che è caratteristico di questa relazione nella cultura occidentale è il suo fondamento nell’individualità come autogestione, così come era già stata intercettata dalla critica della modernità sviluppata da Sartre, Adorno e Foucault. Pertanto, la sensibilità al rischio e l’ansia ad esso correlata, non possono essere comprese senza considerare l’ingiunzione culturale all’autogoverno, concepito come un atteggiamento psicologico di auto-responsabilità per cui il singolo individuo è chiamato a trovare una soluzione, o a prendere una decisione, anche in merito a problemi al di fuori della sua sfera di controllo o comprensione. Enti pubblici come sistemi educativi, servizi per l’impiego, welfare state, così come imprese private, discorsi politici e mediatici, esperti, parenti, amici e guide incoraggiano l’individuo a cercare l’autonomia e l’autorealizzazione in modo che sia pronto ad adattarsi ai cambiamenti inaspettati. L’individuo singolarizzato è sovraccaricato di nuovi compiti di autoprotezione e autogestione con un’inevitabile conseguenza emotiva in termini di ansia (Martucelli 2010).
Di conseguenza, l’ansia è legata non solo all’esigenza di controllare i rischi, ma anche a un diffuso processo di singolarizzazione e all’assenza di rappresentazioni del futuro. Oltre alla individualizzazione e all’anticipazione virtuale dei rischi, ci sono altri modi tipici occidentali per inquadrare l’ansia. Il ruolo della tecnoscienza, della tecno-burocrazia e della conoscenza scientifica esperta è stato ampiamente intuito e anticipato da Weber, Heidegger e Gelen, i quali hanno anche messo in luce la contemporanea esistenza di rischi tecnologici e di strumenti, tecnici ed istituzionali, atti a controllarli (Sloterdijk 2013).
Un’analisi simile alle riflessioni fin qui delineate è possibile trovarla nei lavori di Anthony Giddens in cui l’autore considera esplicitamente l’ansia come lo stato emotivo tipico della modernità occidentale, nonostante connetta l’ansia con numerose variabilità di fiducia correlata a conoscenze specialistiche anch’esse tipiche della condizione moderna. La fiducia e l’ansia sono emozioni orientate al futuro e si basano sulla capacità individuale di valutare la situazione attraverso la riflessione (Giddens 1990, 1991).
Ansia e fiducia sono legate tra loro anche a livello personale. Secondo Giddens la mancanza di fiducia e di sicurezza nella vita quotidiana e nelle relazioni personali può generare un diffuso sentimento di ansia. Più che al rischio, l’ansia è associata alla sensazione di sicurezza e di fiducia nella qualità del controllo, ossia al grado di fiducia in tutti gli innumerevoli processi al di fuori del nostro controllo, non solo tecnologici ma anche personali. Se per comprendere il funzionamento delle nuove tecnologie possiamo forse fidarci della conoscenza degli esperti, per fidarci delle relazioni personali non possiamo più fare affidamento su regole e percorsi sociali chiari. Nell’analisi di Giddens non c’è una netta distinzione tra rapporti sociali di fiducia e fiducia nei sistemi esperti, dato che entrambi sono legati alla costruzione di una fiducia pubblica. In questo senso, ansia e fiducia condividono l’assenza di certezza (Barbalet 2009).
La scienza stessa inoltre non può presentarsi come neutrale e priva di valori e la fiducia nella competenza scientifica – soprattutto in campo biomedico – si basa sempre sull’asimmetria della conoscenza tra esperto ed inesperto e sulla relativa fiducia di quest’ultimo a misura della sua incapacità di verificare tecnicamente tale competenza, il che implica ancora la necessità di affidarsi a un sistema esperto (Giddens 1990). La fiducia – almeno nella moderna cultura occidentale – opera sempre in un ambiente di contingenza e insicurezza in cui la fiducia negli esperti e nella routine quotidiana può essere delusa. Questa frustrazione della fiducia può variare dal semplice scetticismo all’angoscia esistenziale, fino all’ansia insopportabile.
Giddens descrive l’ansia come uno stato sociale generale determinato da una crescente mancanza di fiducia sia nel progetto della modernità che nella conoscenza esperta (Giddens 1990). Eppure, la fiducia nella scienza e nella conoscenza scientifica ha una relazione specifica con l’ansia come stato emotivo della modernità, soprattutto per quanto riguarda il campo biomedico e la ricerca sulle malattie. L’attuale epidemia di Covid-19 può essere considerata un puntuale banco di prova su cui analizzare l’eredità storica del rapporto tra la modernità occidentale e l’ansia, oltre che per esplorare le connessioni tra l’ansia e il riconoscimento dei limiti della conoscenza scientifica e del controllo governativo. Più che una presunta minaccia o un ipotetico rischio, la crisi causata dal Covid-19 è stata un’esperienza improvvisa e sistemica di perdita di controllo, nonché un generatore di nuove forme di governabilità. Il Covid-19 può quindi offrire diverse prospettive per fare luce sulle caratteristiche e sugli effetti sistemici dell’ansia inglobando l’instabilità economica, la disoccupazione, la crisi dell’organizzazione ospedaliera, le proteste e i disordini sociali e così via.
Nelle due sezioni seguenti mi concentrerò su una prospettiva più specifica: l’analisi delle relazioni tra ansia e fiducia nella conoscenza scientifica e la capacità, o l’incapacità, di quest’ultima di gestire la condizione virale e sociale.
Ansia e ignoranza: l’epidemia di Covid-19 in Europa
Indagini internazionali periodiche, come Eurobarometro, possono registrare le variazioni dell’opinione pubblica europea riguardo sia le principali fonti di ansia, sia i contesti in cui sono localizzate geograficamente (Eurobarometro 2019). Prima dell’epidemia di Covid-19, la disoccupazione era la principale fonte di ansia in Europa, seguita poi dall’immigrazione, mentre il terrorismo internazionale ha destato preoccupazione nei Paesi europei più colpiti da attentati terroristici, come Francia e Regno Unito, ma anche in Paesi non coinvolti come l’Italia. Il cambiamento climatico è stato invece una delle principali fonti di ansia tra i giovani.
Eppure in Europa la crisi ambientale, un disastro nucleare o persino un attacco terroristico erano comunque considerati come una sorta di rischi virtuali che si verificavano, nel complesso, con una bassa incidenza. Il cambiamento climatico per esempio, in base alle statistiche, poteva essere esorcizzato tramite buone abitudini quotidiane come la dieta biologica, il consumismo etico, il bike sharing o l’auto elettrica. Secondo una recente indagine Gallup (Kluch 2020), l’epidemia di una malattia contagiosa era già presente tra le preoccupazioni europee molto prima dell’inizio della pandemia di Covid-19. Gli europei ricordavano infatti le precedenti crisi pandemiche, come l’influenza aviaria o suina, anche se queste ultime rappresentavano pur sempre solo una questione secondaria di preoccupazione a seguito dell’immigrazione, della disoccupazione o del terrorismo.
Sempre sulla base dei sondaggi invece, l’emergenza Covid-19 è stata descritta come il più grande evento emotivo di massa dalla Seconda guerra mondiale e ha generato un’epidemia globale di ansia. Gli psicologi infatti sono stati la seconda categoria scientifica più consultata dopo medici e virologi e i social media sono stati invasi da narrazioni di crisi individuali di ansia e da raccomandazioni su come affrontarle durante i lockdown. La crisi da Covid-19 ha infatti generato ansia in diversi modi: dal rischio per la salute, ma anche in relazione alla distanza sociale e familiare, da preoccupazioni per la disoccupazione, alla perdita del lavoro, oltre che l’ansia generata dall’incapacità degli scienziati di dare risposte immediate. Ad un pubblico abituato a risposte rapide, o all’ansia provocata dalla circolazione frenetica di notizie false, questa ondata ansiogena è stata principalmente correlata all’improvvisa scoperta da parte delle persone dell’entità della loro ignoranza e impreparazione ad affrontare questa situazione sociale legata al virus. La diffusione globale della malattia ha generato un’ansia non più legata al tentativo di prevedere e prevenire rischi mortali ma al riconoscimento di un’incapacità di comprendere processi che si consideravano scontati.
Pertanto, l’immagine pubblica e la fiducia nel ruolo delle conoscenze scientifiche e biomediche durante l’epidemia di Covid-19 sono fattori essenziali per comprendere il ruolo dell’ansia nell’eredità moderna. In realtà, nel paradigma moderno, dovremmo vivere in una società basata sulla conoscenza (Beck 2009), anche se il momento ansioso scatenato dal Covid-19 ha svelato una “società basata sull’ignoranza”. L’ignoranza è legata all’incertezza e al rischio, alla gestione dello “sconosciuto”, ma allo stesso tempo è essa stessa un prodotto implicito della moderna conoscenza scientifica, la cui caratteristica è quella di essere sempre in divenire. Per la scienza, più che uno spazio oscuro di inazione, l’ignoranza è un punto di partenza. Tuttavia, essendo i cittadini europei abituati a risposte rapide, si aspettavano, anche in questo caso, una reazione immediata delle conoscenze scientifiche, come anche una risposta rapida del sistema sanitario alla crisi del Covid-19. Pertanto, ci si è presto resi conto a livello collettivo che la ricerca scientifica ha bisogno di tempo e funziona per tentativi ed errori, mentre i sistemi sanitari sono macchine burocratiche con molti buchi organizzativi. L’ansia generata dall’epidemia del virus sembra essere correlata allo shock improvviso delle società abituate a considerare il rischio risolvibile dal moderno approccio pragmatico costruito in termini del problem solving della tecnoscienza, la quale mentre produce i problemi, realizza pure i mezzi per risolverli. Inoltre, la crisi Covid-19 ha pure minato i parametri di autogovernatività che coinvolge tutte le strutture della vita sociale, impossibili ormai da inquadrare in un’unica prospettiva.
Alcuni studiosi hanno affermato che il rapporto tra modernità e ansia in termini di governo e di controllo dei rischi si confronta pure con un evento destabilizzante – come appunto è il Covid-19 – il quale è in grado di produrre connessioni entropiche di rischi, senza separare le cause dagli effetti (Latour, Weibel 2020). L’ansia appare quindi come lo stato emotivo di smarrimento causato dall’impossibilità di ricostruire la complessa catena di tali connessioni. Tale aspetto è particolarmente evidente in relazione alla fiducia nelle conoscenze biomediche, dove l’ansia – sotto forma di disorientamento, sospetto e frustrazione – ha spesso sostituito la fiducia nella competenza scientifica come faro della modernità. L’ansia generata dall’impatto del Covid-19 sull’immagine pubblica della conoscenza biomedica – in termini di efficacia e reattività – è un caso storico senza precedenti.
Ansia e fiducia nelle conoscenze scientifiche
Gli scienziati non sono mai stati così esposti ai media come lo sono dai primi mesi del 2020. Richiesti ma anche criticati, considerati come i generali nella guerra con il nemico invisibile, sono stati obbligati ad aprire i loro laboratori alla ribalta dei media e a pubblicare rapporti periodici sui loro lavori in corso. Eppure, ciò che è dato per scontato nella scienza – ossia l’incertezza considerata una risorsa i cui risultati possono essere confutati – è fonte di ansia per la politica della vita quotidiana. I cittadini, spaventati dal virus, necessitano di soluzioni rapide dato che la cultura moderna ha insegnato loro che il lavoro scientifico è una “funzione” del sistema sociale ed è lì per risolvere i problemi (Scribano 2020).
Mentre esiste una vasta letteratura relativa all’analisi del rapporto tra scienza, politica e opinione pubblica, le emozioni legate alla percezione della conoscenza biomedica e le aspettative nei suoi confronti sono state meno esplorate, nonostante siano cruciali per una sociologia o un’antropologia dell’ansia nelle moderne società occidentali. Secondo il più recente Gallup Global Monitor (2019), che è un’indagine su scala globale sull’atteggiamento del pubblico nei confronti della scienza e della salute, ci sono diversi gradi di conoscenza e percezione delle funzioni scientifiche e biomediche in tutto il mondo. Tuttavia, e indipendentemente dai pregiudizi di genere, età, istruzione, reddito e paese di residenza, circa il 90% di tutti gli intervistati ha convenuto che studiare la malattia è una parte fondamentale del lavoro scientifico. Le persone si aspettano infatti che la scienza dia risposte ai problemi di salute. In Europa la fiducia in questa capacità e nei relativi benefici è stata molto alta (circa l’85%), così come la fiducia nei medici e nel personale medico (90%).
Nel complesso alcuni studiosi affermano che, durante l’epidemia di Covid-19, questa fiducia non è stata minata dalle difficoltà di molti sistemi sanitari nazionali di far fronte alla crisi pandemica (Scribano 2020). Tuttavia, in Europa la fiducia nella conoscenza degli esperti biomedici sta progressivamente diminuendo e ciò è principalmente dipendente dai modelli di comunicazione e dalla partecipazione pubblica nelle fonti di conoscenza (Drummond, Fishoff 2020). Ciò è particolarmente evidente nel caso delle malattie infettive emergenti, come già accaduto per l’AIDS (Joffe 2011) e come accade ora per il Covid-19. I discorsi prodotti dalle strategie di comunicazione determinano elevati gradi di ansia, ma anche di stanchezza emotiva, proprio per la creazione di narrazioni su infezioni pandemiche, ma anche su effetti sociali come l’impatto economico, sul distanziamento fisico, sul biasimo sociale di comportamenti particolari per l’origine e la diffusione della malattia, nonché sulla possibile stigmatizzazione di coloro che hanno contratto la malattia o che si ritiene ne abbiano intensificato la diffusione (Scribano 2020).
Quello che è successo con lo scoppio dell’emergenza Covid-19 è stata una convergenza e sommatoria di tutte le difficoltà nella valutazione del rischio, con la mancanza di informazioni sulla malattia e l’impossibilità di dare un’informazione coerente al pubblico. Soppesare rischi e benefici su possibili linee di cura e di prevenzione, bilanciare la tutela della salute e gli interessi economici, continua ad essere percepito come estremamente difficile in quanto il pubblico è stato obbligato a seguire giorno per giorno la contraddittoria e scomoda «cucina sperimentale della scienza» (Latour, Weibel 2020). Perciò, la relazione tra ansia e fiducia nel lavoro scientifico durante la crisi da Covid-19 è stata profondamente coinvolta in malintesi comunicativi. In relazione all’emergenza Covid-19, ogni persona ha avuto la propria prospettiva personale, basata sull’esposizione al rischio, sull’esperienza della malattia o sulla vulnerabilità dell’ambiente locale al virus. L’interpretazione emotiva del lavoro scientifico è stata filtrata da questa esperienza personale e dalla percezione di fiducia/sfiducia nel lavoro istituzionale, ad esempio riguardo alle politiche di lockdown. L’ansia è stata il costo psicologico della fiducia in un sapere scientifico e nelle decisioni istituzionali piene di contraddizioni e di vulnerabilità sistemiche.
Mentre la cultura moderna considera il lavoro scientifico come un’efficace funzione di risoluzione dei problemi del sistema sociale, dagli anni Ottanta una sequenza di nuove malattie virali, come l’AIDS, l’Ebola, o la successione di “influenza aviaria” e “influenza suina”, ha cambiato questa percezione sociale dell’invincibilità della conoscenza biomedica. Un’importante novità di queste malattie infettive è stata la loro natura pandemica, la loro rapida diffusione in un mondo globalizzato e la loro grande visibilità mediatica dovuta alle loro caratteristiche virali.
Rispetto all’ansia associata ad altri rischi per la salute, come il cancro o l’ictus, oppure a malattie causate da errati stili di vita, la consapevolezza e l’impegno del pubblico nei confronti delle nuove malattie infettive sono correlati a specifici allarmi e inquadramenti mediatici del rischio, con un impatto emotivo basato su picchi e avvallamenti dell’attenzione su particolari tratti piuttosto che altri (Joffe 2011, Smith 2006).
Per l’opinione pubblica europea, il Covid-19 non è stato del tutto una sorpresa, anche se l’entità e la rapidità della sua diffusione sono state percepite come inaspettate. Tuttavia, la copertura mediatica eccezionalmente diffusa dell’epidemia virale ha favorito una nuova espressione di ansia, orientata in modo riflessivo a un esame costante delle pratiche sociali alla luce delle informazioni in arrivo spesso contraddittorie.
Come una sorta di nemico intimo, l’ansia è stata considerata uno stato emotivo poco appariscente ma pervasivo della modernità occidentale, con le sue ambizioni di governabilità, di controllo, di pianificazione e la sua dubbia fiducia nei sistemi esperti. La critica della modernità sviluppata nel pensiero filosofico occidentale del Novecento si è spesso intrecciata con l’analisi di uno stato emotivo di ansia a causa delle disillusioni, delle contraddizioni e delle eccessive ambizioni del progetto moderno.
Da allora, anche il nichilismo ironico del discorso postmoderno o l’analisi della complessità, dell’incertezza e dei rischi connessi ai processi di globalizzazione, hanno affrontato esplicitamente la questione dell’ansia. Lo stato di eccezione provocato dall’epidemia di Covid-19 introdurrà probabilmente una nuova svolta nella riflessione sulla cultura occidentale e sul suo atteggiamento ansioso emotivo. Ciò è evidente non solo rispetto alle condizioni di rischio sistemico sanitario ed economico indotto dai discorsi sul virus ma anche rispetto all’intreccio tra sapere scientifico, governo politico e decisioni economiche. La classica separazione moderna di funzioni sistemiche come scienza, politica ed economia – ognuna con una propria logica interna – o il binarismo tra natura e politica, non è quindi più plausibile.
Se, da un lato, la sicurezza ontologica relativa alle conoscenze scientifiche e biomediche è stata compromessa dal riconoscimento di rischi imprevisti fuori controllo, dall’altro, una generale diminuzione della fiducia nella capacità di trovare soluzioni tecniche e governative alle crisi può essere associato a infodemia e a fake news, nonché allo stretto intreccio tra disuguaglianze sociali e rischi sistemici. L’epidemia di Covid-19 ha presentato tutte le caratteristiche tipiche di un rischio globale: non era limitato a una posizione geografica; le sue conseguenze erano incalcolabili e almeno in parte irreversibili; era previsto ma era impossibile prevenirlo; era fonte di ansia collettiva a causa della sua natura elusiva, è difficile da inquadrare e da controllare o da addomesticare dalla scienza. Questo svelamento dell’ignoranza è certamente in contrasto con gli sforzi di controllo.
L’ansia quindi nasce dalle controversie relative a decisioni politiche e a tecniche prese in una situazione percepita di assoluta incertezza e imprevedibilità. La crisi da Covid-19 è stata un mezzo paradossale di comunicazione transnazionale, un contagio di discorsi difficili da contenere che ha mostrato labilità culturale dei confini e delle comunità.
Per tutte queste ragioni, le conseguenze emotive del Covid-19 avranno probabilmente un impatto sull’eredità occidentale moderna e sul suo rapporto con l’ansia, le cui conseguenze potrebbero rafforzare le relazioni ambivalenti tra conoscenza esperta e tecnoscienza, come anche aumentare le necessità ossessive di prevedere e controllare il rischio, aumentare le risposte individualizzate all’incertezza che porteranno anche al disincanto verso asserzioni di verità e alla contingenza piuttosto che alla pianificazione del futuro. Con un riverbero globale, le “cicatrici dello spirito” lasciate dal fenomeno Covid-19 confermano la centralità dell’ansia come principale retaggio emotivo della modernità occidentale.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.
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