Le problematiche più critiche del nostro tempo, riferibili soprattutto alle pandemie planetarie che da qualche anno ci affliggono, ma anche alle catastrofi ecologiche e alle guerre o alle carestie dei popoli migranti verso l’Occidente, hanno imposto un ripensamento di quelli che sono stati i pilastri epistemologici del pensiero scientifico contemporaneo. Si è andata via via affievolendo l’idea di una centralità dell’uomo come unico essere pensante sulla terra, che lo dotava della facoltà di controllo ma anche del potere di sfruttamento delle risorse disponibili in natura. Si è ritenuto così, a torto più che a ragione, che tale accumulazione progressiva dei beni materiali, fosse garanzia del benessere economico delle società a capitalismo avanzato e di un miglioramento costante della qualità della vita delle popolazioni interne al sistema.
Malauguratamente le cose non sono andate secondo le previsioni profetiche di una filosofia liberista, dal momento che le tragedie che sono oggi sotto gli occhi di tutti, appaiono piuttosto come gli effetti disastrosi di una politica ambientale distorta e dissennata.
Da qualche anno numerosi studiosi, da varie parti del mondo, hanno tentato di correre ai ripari, facendo appello ad un maggiore equilibrio fra l’uomo e la natura, nel rispetto di ciò che ci circonda e nella considerazione che anche le diverse specie viventi e non viventi, animate e inanimate possano, a vari livelli, dire qualcosa e abbiano il diritto di essere ascoltate.
Le scienze antropologiche in particolare, che avevano incentrato, già a partire dall’evoluzionismo ottocentesco, la propria riflessione sul rapporto natura/cultura, considerando quest’ultima una prerogativa esclusiva dell’uomo come essere sociale, sono state costrette a interrogarsi e chiamate a rivedere le proprie posizioni. Ne è nata l’esigenza di una nuova antropologia che possa spingersi oltre l’umano, superando confini e barriere che hanno escluso la natura da ogni pensiero razionale e da ogni facoltà comunicativa. Bisognerebbe invece riconsiderare il cosmo come un tutto vivente, interrelato nelle diverse componenti e animato da molteplici potenzialità di espressione.
Basti ricordare i più recenti contributi di Descola, Viveiros De Castro, Latour e Kohn per capire come la distinzione fra ragione umana e realtà esterna sia stata in fin dei conti un prodotto relativo e transitorio, riferibile alla storia economica e sociale dell’Occidente. Gli studi e le ricerche etnografiche condotte da questi studiosi presso società geograficamente e culturalmente lontane dalla nostra come la foresta tropicale dell’Amazzonia, hanno dimostrato la labilità di certi confini e hanno messo in luce un diverso modo di percepire segni e segnali da parte di tutto l’universo.
Un’ulteriore spinta verso posizioni più radicali volte al ribaltamento dell’idea stessa di conoscenza, arriva dall’ultimo contributo di Tim Ingold, dal titolo Corrispondenze, edito da Raffaello Cortina (2021). Un titolo strategico che – come vedremo – diverrà la chiave di lettura e il leit motiv di tutta la sua riflessione. Col termine ‘corrispondenza’ l’autore intende infatti un diverso approccio verso il mondo circostante, destrutturando così le modalità tradizionali dei processi conoscitivi. Finora – osserva l’antropologo – la conoscenza è stata considerata, nel sistema capitalistico, come progressiva accumulazione di saperi e trasmissione di contenuti: uno scarto metabolico fra input e output, in vista del raggiungimento di obiettivi prefissati. Questa concezione accademica del sapere ha determinato una separazione settoriale fra le varie discipline che, a secondo del proprio ambito di studi, si sono impegnate nell’enunciazione di modelli teorici e nella loro possibilità di una verifica ritenuta oggettiva.
La conoscenza è invece una forma di corrispondenza, intesa non come relazione “tra”, ma come relazione “con”, nel senso di un procedimento congiunto verso un cammino senza meta, aperto e in divenire, privo di alcuna finalità. Proprio come il rapporto epistolare fra due vecchi amici, che avviene in senso dialogico, con i suoi tempi di attesa fra una lettera e la sua risposta: un percorso comune che cresce di volta in volta, acquisendo stimoli esterni, talvolta in modo puramente casuale, che si sovrappongono e attraversano la dimensione esperienziale del mittente e del destinatario.
Questa diversa percezione della conoscenza come corrispondenza trova una sua esemplificazione diretta nella struttura stessa del volume: ventisette saggi brevi, introdotti da una nota preliminare, in cui si enuncia ogni volta l’occasione contingente che ha fatto da stimolo alle riflessioni seguenti. Lo sguardo verso un’opera d’arte o un’installazione, un’intervista, un seminario. Da qui il dipanarsi di una serie di pensieri in più direzioni, senza enunciati né conclusioni, in una modalità di registro mai assertivo.
Si ha la sensazione, leggendo queste pagine, di essere in viaggio o meglio di attraversare un labirinto, soffermandosi di volta in volta ad ascoltare le voci del mondo esterno per registrarne le diverse storie che hanno camminato con noi. Una passeggiata nel bosco può, ad esempio, divenire occasione per riflettere sulla convivialità di quell’intreccio di alberi che prima e dopo di noi hanno continuato e continueranno la loro esistenza; oppure il ricordo di un luogo vissuto dall’autore in prima persona, che ha accompagnato le diverse fasi della sua vita, circondato e immerso in un paesaggio lacustre dove un grosso macigno sta sempre in bilico trattenuto dai muschi e dalla vegetazione. Altrove l’antropologo scozzese si ritrova a riflettere sul significato dell’ombra, come prova del carattere effimero della vita in generale, col suo svanire e riapparire in relazione ai movimenti del sole.
Ogni situazione descritta è, in definitiva, un invito al lettore ad accostarsi alla realtà esterna con stupore e meraviglia, allo stesso modo di un bambino che si affaccia per la prima volta alla vita. Un invito alla cura e all’attenzione verso ogni esperienza vissuta, per essere in grado di percepirne i mutamenti, garantirne la massima apertura e il confronto fra tanti approcci possibili.
Eloquente, a questo proposito, è il caso della pietra di Selinunte, a cui l’autore dà voce per raccontarne l’evoluzione: la sua nascita in acqua e poi la sua lenta formazione fino a raggiungere lo stato solido, estratta dalla cava per divenire colonna da assemblare per la costruzione di un tempio, e di nuovo a terra per gli effetti del terremoto, rovina da ammirare sotto lo sguardo dei visitatori, infine sollevata da una gru per volere degli archeologi e ritornare in posizione eretta.
Ogni materia, ogni elemento della natura ha una storia da raccontare. L’antropologia deve saperla cogliere e restituirla in una forma narrativa, deve farsi racconto per destare nel lettore un coinvolgimento emotivo, sensoriale. Ma per seguire questa missione e restituire al mondo tutte le sue possibili metamorfosi, l’antropologia deve spogliarsi del ruolo accademico che ha rivestito finora, non deve più trasmettere un sapere dogmatico ma, al contrario, porsi come l’arte e la filosofia, cogliendo la vita allo stato nascente.
A questo punto il progetto di Ingold assume un significato etico e politico che fa appello all’educazione intesa come continua percezione della vita nel suo perenne morire e rinascere. L’esercizio dell’antropologo è pertanto un esercizio riflessivo in un sentire e pensare l’esterno e l’interno attraverso l’osservazione e l’auto-osservazione. Non più l’osservazione partecipante della ricerca etnografica finalizzata alla raccolta dei dati e alla loro restituzione attraverso la scrittura antropologica. Ma, al contrario, un «continuo imparare a imparare con meraviglia» – sono parole dell’autore. L’educazione non può essere intesa come istruzione e trasmissione di contenuti, un insieme di norme calate dall’alto. Questo ha fatto sì che la cultura sia stata considerata un processo di progressiva accumulazione, in senso frammentato e divisivo, determinandone la chiusura e la capitalizzazione e, in ultima analisi, la colonizzazione del sapere.
Per questo Ingold guarda al tramonto della civiltà industriale, tecnologica e meccanica, auspicando un ritorno del “sentire-pensare” artigianale: mentre la prima segue standard prefissati e procede per strade collaudate, affinché il risultato sia riconoscibile, il bravo artigiano prosegue sempre su misura, verificando l’esito di volta in volta. Il sentire/artigianale non è una replica passiva, imitazione meccanica, ma è ogni volta una creazione.
Da qui l’elogio della scrittura a mano su carta, che contrariamente a quella digitale sulla tastiera, consente la trasposizione fluida di un pensiero che si dispiega in modo lineare sulla superficie attraverso il contatto della punta della penna sul foglio. Proprio come l’archetto che toccando le corde di un violoncello, fa scaturire il suono musicale quasi per magia.
Ingold insiste in sostanza su una nuova pratica intellettuale che opponga «in luogo dell’accumulo del modello lineare e progressivo, l’economia saggia della parsimonia del modello circolare; in luogo dell’informazione, la formazione; in luogo della quantità dei dati, la loro elaborazione qualitativa».
Si tratta, in definitiva, di una radicale inversione di tendenza trasversale, su cui è opportuno riflettere e che richiama gli antropologi, in primo piano, ma tutti gli studiosi in generale, a nuove responsabilità, nel tentativo di fermare l’impoverimento e il declino del mondo contemporaneo.
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Riferimenti bibliografici
Descola, Philippe
2014 Oltre natura e cultura, trad. it. E. Bruni, SEID, Firenze
Kohn, Eduardo
2021 Come pensano le foreste, Nottetempo editore, Milano
Latour, Bruno
2000 Politiche della natura: per una democrazia delle scienze, trad. it. di M. Gregorio, Raffaello Cortina, Torino
Viveiros de Castro, Eduardo
2017 Metafisiche cannibali: elementi di antropologia post-strutturale, trad. it di M. Galzigna e L.Liberale, ombre corte, Verona
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017)
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