di Cinzia Costa
Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico (Marcuse, 1967: 21).Il famoso incipit de L’uomo a una dimensione annunciava già con sottile ironia e amarezza l’alba di una società in cui la manipolazione dei bisogni delle classi allora denominate subalterne avrebbe appiattito i meccanismi di dissenso e contrasto, facendo convogliare gli interessi dei subalterni in quelli della classe egemonica, pure essendo i secondi, per definizione, opposti ai primi, e portando dunque alla creazione di una società a una dimensione. Nell’introduzione al testo si legge anche una analisi dai risvolti inquietanti, se si pensa che la sua pubblicazione risale a più di cinquant’anni fa.
«La struttura della difesa rende la vita più facile ad un numero crescente di persone ed estende il dominio dell’uomo sulla natura; in queste circostanze, i nostri mezzi di comunicazione di massa trovano poche difficoltà nel vendere interessi particolari come fossero quelli di tutti gli uomini ragionevoli. I bisogni politici della società diventano bisogni e aspirazioni individuali, la loro soddisfazione favorisce lo sviluppo degli affari e del bene comune, e ambedue appaiono come la personificazione stessa della ragione. E tuttavia questa società è, nell’insieme, irrazionale» (ivi: 7-8).
Alla luce delle più recenti vicende storiche che hanno coinvolto molti Paesi dell’Occidente, queste parole suonano come un vaticinio ed è difficile non scoraggiarsi se si pensa che nulla o poco è cambiato dai tempi in cui scriveva Marcuse ad oggi; eppure molti sono gli elementi e le peculiarità che contraddistinguono il presente.
Le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, tenutesi nel novembre 2016, costituiscono in questo senso un episodio di grande rilevanza storica, sociale e culturale. La vittoria del noto imprenditore Donald John Trump e la sua successiva nomina a 45° presidente degli Stati Uniti d’America, hanno sconvolto buona parte del mondo occidentale che si è trovato impreparato di fronte all’ascesa politica di un personaggio pubblico la cui campagna elettorale è stata caratterizzata da aperte manifestazioni di sessismo, razzismo e xenofobia [1]. Lo sgomento e lo sconcerto che queste elezioni hanno suscitato in una grande porzione di cittadini americani sono diventati evidenti, seppure già molto chiari, all’indomani della cerimonia di insediamento [2], tenutosi il 20 gennaio, quando migliaia di persone, con il sostegno di molti personaggi pubblici, tra cui cantanti, attori, attivisti politici ed intellettuali, sono scese per le strade di Washington, e di centinaia di altre città negli Stati Uniti e nel mondo, per promuovere i diritti delle donne, dei migranti, delle persone LGBT in contrasto con le posizioni politiche dichiarate dal presidente neoeletto [3].
Com’era già avvenuto in passato, nel caso per esempio del voto sulla Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, la scienza statistica si è rivelata inadeguata a codificare e leggere i fenomeni in atto nelle nostre società. Sondaggi e analisi quantitative hanno infatti rilevato, in entrambi i casi, dati in contraddizione con gli esiti delle votazioni. Il fallimento delle indagini basate sulla raccolta di informazioni su larga scala, considerate generalmente piuttosto attendibili, chiama direttamente in causa le scienze fondate sulla ricerca qualitativa, l’antropologia prima fra tutte.
La sfida che si è presentata alle discipline sociali è grande e pone molte questioni sul mondo in cui viviamo, sul metodo di ricerca dell’antropologia e, soprattutto, sul fine reale degli studi. Già durante la campagna elettorale e ancora di più all’indomani dell’elezione sono stati numerosissimi i contributi su periodici e blog nei quali studiosi provenienti da diversi background e campi di ricerca si sono interrogati sulla vera entità del fenomeno Trump, ovvero sulla genesi e sulle cause di quello che è stato denominato “Trumpismo”. Il contributo che propongo offrirà una breve rassegna di articoli, panel di conferenze, o contributi già pubblicati in altre forme, comparsi su diverse piattaforme online [4], principalmente americane ma anche canadesi, di settore antropologico allo scopo di offrire al lettore una panoramica sulle analisi e soprattutto sulle domande che si sono posti gli antropologi americani, e non solo, come studiosi e come cittadini.
Una prima notazione va fatta sulla creazione del neologismo “Trumpismo” a cui gli autori dei contributi analizzati ricorrono in diverse occasioni. Quando parlano di Trumpismo gli studiosi fanno riferimento, più che al neo presidente in sé, ai suoi sostenitori, ossia a quel fenomeno sociale che ha portato un grande numero di americani [5], appartenenti anche alle classi meno abbienti, a votare per un imprenditore plurimilionario che proprio nulla ha a che vedere con gli americani provenienti dalle aree rurali o i lavoratori precari colpiti dalla crisi economica; ma su questo elemento sarà necessario tornare in seguito.
Le principali domande a cui gli antropologi hanno cercato di rispondere sono grosso modo queste: «Cosa è successo? E cosa verrà dopo?» (Bessire, Bond: 2017). Le risposte che ne sono scaturite si concentrano ognuna su un aspetto particolare del “fenomeno Trump” focalizzando la propria attenzione più sugli elettori che sull’eletto e approfondendo di volta in volta gli ambiti di ricerca meglio conosciuti dagli autori dei saggi. Diversi sono i contributi che analizzano l’appeal di Trump su alcune fasce della popolazione, in relazione soprattutto a temi più o meno caldi, come per esempio la sua posizione in merito all’aborto (Ginsburg: 2017), agli incentivi sul carbon fossile (Moran-Thomas: 2017) o che analizzano l’appoggio ricevuto dalla ormai nota Rust Belt (Walley: 2017), etc.
Nella maggior parte dei contributi compare il richiamo ad una espressione che era ormai quasi scomparsa dal vocabolario dell’opinione pubblica, ma che nell’ultimo anno è stata rispolverata dai media ed è tornata prepotentemente alla ribalta: la white working class. «Torna in auge la working class, quando ormai questa categoria non è più un soggetto politico» (Bessire, Bondo: 2017b). La cosiddetta “classe operaia bianca” sarebbe, infatti, secondo i mezzi di comunicazione di massa la principale responsabile della vittoria di Donald Trump alle presidenziali. Negli articoli e nei saggi analizzati l’espressione compare numerose volte in termini dubitativi; appare infatti anacronistico e soprattutto impreciso riferirsi ad un concetto di classe che si presenta ormai come del tutto astratto. Ciononostante la campagna elettorale di Trump ha poggiato le sue basi sul tema della bianchezza, risfoderando il binomio oppositivo “bianchi/non bianchi” (categoria all’interno della quale inserire, in modo piuttosto generico, neri, latino-americani, asiatici, etc.) in un Paese come l’America dove risulta ormai impossibile e insensato compiere delle distinzioni di appartenenza etnica o razziale. Eppure il tema dei bianchi, veri americani, minacciati da soggetti esterni (immigrati, musulmani, neri e criminali) è stato uno dei cavalli di battaglia dei comizi elettorali di Trump. Ancora una volta risulta pertinente più che mai richiamare Marcuse:
«La minaccia di una catastrofe atomica, che potrebbe spazzar via la razza umana, non serve nel medesimo tempo a proteggere le stesse forze che perpetuano tale pericolo? Gli sforzi per prevenire una simile catastrofe pongono in ombra la ricerca delle sue cause potenziali nella società industriale contemporanea. Queste cause rimangono non identificate, non chiarite, non soggette ad attacchi del pubblico, poiché si trovano spinte in secondo piano dinanzi alla troppo ovvia minaccia dall’esterno […]. Egualmente ovvio è il bisogno di essere preparati, di vivere sull’orlo della guerra, di far fronte alla sfida. Ci si sottomette alla produzione in tempo di pace dei mezzi di distribuzione, al perfezionamento dello spreco, ad essere educati per una difesa che deforma i difensori e ciò che essi difendono» (Marcuse, 1967: 7).
La white working class, i poveri operai (maschi) bianchi, sono stati dunque i principali interlocutori di questa campagna elettorale. Ma chi sono? Come si distinguono dal resto della popolazione? Esistono veramente? E soprattutto, se esistono, sono così numerosi da aver determinato da soli l’elezione di Donald Trump? Vi è infatti il sospetto che il sostegno della white working class a Trump sia stato sopravvalutato, mentre quello della classe media, compiacente, minimizzato (cfr. Walley). Per alcuni versi sembra che anche gli antropologi siano cascati in questo tranello. I soggetti in questione sono molto probabilmente uno stereotipo costruito a tavolino, che è stato strumentalmente utilizzato tanto dall’opinione pubblica, quanto dall’ufficio di marketing politico che ha seguito la campagna elettorale del presidente.
La white working class non va dunque intesa come «una categoria demografica, ma come un mito nazionale creato dall’apparato politico» (Bessire, Bond: 2017b). Utilizzare, inoltre, l’aggettivo white per circoscrivere una parte delle popolazione avvalendosi del solo criterio del colore della pelle significa «ridurre l’umanità ad una identità meramente razziale» (ibidem). Le realtà rurali dell’America, così come gli abitanti del Rust Belt o i minatori della Pennsylvania, sono stati dipinti, anche dalle ricerche di molti studiosi, come gruppi umani anacronistici; persone poco colte, che si fanno abbindolare facilmente, sopravvivenze di un passato ormai superato. La loro condizione, però, non è mai stata problematizzata e gli antropologi si sono spesso premurati a parlare di loro e quasi mai con loro (cfr. Moran-Thomas). È necessario, dunque, prendere sul serio anche i “nativi di casa nostra”, ridargli dignità, anche quando la loro opinione e le loro scelte politiche si dimostrano opposte alle simpatie dei riceratori; questo è un duro compito che l’antropologia ha cercato di svolgere per decenni fuori dai propri confini geografici e culturali, e che oggi gli tocca riportare a casa. Pare infatti che oggi, nel ventunesimo secolo, avvenga un ribaltamento di prospettiva per cui la comfort zone dei ricercatori sia paradossalmente diventata il lavoro di campo “lontano”, mentre la ricerca “a casa propria” risulti essere molto più scomoda e imbarazzante.
Ma un altro problema che prepotentemente cattura l’attenzione è quello posto da Doug Kiel, nel suo contributo intitolato Whiteness and the Lengthening arc toward justice, all’interno del quale lo studioso affronta quello che definisce per sommi capi “il tabù della bianchezza”. Ciò che l’autore sostiene è che la categoria di white people è sempre stata proposta acriticamente nel dibattito pubblico, ma che l’analisi e la problematizzazione di tale categoria costituiscono un problema particolarmente spinoso anche oggi in America [6].
«White non è mai stato un termine che ha designato un individuo di discendenza euro-americana o un oggettivo riferimento al colore della pelle. Piuttosto la bianchezza riguarda il potere e include la capacità di definire e controllare ciò che è buono e normale. Proclamare che la bianchezza non ha più potere significa disconoscere cosa è il potere e come opera. Quando le persone bianche lottano, non è a causa del colore della loro pelle – è sempre stato presunto, per esempio (a priori) che le vite dei bianchi contano» [7] (Kiel: 2017).
Questo aspetto tocca il punto più delicato della questione e riporta tutto il discorso al punto di partenza. La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2016 è stata una sconfitta per l’antropologia. L’avvenimento, accolto come un fatto imprevedibile e inaspettato, ci ha messo ancora una volta davanti ad una serie di quesiti che si trovano alla base dei nostri studi. Qual è il vero fine delle scienze sociali? L’antropologia ha davvero una utilità per le società in cui viviamo? Ed infine, come è potuto succedere ancora una volta? L’urgenza e la pressione alla quale ci vediamo sottoposti di fronte ai risvolti storici delle nostre società non devono spaventarci, ma devono spingerci ad indagare ancora una volta, ed ancora di più, chi siamo e cosa possiamo fare.
L’antropologo canadese Maximilian Forte, con toni a volte aggressivi, attacca l’antropologia americana rimproverandole il ritardo nell’avvistamento del fenomeno Trump, e individuando una delle cause del ritardo nella demonizzazione del fenomeno stesso. «La ripetuta invocazione di terrore, minaccia, pericolo e mostri, suggerisce che (gli antropologi) sono troppo fragili emotivamente per fare delle analisi sobrie» (Forte: 2017). Questo, a dire dell’autore, costituisce un forte atto di “disqualificazione” della disciplina. Il coinvolgimento diretto nelle dinamiche che si cercano di studiare non può e non deve portare ad una distorsione della realtà, pena la condanna all’inusabilità totale dei nostri studi e delle conoscenze che per decenni sono state accumulate dagli studiosi che ci hanno preceduto.
Il problema del ruolo dell’intellettuale è da tempo centrale nel dibattito delle scienze umane: Gramsci parlava di «intellettuali rurali» o «tradizionali» il cui ruolo era fondamentalmente quello di mediare ovvero di mettere «a contatto la massa contadina con l’amministrazione state o locale […] e per questa stessa funzione ha una grande funzione politico-sociale, perché la mediazione professionale è difficilmente scindibile dalla mediazione politica» (Gramsci, 1975:1521). In cosa consiste oggi la mediazione tra le masse e lo Stato? Il problema sta nella mediazione comunicativa tra la sfera politica, che costruisce una realtà falsata e la trasmette, e la società, ansiosa di ricevere risposte veloci e facili alle proprie difficoltà e alle cause che le hanno generate. Gli antropologi possono oggi offrire una traduzione semantica della realtà, offrendo alla società tutta, e non solo a quella che rientra nel suo ambiente prediletto, un messaggio alternativo che comunichi trasversalmente a persone diverse per tratti culturali ed economici. Occorre dunque trovare un nuovo linguaggio per parlare alla gente fuori dall’Accademia.
A questo scopo Fischer ha proposto alcuni primi passi su possibili “cose da fare” nel campo degli studi etnografici. La sua to-do-list propone tra le altre cose di ripartire da zero, cercando in primo luogo di ridefinire e comprendere nuovamente le categorie di cultura, genere e razza; adoperarsi per il bene comune, affiancando i giornalisti d’inchiesta nella produzione delle informazioni “vere” (in contrasto al continuo dilagare di fake news); promuovere progetti di pianificazione urbana e sociale collettivi che coinvolgano già nell’ideazione le comunità (come charrette, teatro partecipativo e festival musicali); suggerisce infine la creazione di nuovi vocabolari e un contributo, quello che considero di prioritaria urgenza, nella analisi di come i problemi sono formulati (Fischer: 2017) [8].
L’antropologia, dunque, non può e non deve fornire risposte alternative a quelle date dalla politica, ma deve preoccuparsi prima di tutto di formulare le domande in modo corretto. Ne propongo di seguito alcune:
Come può la conoscenza degli altri insegnarci qualcosa su di noi?
Siamo vittime degli stessi stereotipi che combattiamo?
Cosa è il potere oggi? [9]
Quali strumenti ci servono per combattere questa nuova battaglia?
Cosa abbiamo sbagliato e come possiamo andare avanti?
Sarà finalmente giunta l’ora per gli intellettuali di scendere dalle Torri d’avorio?
Come possiamo riconoscere l’alterità se non sappiamo cosa siamo veramente noi?
Cosa ci rende diversi dagli elettori di Trump?
Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
Note
[1] Non occorre, in questa sede, riportare le imbarazzanti dichiarazioni o gli assurdi provvedimenti in ambito di migrazioni, politiche ambientali e politica estera messi in atto dall’attuale presidente degli Stati Uniti per definite l’entità del personaggio in questione.
[2] Durante il discorso, reso noto dallo slogan estremamente nazionalista “America first”, Donald Trump ha invitato i cittadini a “comprare americano e assumere americano” e declamato la promessa di rendere di nuova l’America grande (“America greatagain”). Una interessante analisi del discorso di insediamento si può leggere qui: http://www.doppiozero.com/materiali/il-discorso-di-insediamento-di-donald-trump e qui http://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2017/01/21/donald-trump-presidente-insediamento .
[3] Le Parole di Harding esprimono bene lo sgomento provato tanto dai cittadini, quanto dagli studiosi di scienze sociali: «Il nostro senso comune e le nostre teorie intellettuali ci hanno garantito per alcune decadi che persone come Falwell stavano scomparendo, presto si sarebbero estinte, incapaci di sopravvivere alla ragione e alla scienza […]. Improvvisamente, a quanto pare, i fondamentalisti sono tornati. Ma da dove vengono? Dove sono stati tutto questo tempo? E come sono riusciti a sopravvivere? Con l’elezione di Trump ci troviamo di nuovo davanti a queste domande … come è potuto succedere?» (Harding: 2017) .Falwell è stato il leader del movimento della Moral Majority, lobby conservatrice di matrice evangelica (http://www.treccani.it/enciclopedia/moral-majority_(Dizionario-di-Storia)/ ).
[4] Mi riferisco in particolare al sito Cultural Anthropology, che ha pubblicato un’intera serie intitolata The rise of Trumpism accogliendo ben sedici contributi da parte di studiosi appartenenti a diversi nuclei accademici, al portale canadese Zero anthropology, ma anche ad altre piattaforme di informazione come Huffington Post, Indipendent e Inside higher ed. La panoramica qui proposta è molto limitata e parziale. Le cause di questa limitazione sono dovute principalmente all’impossibilità di leggere tutto il materiale presente sul web e di stare al passo con la pubblicazione di articoli e contributi, sempre più prolifica e veloce. Altre limitazioni sono legate anche ad una selezione delle fonti: si è cercato, infatti, di consultare le fonti ritenute maggiormente accreditate e più vicine all’ambito di conoscenze e di interessi dell’autrice.
[5] A questo proposito è importante ricordare, come fa Butler, che la vittoria di Trump è stata anche dovuta alla particolarità della legge elettorale americana che ha fatto sì che l’imprenditore vincesse le elezioni con un numero di voti inferiori rispetto a quelli di Hillary Clinton (cfr. Butler: 2017).
[6] A sostegno di questa l’autore racconta della minaccia da parte di alcuni legislatori del Wisconsin, di sospendere i finanziamenti all’università se il corso “The Problem of Whiteness” non fosse cancellato.
[7] Questa ultima frase rimanda allo slogan della protesta di molti cittadini americani, dalla pelle nera, contro l’uccisione da parte delle forze dell’ordine di giovani afro-americani “Black lives matter”.
[8] Un suggerimento che propongo è inoltre quello di ampliare il dibattito interno alla disciplina a studiosi provenienti da diverse aree geografiche e culturali, offrendo maggiore spazio ai ricercatori di origine “Non-occidentale”. Questo tipo di proposta non vuole recuperare uno stereotipo culturale, sono infatti ben consapevole che l’antropologia è per sua costituzione una scienza occidentale; ritengo tuttavia che il contributo di studiosi con un background culturale differente da quello occidentale, pur essendosi formati in America o in Europa, possa arricchire il dibattito e offrire prospettive di analisi non ancora esplorate.
[9] In relazione a questo tema è di grande importanza rileggere Foucault e analizzare i dispositivi di potere a partire dalla biopolitica, di cui anche noi siamo responsabili. Alcune università, all’indomani dell’elezione di Donald Trump hanno organizzato un importante convegno su Foucault, i cui contributi saranno pubblicati nel testo intitolato Society must be difended.
Riferimenti bibliografici
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Forte, Maximilian C., “Trump and Anthropology”, Zeroanthropology website, November 17, 2016. https://zeroanthropology.net/2016/11/17/trump-and-anthropology/
Ginsburg, Fay,. “Contested Lives and the Specter of Trump”, Hot Spots, Cultural Anthropology website, January 18, 2017. https://culanth.org/fieldsights/1035-contested-lives-and-the-specter-of-trump
Gramsci Antonio, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, in Quaderni dal carcere. Quaderni 12-29 (1932-35) , Einaudi Torino 1975
Harding, Susan. ”A We Like Any Other.” Hot Spots,Cultural Anthropology website, January 18, 2017. https://culanth.org/fieldsights/1036-a-we-like-any-other
Janssen, Brandi, “Making Rural America Great Again”, Hot Spots, Cultural Anthropology website, January 18, 2017. https://culanth.org/fieldsights/1037-making-rural-america-great-again
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Leonardo, Micaela, “The Trumpocalypse and Black Radio”, Hot Spots, Cultural Anthropologywebsite, January 18, 2017. https://culanth.org/fieldsights/1033-the-trumpocalypse-and-black-radio
Marcuse, Herbert, L’uomo a una dimensione, Einaudi,Torino 1964
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Prins, Harald E.L. ,”Rumpets at a Kansas Parade”, Hot Spots, Cultural Anthropology website, January 18, 2017. https://culanth.org/fieldsights/1041-trumpets-at-a-kansas-parade
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Savage, Ritchie, “Politics as Volkation”, Hot Spots,Cultural Anthropology website, January 18, 2017. https://culanth.org/fieldsights/1043-politics-as-volkation
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Walley, Christine J., “Why Did the Rust Belt Flip?”,Hot Spots, Cultural Anthropology website, January 18, 2017. https://culanth.org/fieldsights/1047-why-did-the-rust-belt-flip
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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione.
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