dialoghi sul negazionismo
di Linda Armano
Parlare del significato di negazionismo e ciò che il negazionismo provoca, è un argomento estremamente complesso che andrebbe sottoposto a varie griglie di lettura e ad analisi interdisciplinari. Il presente articolo non può porsi quindi l’obiettivo di essere esaustivo nel fornire un significato sociale, culturale e politico-economico del concetto di negazionismo – che invece è un argomento assolutamente aperto a sempre nuovi stimoli interpretativi – ma intende proporre alcuni esempi in cui il concetto di negazionismo è stato applicato come costrutto teorico.
Il tema del negazionismo è emerso, in maniera particolarmente forte, negli ultimi tempi in relazione al Covid. Nonostante non sia, per motivi di spazio, l’obiettivo di questo contributo, sarebbe estremamente interessante analizzare come questo argomento sia affrontato dai mass media, da articoli online e dalle notizie trasmesse in televisione. Anzi credo che questo potrebbe essere un tema degno di essere sviluppato in maniera sistematica al fine di creare una serie di classificazioni da cui partire per analizzare le rappresentazioni culturali sostenute da schieramenti socio-politici opposti. Questa sorta di grammatica rappresentazionale potrebbe essere un lavoro utile a leggere in profondità la situazione socioculturale, politica ed economica sia all’interno dei nostri confini sia in un contesto globale.
Per inquadrare meglio l’argomento, è necessario fare una prima distinzione tra negazionismo e revisionismo. Se con quest’ultimo si intende l’interpretazione di fatti storici tramite ricostruzioni che divergono da quelle comunemente accettate, il negazionismo consiste invece nel giungere a negare alla radice la veridicità stessa di alcune vicende storiche che pure si ritiene siano accertate attraverso il supporto di un solido apparato documentale e testimoniale (Galazzo 2016). Da qui si evince la differenza di atteggiamenti attraverso cui il revisionista e il negazionista esprimono il proprio giudizio riguardo ad una vicenda storica. Essenzialmente diversi sono anche gli intenti dei due ruoli nei confronti dei destinatari delle tesi sostenute. Se da un lato il revisionismo mira alla persuasione mediante l’instaurazione di un rapporto dialettico con chi aderisce alle ricostruzioni comunemente accettate, il negazionismo si caratterizza invece per la richiesta di un’adesione acritica ad affermazioni categoriche e non discutibili.
Il concetto di negazionismo è stato comunemente e storicamente relazionato all’insieme delle teorie e delle affermazioni con le quali pseudo-storici e divulgatori di vario genere tentarono, e tentano, di negare che la Shoah ebbe luogo. Uno degli obiettivi raggiunti dalle politiche naziste fu infatti quello di favorire la negazione dell’Olocausto proprio nel momento stesso in cui veniva consumato in tutta Europa. L’Olocausto fu trattato come un segreto di Stato nella Germania nazista e i tedeschi cercarono di lasciare il minor numero di documenti scritti possibile. La maggior parte degli ordini che portarono ai massacri furono invece dati verbalmente, soprattutto ai livelli più alti della gerarchia. I leader nazisti generalmente evitavano di pianificare in maniera dettagliata le uccisioni, preferendo procedere in modo certamente sistematico, ma allo stesso tempo improvvisato. Ancora prima della fine della Seconda Guerra Mondiale i nazisti cominciarono a distruggere la maggior parte dei documenti esistenti. Le fonti rimaste, le quali provavano direttamente i piani di sterminio, essendo classificate “Geheime Reichssache”, ossia riservatissime, seguivano regole speciali sia per quanto riguarda il loro uso sia relativamente alla loro distruzione, proprio per evitare che cadessero nelle mani nemiche. Nel 1943, in un discorso segreto ai generali delle SS a Posen, Heinrich Himmler, comandante delle SS di tutto il Reich e della polizia, sostenne che lo sterminio degli Ebrei europei doveva rimanere segreto e non doveva essere documentato in nessun modo (Aharony, Rosenfeld 2016).
La negazione dell’Olocausto, così come la minimizzazione o la distorsione dei fatti avvenuti in quel periodo, rappresentano una forma di vero e proprio antisemitismo. Da qui la negazione della validità di un gran numero di prove schiaccianti, fino al punto di rovesciare le cause dello sterminio sulla responsabilità degli alleati, del governo comunista dell’Unione Sovietica e degli stessi Ebrei. La logica che sosteneva questo tipo di negazionismo si basava sul fatto che gli alleati avessero bisogno di un “mito dell’Olocausto” per giustificare l’occupazione della Germania nel 1945 e, successivamente, per richiedere le pene per gli imputati nazisti nei processi del dopoguerra. Inoltre i negazionisti sostenevano che gli ebrei avevano bisogno di questa narrazione per ottenere i risarcimenti da parte della Germania e per giustificare la creazione dello Stato di Israele. Il negazionismo legato all’Olocausto continuò per molto tempo, fino ai giorni nostri, arrivando a sostenere che, anche se gli ebrei morirono nel corso della Seconda Guerra Mondiale, il loro numero era assolutamente inferiore rispetto a quello accertato dalla storiografia ufficiale, definita a sua volta come storiografia “olocaustica” o “sterminazionista”.
Questo tipo di negazionismo si colloca all’interno di una costellazione ideologica chiamata “giudeocentrica”, ossia una lettura dei fatti storici che vede sempre gli ebrei come responsabili principali degli avvenimenti accaduti. Tale ideologia è stata classificata attraverso quattro elementi principali:
1) negazione che il regime hitleriano avesse pianificato lo sterminio degli ebrei;
2) negazione dell’utilizzo omicida delle camere a gas;
3) riduzione del numero degli ebrei uccisi nei lager e attribuzione della morte a malattie contratte nei campi o ad eventi correlati alla guerra;
4) configurazione della Shoah come una gigantesca truffa ordita dagli ebrei/sionisti per acquisire potere e/o estorcere denaro colpevolizzando le nazioni occidentali, Germania in primis, e soprattutto per legittimare la nascita e le politiche espansioniste dello Stato di Israele.
Molti autori (per. es. Perger et al. 2013; Kühne 2013) affermano che i prodromi del negazionismo risalgono all’immediato dopoguerra, a ridosso dei processi di Norimberga e della fondazione dello Stato di Israele. Nel 1948 venne inoltre pubblicato in Francia il primo pamphlet proto-negazionista intitolato Nuremberg ou la terre promise e scritto da Maurice Bardèche, romanziere e saggista francese che fu ardente sostenitore del regime filo hitleriano di Vichy. In questo libro antisemita che imputa agli ebrei di essere stati i principali responsabili dello scatenamento della Seconda Guerra Mondiale, la Shoah non viene negata in termini assoluti ma fortemente ridimensionata. Secondo la ricostruzione di Bardèche l’eccidio degli ebrei d’Europa rivestì un’importanza trascurabile. In altre parole, i lager tedeschi venivano descritti come luoghi dove i detenuti erano ben accuditi, forniti di cibo ed assistenza medica. La morte degli ebrei venne quindi attribuita ai bombardamenti degli Alleati e alle epidemie. Secondo Bardèche, i campi di sterminio sarebbero stati un’invenzione della propaganda alleata per distrarre l’attenzione dai crimini commessi dai vincitori (bombe incendiarie su Dresda, atomiche su Hiroshima e Nagasaki) e il materiale documentario sui lager sarebbe stato truccato.
I sostenitori del negazionismo si autodefiniscono “storici revisionisti” interessati a rivedere gli studi attuali (Moses 2002, Evans 2001), che essi definiscono in diversi modi, quali “olocaustomania”, “menzogna olocaustica”, “sacra vulgata olocaustica”. Gli studiosi hanno iniziato a privilegiare l’impiego del termine negazionismo al posto di revisionismo a partire dal 1987 su ispirazione dello storico francese Henry Rousso, in quanto la parola negazionismo spiegherebbe più compiutamente il fatto come questo sistema di pensiero rientri in una dimensione ideologica e non è sostenuto da un procedimento scientifico o storiografico.
Il concetto negazionismo: alcuni casi di studio
Nel terzo capitolo del suo libro intitolato The Elephant in the Room: Silence and Denial in Everyday Life (2006), Eviatar Zerubavel, esplorando i divieti istituzionalizzati che regolamentano socialmente e politicamente cosa guardare, cosa ascoltare e di cosa parlare, sottolinea con forza come ciò che si guarda, ascolta e si discute è fortemente determinato da pressioni normative e politiche. Un esempio tra i più famigerati a tal proposito fu senza dubbio la censura fascista. Com’è noto, dal 1° gennaio 1926 entrò in vigore una nuova legge sulla stampa integrando i provvedimenti già presi nel 1924. In quell’occasione fu predisposto che potessero pubblicare solo quei giornali al cui direttore fosse stato precedentemente permesso di scrivere dalle autorità dello Stato. In tal senso il direttore rispondeva penalmente di quanto stampato nel suo giornale, che potevano continuare a pubblicare solo se erano diretti da un responsabile riconosciuto tramite il prefetto, nominato a sua volta dal Governo. Tutti gli altri giornali erano quindi considerati illegali e, dal 1° gennaio 1926, i soggetti fuorilegge, condannati per reato penale, vennero immediatamente arrestati. La finalità, inutile dirlo, era ottenere il consenso. Come abile ed esperto giornalista, prima ancora di diventare capo del governo, Mussolini sapeva benissimo che le radici del suo potere risiedevano anche in una concreta limitazione della libertà di stampa. Suggerire i pensieri alle masse, fornire loro un’immagine studiata, patinata, filtrata e modellata della realtà divenne sin da subito un compito primario affidato ai gerarchi fascisti e imposto ai direttori dei quotidiani. Fondamentale era per Mussolini l’esempio della Germania. Costruendo in pochi anni una dittatura fortissima, Hitler si pose con forza come guida, il cui potere fu in grado di dominare l’Europa scardinando ogni equilibrio preesistente. Mussolini, si sa, pur volendo creare uno Stato fascista controllore, fece l’errore, poi fatale, di aver lasciato che la Corona e la Chiesa continuassero ad avere degli spazi incontrollati.
Questo ben noto esempio spiega quanto scrive Zerubavel quando afferma che il potere consente alle persone di controllare la quantità di informazioni che vengono loro trasmesse. Il potere implica inoltre il controllo sui limiti dei discorsi accettabili oltre che la capacità di reindirizzare l’attenzione collettiva verso un «cambio di argomento» (Zerubavel, 2006:43).
Nell’ultimo decennio si sono incrementate analisi sociologiche ed antropologiche sul significato e sulle conseguenze del negazionismo. Una di esse è presentata da Pascal Diethelm e Martin McKee (2009) in un loro articolo pubblicato in European Journal of Public Health in cui, facendo riferimento al contributo dei fratelli Chris Jay e Mark Hoofnagle, avvocato e fisiologo statunitensi, hanno contribuito ad un’ulteriore comprensione di che cosa sia il negazionismo:
«The Hoofnagle brothers, a lawyer and a physiologist from the United States, who have done much to develop the concept of denialism, have defined it as the employment of rhetorical arguments to give the appearance of legitimate debate where there is none, an approach that has the ultimate goal of rejecting a proposition on which a scientific consensus exists» (Diethelm, McKee, 2009: 2).
Le considerazioni dei due autori nel loro articolo si rifanno, a loro volta, al paper di Chris Jay Hoofnagle intitolato “Denialists’ Deck of Cards: An Illustrated Taxonomy of Rhetoric Used to Frustrate Consumer Protection Efforts” (2007), in cui lo studioso descrive il negazionismo come: «the use of rhetorical techniques and predictable tactics to erect barriers to debate and consideration of any type of reform regardless of the facts» (Hoofnagle, 2007). Hoofnagle identifica inoltre cinque strategie generali utilizzate dai negazionisti: cospirazione, falso esperto, selettività, aspettative impossibili e metafora. Afferma lo studioso che, attraverso queste procedure e l’uso di una precisa retorica, i negazionisti non cercano di costruire un dialogo quanto piuttosto un risultato. Secondo Hoofnagle, la cospirazione si attua quando alcuni gruppi oppongono resistenza ai dibattiti scientifici sostenendo che questi ultimi siano frutto di una complessa cospirazione segreta. In questo quadro il processo di revisione tra pari è presentato come uno strumento con cui i cospiratori sopprimono il dissenso. Esisterebbe pertanto una variante della teoria del complotto chiamata inversionismo secondo cui alcuni tratti appartenenti ad un contesto vengono attribuiti ad altre circostanze. Spiega Hoofnagle come, per esempio, alcune aziende produttrici di tabacco usano descrivere la ricerca scientifica relativa agli effetti del fumo sulla salute come il prodotto di una propaganda antifumo. L’autore, introducendo nella sua analisi l’esempio del rifiuto delle prove sulla natura dell’AIDS da parte degli afroamericani che le percepiscono come una manifestazione di programmi razzisti (Bogart, Thorburn 2006), afferma la capacità dei negazionisti di sfruttare preoccupazioni diffuse nella società.
I falsi esperti sarebbero, invece, persone che pretendono di essere esperti in una particolare area ma le cui opinioni sono del tutto incoerenti con le conoscenze consolidate. Queste figure furono ampiamente utilizzate nell’industria del tabacco dal 1974, quando un alto dirigente della R. J. Reynolds Tobacco Company, ideò un sistema di valutazione nei confronti degli scienziati che facevano ricerche sulle conseguenze dell’uso del tabacco sulla salute, misurando il loro grado di coinvolgimento nei confronti della Compagnia. L’industria abbracciò questo progetto con estremo entusiasmo soprattutto dagli anni Ottanta, quando un alto dirigente della Philip Morris sviluppò una strategia per reclutare tali scienziati (chiamandoli Whitecoats) in modo da contrastare le crescenti prove sugli effetti nocivi del fumo passivo. Questa attività si svolse in gran parte attraverso organizzazioni di facciata i cui legami con l’industria del tabacco erano pubblicamente celati (Diethelm et al. 2005).
In alcuni Paesi, come per esempio la Germania, l’industria del tabacco creò reti talmente complesse ed influenti da consentire di ritardare per molti anni l’attuazione delle politiche di controllo del tabacco (Grüning et al. 2006). Un altro documento che testimonia il negazionismo applicato a questo settore è l’articolo pubblicato, nel British Medical Journal nel 2003, da Enstrom e Kabat in cui l’autore conclude che l’esposizione al fumo di tabacco non aumenterebbe il rischio di cancro ai polmoni e malattie cardiache. Questo documento fu ampiamente citato da coloro che negavano la nocività del fumo passivo sulla salute e, fino al 2008, anche la Japan Tobacco International lo nominava per rifiutare la relazione tra fumo e malattie polmonari croniche nei non fumatori (Diethelm, McKee, 2009). Un altro esempio esposto da Hoofnagle è quello per cui, nel 1998, l’American Petroleum Institute sviluppò un Global Climate Science Communications Plan, reclutando scienziati che condividevano la vision della cosiddetta climate science, in grado di convincere giornalisti, politici e l’opinione pubblica in generale sull’incertezza del riscaldamento globale allo scopo di non incrementare ulteriori ricerche sui gas serra (Greenpeace Denial and deception: a chronicle of ExxonMobil’s efforts to corrupt the debate on global warming, Accessed on 29 November 2008: http://www.greenpeace.org/usa/assets/binaries/leaked-api-comms-plan-1998).
Esempi di questo genere non si limitano al settore privato. L’amministrazione del presidente George W. Bush era caratterizzata dalla selezione e promozione di consulenti per la salute riproduttiva per la Food and Drug Administration sulla base delle loro convinzioni religiose oppure a seconda delle loro affiliazioni aziendali (McKee e Novotny, 2003). Come consulenti della Food and Drug Administration essi affermavano che la preghiera e la lettura della Bibbia erano la risposta migliore per contrastare la sindrome premestruale (Marchetti, 2002). Un fenomeno correlato è l’emarginazione di veri esperti, in alcuni casi attraverso un’alleanza tra industria e governo, come quando ExxonMobil si oppose con successo alla riconferma da parte del governo statunitense della presidenza dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Lawler, 2002; Michaels, 2008). Il ricorrere a fake experts è spesso complementare alla denigrazione di esperti e ricercatori affermati contro cui vengono lanciate accuse ed insinuazioni che cercano di screditare il loro lavoro e mettere in dubbio le loro teorie.
La terza caratteristica del negazionismo teorizzata da Hoofnagle è la selettività, attraverso cui viene posta enfasi a determinati individui che sfidano il consenso dominante ovvero si mettono in luce i difetti dei soggetti più deboli di una determinata categoria sociale o di pensiero, come mezzo per screditare l’intero campo (Diethelm, McKee, 2009). Un esempio di questo genere è fornito da Diethelm e McKee che, riprendendo l’articolo di Wakefield et al. (1998), descrivono le anomalie intestinali in dodici bambini con autismo, suggerendo una possibile correlazione con l’immunizzazione contro morbillo, parotite e rosolia (Wakefield et al. 1998). Affermano Diethelm e McKee che l’articolo di Wakefield et al. (1998) fu in seguito ampiamente utilizzato da attivisti contro l’immunizzazione, nonostante dieci dei tredici autori dell’articolo ritirarono successivamente il suggerimento dato loro da parte di varie associazioni (Murch et al. 2004). Alla luce di questi esempi, afferma Hoofnagle che i negazionisti non sono solitamente scoraggiati dall’isolamento delle loro teorie, ma piuttosto la loro posizione viene valutata come indicazione del loro coraggio intellettuale contro l’ortodossia dominante.
La quarta caratteristica è la creazione di aspettative impossibili su ciò che la ricerca può offrire. Per esempio, spiegano Diethelm e McKee (2009), coloro che negano la realtà del cambiamento climatico usano l’incertezza intrinseca dei modelli matematici come mezzo per comprendere tale fenomeno. Gli autori spiegano che, negli anni Novanta, Philip Morris cercò di promuovere un nuovo standard, denominato Good Epidemiological Practice (GEP) per condurre studi epidemiologici. Secondo le linee guida GEP meno di due odds ratio (unità di misura del rapporto di probabilità e di rischio) non sarebbero considerati un nesso di causa-effetto tra fumo e malattie polmonari, invalidando in questo modo un ampio corpus di ricerca sugli effetti sulla salute di molte esposizioni.
Il quinto tratto del negazionismo sostenuto da Hoofnagle è l’uso di false dichiarazioni ed errori logici. Continuando a riferirsi all’esempio relativo al fumo, lo studioso afferma che alcuni gruppi pro-fumatori utilizzarono spesso, nei decenni passati, il fatto che Hitler sostenesse alcune campagne antifumo per rappresentare come nazisti coloro che sostenevano il controllo del tabacco (Schneider, Glantz, 2008). Ciononostante altri anziani nazisti erano fumatori e, in quanto tali, bloccavano i tentativi di diffondere la propaganda antifumo e garantire che le truppe avessero scorte sufficienti di sigarette (Bachinger et al. 2008). Hoofnagle sostiene che gli errori logici includerebbero invece tentativi deliberati di falsificazioni in cui l’argomento opposto è travisato per renderlo più facilmente confutabile. Ad esempio, la US Environmental Protection Agency (EPA) stabilì, nel 1992, che il fumo di tabacco ambientale è cancerogeno, scoperta tra l’altro confermata da molte altre autorevoli istituzioni sanitarie pubbliche nazionali e internazionali. La valutazione dell’EPA fu descritta da vari commentatori come un tentativo di istituzionalizzare una particolare visione irrazionale del mondo come unica prospettiva legittima, anche politicamente orientata, tanto da minacciare il cuore stesso della democrazia (Gori e Luik, 1999).
Se l’analisi di Hoofnagle è, grazie agli esempi riportati, tra le più complete valutazioni del negazionismo, altri studi si sono focalizzati sulla questione della salvaguardia dei diritti umani. Moerland et al. (2016) affermano che, nonostante la proliferazione di azioni intraprese da organizzazioni governative e non governative, oltre che da Stati e da comunità internazionali, la violazione dei diritti umani continua a proliferare in maniera dilagante su larga scala. Affermano gli studiosi che il centro del problema sembra essere collegato al fatto che le strutture sociali, economiche, culturali e politiche nei Paesi occidentali forniscono meccanismi di difesa negazionista. Tale negazionismo, profondamente radicato, causa o facilita le violazioni dei diritti umani, dato che la natura intrinseca di tali problemi rimane intenzionalmente non riconosciuta e, di conseguenza, le azioni mobilitate per l’apparente risoluzione del problema sono completamente inutili. Continuano gli studiosi che al fine di salvaguardare l’attuazione dei diritti umani è quindi pertinente riconoscere e affrontare questo problema del diniego e sviluppare strategie per superarlo.
Le riflessioni di Moerland et al. si rifanno alla conferenza internazionale sul tema del negazionismo e dei diritti umani organizzata dal Maastricht Centre for Human Rights nel 2015, in cui si riunirono studiosi e professionisti di varie discipline per affrontare il problema del negazionismo valutandolo attraverso letture derivanti dalla propria area di ricerca.
Un altro studio estremamente interessante è quello di Kari Marie Norgaard (2011). Nel suo importantissimo lavoro la studiosa focalizza l’attenzione su una piccola città rurale norvegese di circa 14 mila persone in cui, sin dai suoi primi giorni di ricerca sul campo nel 2000-2001, notò una strana contraddizione su cui poi costruì il suo problema di ricerca. Se da un lato gli abitanti si dimostravano preoccupate riguardo agli evidenti cambiamenti climatici che, negli ultimi anni, si sono intensificati nella loro nazione come anche nei Paesi del nord del mondo, dall’altro esse evitavano di parlare di questo problema. Questa rimozione emersa nel campo, le consentì di ragionare sul fatto che le notizie sui cambiamenti climatici costruivano una sorta di negazione socialmente strutturata, dove la negazione non è stata intesa dall’antropologa come un aspetto psicologico dell’individuo quanto piuttosto come tratto culturale socialmente diffuso nella comunità. Per articolare il suo ragionamento Norgaard utilizza le tre categorie formulate da Stanley Cohen (2001) relative alla negazione letterale, alla negazione interpretativa e alla negazione implicata. Con la prima si ha l’accantonamento di problemi sociali, climatici, economici ecc. che quindi non vengono diffusi attraverso le notizie. La negazione interpretativa spiega la reinterpretazione delle informazioni che le persone possono raccogliere con vari mezzi (mass media, incontri personali ecc.). La negazione implicata significa invece che l’informazione non viene rigettata ma che le conseguenze politiche, psicologiche e morali non vengono socialmente seguite (Shearer, 2012). Questo aspetto può avere diverse cause. Riprendendo alcuni esempi da lei vissuti in prima persona, Norgaard afferma:
«In the words of one person who held his hands in front of his eyes as he spoke, “People want to protect themselves a bit”. These voices are echoes in the United States. One of my female environmental studies students described how “solving global warming seems like such a daunting task, and even I know that it can seem too overwhelming. Another student observed, “Despite my knowledge of the wider climate issues, I am still living the same life» (Norgaard 2011).
Adattando la frase di Robert J. Lifton (1982) «absurdity of the double life» e coniando il concetto di «double reality», la studiosa spiega la disconnessione tra conoscenza teorica e vita quotidiana. In accordo con il sociologo norvegese Ketil Skogen infatti: «Environmental issues in general and global threats like the greenhouse effect in particular, are seen as abstract and irrelevant, and are generally not something young people think about» (Skogen, 1999: 232). Riprendendo a sua volta anche il lavoro di Eviatar Zerubavel (1997), la studiosa ci ricorda come l’importanza data ad un determinato elemento oppure la sua omissione o rimozione è sempre culturalmente condizionata:
«Separating the relevant from the irrelevant is for the most part a social act performed by members of particular “optical” communities who have been specifically socialized to disattend certain things as part of the process of adopting the distinctive “outlook” of their community. In other words, we learn what to ignore, and only then does its irrelevance strike us as natural or “logical”» (Zerubavel, 1997: 47).
Zerubavel spiega il senso di consapevolezza verso un determinato problema con il concetto “social organization of denial” (2002, 2006). Riprendendo l’idea dello studioso, Norgaard sostiene infatti che ogni comunità più o meno vasta di persone detta le regole riguardo a ciò che deve essere ignorato. In altre parole, sottolinea la studiosa una maggiore necessità di ricerca sulla dimensione normativa riguardo a ciò che è considerato rilevante e irrilevante per un gruppo di persone.
L’importanza dell’etnografia di Norgaard nella cittadina norvegese non sta quindi nel suo interessamento ai cambiamenti climatici in corso, ma nella motivazione per cui così tante persone accettano il fatto che la scienza, pur riconoscendo il problema, non metta in atto alcuna misura di salvaguardia. Problematizzando la questione, la studiosa afferma come questa inazione sociale diventi una norma culturale con caratteristiche strutturali simili all’egemonia. Dal 2008 la cittadina, caratterizzata dalla presenza sia di molte fattorie e da un radicato legame verso le tradizioni che da alcune piccole ma moderne industrie, divenne sede di importanti attività di estrazione del petrolio. Nonostante l’ulteriore degrado ambientale provocato da tale forma di industrializzazione, i residenti negano qualsiasi volontà di manifestare contro problematiche relative all’ambiente come invece avviene sia in altri paesi confinanti, sia in altre aree all’interno dei confini norvegesi. Questo aspetto fa della cittadina un importante caso di studio dal momento che la negazione del problema non riguarda semplicemente, riprendendo la categorizzazione di Cohen, un diniego letterale. Norgaard nota infatti diversi modi in cui l’organizzazione della negazione funziona.
Esplorando il problema, la studiosa fa uso di vari concetti, chiavi di lettura e reazioni sociali che riguardano la percezione del rischio, le azioni di movimenti ambientalisti e movimenti per la difesa dei diritti umani. L’antropologa considera inoltre la storia politica, economica e le dinamiche socio-culturali della Norvegia al fine di inserire i comportamenti degli abitanti della cittadina nel preciso contesto del Paese nordico. Norgaard osserva infatti che nella cittadina c’è un’omogeneità nella distribuzione delle risorse economiche e una bassa percentuale di povertà. Nel suo contesto di studio, la studiosa ipotizza una relazione tra negazionismo ed un benessere economico diffuso che potrebbe spiegare i comportamenti – consapevoli o inconsapevoli – che minimizzano i problemi ambientali, anche per il fatto che la maggior parte degli abitanti della comunità dipendono economicamente dalle risorse petrolifere. Norgaard compara quindi situazioni che accadono in altre città vicine le quali invece attraggono l’attenzione pubblica verso i problemi ambientali attraverso ripetute manifestazioni e proteste. Tale comparazione è illuminante, in quanto consente di studiare le diverse reazioni socioculturali di fronte ad uno stesso problema all’interno di realtà sociali anche spazialmente vicine.
Essendo focalizzata sul problema del negazionismo, Norgaard studia indirettamente anche la questione relativa a come e perché le persone invece si attivino per ribellarsi alle situazioni che non accettano. Attraverso una continua comparazione tra differenti comportamenti sociali, l’antropologa si interroga sul motivo del diverso livello di consapevolezza che a sua volta attiva diverse risposte e reazioni. Lungo il suo ragionamento, Norgaard mostra come gli abitanti della cittadina si auto classifichino come “gente per bene”. Tale categorizzazione socioculturale le consente di penetrare in profondità il problema della loro negazione verso i problemi ambientali. L’antropologa identifica pertanto quattro reazioni chiave della maggior parte delle persone della cittadina: paura, colpa, impotenza e crisi di identità. Queste reazioni sembrerebbero essere, secondo Norgaard, gli elementi portanti per la strutturazione di un silenzio duraturo ovvero la dissociazione verso i problemi ambientali in quanto, sostiene la studiosa, gli abitanti della cittadina non hanno nessun’altra alternativa rispetto a queste visioni del mondo. Tale aspetto è ulteriormente rinforzato da una narrazione generale in grado di costruire una forte identità sociale attraverso l’immagine tipica delle cittadine norvegesi abitate da gente semplice ed affezionata alle proprie tradizioni.
Fornendo un significato al rafforzamento della negazione a livello collettivo, Norgaard segue la teoria di Gramsci secondo cui il potere politico si servirebbe della negazione per mantenere ed incrementare benefici politici annullando qualsiasi forma critica. Nel caso specifico la negazione si costruirebbe quindi in difesa dell’attività di sfruttamento delle risorse petrolifere e delle attività collaterali dei settori produttori di energia, i quali a loro volta sono protetti da regolamentazioni statali e multilaterali. L’origine di tale strategia andrebbe, secondo la studiosa, individuata temporalmente nel corso degli anni Ottanta con il ritiro della Norvegia da una posizione di leadership contro il surriscaldamento climatico al fine di appoggiare una strategia politico-economica a favore di un progressivo sfruttamento delle risorse non rinnovabili. Il fulcro del problema è, per Norgaard, individuare la negazione nell’interspazio tra le strategie politiche nazionali e di macro scala e la vita quotidiana.
«We think not only as individual and as human beings but also as members of particular communities with certain distinctive cognitive traditions that affect the way we process the world in our mind» (Zerubavel, 1997). Alla luce degli esempi forniti, il negazionismo, se assunto come concetto, deve essere di volta in volta applicato, come per altri costrutti teorici, a singoli casi di studio. In questo contributo sono stati forniti non solo alcuni esempi di analisi, ma anche alcune chiavi di lettura e categorie teoriche che aiutano a sistematizzare i problemi che il negazionismo fa emergere. Un concetto suggerito da Zerubavel è quello di “sociomental topography” (Zerubavel 2003) con il quale lo studioso invita ad indirizzare l’attenzione su come ogni gruppo di persone socialmente organizzato concepisce, grazie ad un’interpretazione culturale del proprio passato, ciò che è lecito o illecito pensare nel presente e nel futuro. In altre parole, suggerisce Zerubavel, buone analisi dovrebbero essere focalizzate non tanto sui fatti accaduti, ma su ciò che le persone scelgono, implicitamente o esplicitamente, di ricordare, di negare o di reinterpretare.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.
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