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Per una resistenza dei luoghi alla globalizzazione

Radiografie di un abbandono, Arres, tecnica mista (collezione privata)

Radiografie di un abbandono, Arres, tecnica mista (collezione privata)

CIP

di Gianluca Serra [*]

Irretiti dal globalismo 

Che le culture dominanti abbiano sempre impresso il loro marchio su quelle per così dire soccombenti non è una novità della storia contemporanea. Il quid novi è semmai la scala alla quale il fenomeno di omologazione e indifferenziazione culturale si sta verificando in un mondo iperconnesso a trazione capitalistica in cui le catene globali del valore scarnificano, frantumano e spianano paesaggi naturali e simbolici per fare largo alle rampanti curve di domanda e offerta interessate solo ad incontrarsi in quel luogo astratto che è il punto di equilibrio del mercato.

Un esempio plasticamente illustrativo degli effetti negativi che la globalizzazione economica può produrre sulla specificità dei luoghi e degli ecosistemi è rintracciabile nel settore ittico dove la civiltà delle tonnare è stata progressivamente liquidata ed espulsa dalla storia economica del Mediterraneo per l’affermarsi, nell’ultimo trentennio del Novecento, di un paradigma tecnologico più efficiente e redditivo: la “tonnara volante”. Un termine, quest’ultimo, che è già tutto un programma topico: annuncia, infatti, la recisione del cordone ombelicale che, fino all’inizio del secolo passato, legava la millenaria pesca del tonno con “tonnara fissa” ad una cinquantina di località costiere italiane, ove saperi tecnici contestuali e pratiche sociali avevano definito una cultura che, parafrasando Braudel, era un tratto unificante e distintivo della marineria mediterranea.

 Gabbie offshore nel Mediterraneo (foto da IRPIMEDIA  Cf. https://irpimedia.irpi.eu/mattanza-invisibile-tonno-rosso/)

Gabbie offshore nel Mediterraneo (ph da IRPIMEDIA Cf. https://irpimedia.irpi.eu/mattanza-invisibile-tonno-rosso/)

La tonnara volante è un modello di sfruttamento della risorsa alieutica che opera al di fuori del vincolo biologico della stagione riproduttiva in quanto, diversamente dalla tonnara tradizionale, non attende i branchi di tonni sotto costa tendendo loro temporanee reti di posta fissa, ma li cerca in mare aperto con aerei, radar ed ecoscandagli in qualunque stagione per circuirli con una immensa rete a sacca manovrata da potenti barche a motore. Il successo della tonnara volante non discende solo dalle economie di scala associate alla destagionalizzazione delle catture ma anche da aspetti squisitamente organizzativi. La nuova azienda tonniera è di norma una multinazionale che, per ottimizzare i costi d’esercizio, copre l’intera catena del valore dalla cattura massiva dei tonni allo stoccaggio e processamento in navi di supporto (vere e proprie fabbriche galleggianti). In alternativa all’uccisione immediata, i tonni catturati con le tonnare volanti possono essere trasferiti in gabbie offshore per l’ingrasso così da accrescerne il valore in vista della vendita a peso d’oro sul mercato finale (per l’80% giapponese). In sintesi, il modello di pesca della tonnara volante, oltre ad aver contribuito alla chiusura di una florida industria che radicava consistenti comunità umane alle zone costiere italiane, espone la specie Thunnus thynnus al rischio di estinzione con gravissime conseguenze per la biodiversità dell’ecosistema marino. 

Stabilimento della tonnara di Capo Granitola in abbandono, anni 80 Foto da Serra G., Le tonnare di Capo Granitola e Sciacca, Sciacca 2021:119

Stabilimento della tonnara di Capo Granitola in abbandono, anni 80 (ph. Serra  da G., Le tonnare di Capo Granitola e Sciacca, Sciacca 2021: 119)

Il destino (già scritto?) dei luoghi periferici 

L’omologazione culturale intrinseca alle dinamiche del capitalismo globale si accompagna alla polarizzazione della geografia umana fra centri e periferie. Centri che detengono il potere politico-economico e definiscono i modelli culturali di riferimento. Periferie che, quando non accettano di piegarsi al ruolo di spazi di consumo di tali modelli, finiscono per abbracciare la peggior sorte di diventare spazi in abbandono, desertati da chi sceglie di migrare attratto dalla promessa di progresso irradiata da un luogo riconosciuto come centro egemone.

Dentro questa dinamica, e con tutto il carico della sua complessità storico-geografica, vive anche il nostro Paese che, nella fotografia scattata dall’ISTAT nel 2022 su una base dati del 2020 [1], risulta composto per oltre il 48% da comuni di “aree interne”, vale a dire comuni (“intermedi”, “periferici” e “ultraperiferici”) che distano da 28 a 67 minuti dai comuni “centri” (“polo”, “polo intercomunale” e “cintura”) dotati, in un raggio massimo di 28 minuti, almeno di una scuola superiore, di un ospedale con tutti i reparti e di una stazione ferroviaria con collegamenti diretti e di lunga percorrenza.

I comuni delle “aree interne” sono 3834 (su un totale di 7903), di cui solo il 15,5% affacciati sul mare. Coprono il 59% del territorio nazionale e sono situati per il 91% in zone montuose e collinari. In essi risiede solo il 23% della popolazione nazionale (13,4 milioni di abitanti sui quasi 60 totali), con una densità abitativa di 76 persone per chilometro quadrato (contro i 368 dei “centri”). Le “aree interne” non sono distribuite in maniera uniforme sul territorio italiano: nelle regioni del Sud il 36% della popolazione vive in “aree interne” (contro l’11% del Nord-Ovest, il 18% del Nord-Est, il 20% del Centro). In Sicilia la percentuale sale al 48% anche se l’isola non detiene il record nazionale (sul podio: Trentino Alto Adige 52,3%, Molise 68,5%, Basilicata 79,5%).

Dal 2000 al 2020, la popolazione delle “aree interne” ha registrato un calo di quasi l’1,5% (contro la crescita del 6% dei comuni “centri”) al quale hanno contribuito due concomitanti saldi negativi: quello naturale (numero di morti superiore a quello dei nati) e quello migratorio (numero di cancellazioni per trasferimento di residenza da un comune superiore a quello delle iscrizioni nello stesso). Il trend lascia prevedere che entro il 2030 la popolazione delle “aree interne” scenderà del 4,2% (e quella dei “centri” dell’1,6%). L’invecchiamento della popolazione è un ulteriore fattore di criticità: l’indice di vecchiaia (rapporto fra la popolazione residente con almeno 65 anni e quella nella fascia di età 0-14 anni) è nettamente più elevato nelle “aree interne” (196,1) rispetto ai “centri” (178,8).

Mappa ISTAT delle aree interne 2020 Cf. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Politiche di Coesione e per il Sud, Aggiornamento 2020 della mappa delle aree interne, 14 febbraio 2022, https://politichecoesione.governo.it/media/2831/20220214-mappa-ai-2020-nota-tecnica-nuvap_rev.pdf

Mappa ISTAT delle aree interne 2020 Cf. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Politiche di Coesione e per il Sud, Aggiornamento 2020 della mappa delle aree interne, 14 febbraio 2022, https://politichecoesione.governo.it/media/2831/20220214-mappa-ai-2020-nota-tecnica-nuvap_rev.pdf

In sintesi, la statistica demografica ci consegna un’immagine dalla quale emerge con nettezza che interi comuni del nostro Paese si stanno progressivamente svuotando di energie umane (intellettuali e fisiche) e, per conseguenza, di vissuti e saperi locali, di pratiche sociali e sistemi valoriali, di servizi pubblici o privati essenziali (dalla scuola alla farmacia, dall’ufficio postale al presidio ospedaliero, dal negozio di generi alimentari al forno) – in una parola: di senso. 

L’abbandono delle “aree interne” proietta sull’orizzonte delle prossime due o tre generazioni di italiani una perdita netta di biodiversità culturale che non può essere derubricata a materia per studi antropologici. Il fenomeno inciderà in profondità sul paesaggio naturale e sulle opportunità di crescita socio-economica di un Paese che, per la combinata azione di storia e geografia, ha un assetto territoriale costitutivamente diffuso e differenziato.

Va, per completezza, precisato che la questione delle “aree interne” non è specifica dell’Italia. Essa investe, infatti, l’intero continente europeo. La nozione ISTAT di “area interna” è parente prossima di quella EUROSTAT di “zona rurale” usata nelle politiche dell’UE di coesione territoriale. Le zone rurali coprono il 45% del territorio dell’UE e vi risiede il 21% della popolazione continentale. Per il combinato effetto di invecchiamento demografico e spopolamento per denatalità ed emigrazione, l’EUROSTAT prevede che, entro la fine del 2050, il 38,4% delle aree rurali UE perderà fino al 10% della popolazione [2].  

Dallo spazio al territorio: paradigmi di sviluppo 

La realtà granulare e caleidoscopica del paesaggio antropico italiano è stata lungamente disattesa dallo sguardo della politica nazionale che, adottando la categoria del “dualismo territoriale” come lente (deformante) per la lettura delle diseguaglianze, non andava oltre la fictio loci di una immensa e indifferenziata macroregione “sottosviluppata” denominata “Mezzogiorno” nella quale pompare risorse, con un apposito strumento finanziario straordinario [3], per colmare il divario con un altrettanto fittizio alter ego macroregionale chiamato “Centro-Nord”. Colmare il gap affidandosi a un modello di sviluppo calato dall’alto, incentrato sulla più antiscientifica delle illusioni nomotetiche: la creazione con investimenti pubblici di giganteschi poli industriali regionali in cui il “successo” del Centro-Nord si sarebbe naturaliter riprodotto e propagato.

La dimensione locale è stata la principale vittima di questo sguardo presbite sul territorio, declassato a spazio isotropico, contenitore omogeneo e indifferenziato, senza storia e senza natura. Un piano cartesiano in cui la “mano visibile” dello Stato interveniva per correggere i fallimenti del mercato, perequare i livelli di sviluppo delle regioni e raggiungere meccanicisticamente una teorica situazione di “equilibrio” che realizzava la massima efficienza allocativa di tutti i fattori della produzione, ivi incluse le persone nella loro declinazione disanimata di “forza lavoro”.

Il modello dello sviluppo per poli regionali si fondava sull’assioma delle industrie “motrici”, vale a dire gigantesche unità produttive nei settori maturi dell’industria pesante (automobilistico, siderurgico, petrol-chimico etc.) che, in virtù di economie di scala derivanti da concentrazione di capitale e di innovazione tecnologica, avrebbero fatto da volano inducendo un effetto moltiplicatore a monte e a valle del ciclo produttivo. I poli promettevano, inoltre, di attivare nuove iniziative economiche complementari a quella principale, flussi migratori verso le aree urbane per rispondere alla nuova domanda di lavoro, servizi e infrastrutture per rispondere alla crescita demografica. Nel tempo, grazie alle economie esterne di localizzazione produttiva, il tessuto economico di ogni polo si sarebbe diversificato e l’industrializzazione diffusa sequenzialmente per cerchi concentrici allo spazio circostante. Quello dello sviluppo era, dentro questo modello positivistico e deterministico, un problema di industrializzazione; e il territorio era un vacuum ecologico e sociale, uno spazio astratto e fungibile in cui installare funzioni economico-produttive; di esso tutt’al più rilevava la distanza come fattore economico per il calcolo dei costi di trasporto [4]. 

Il progetto per il porto industriale di Capo Granitola

Il progetto per il porto industriale di Capo Granitola (da  G. Marullo,  Capo Granitola, complesso industriale mediterraneo, in “Notiziario Irfis” n. 34, aprile 1974: 37)

Il caso di Capo Granitola 

Voglio ricordare Capo Granitola (frazione del comune di Campobello di Mazara) come caso eclatante di polo industriale poco noto e per fortuna rimasto sulla carta per ragioni che esulano dalla presente narrazione [5]. Nei primi anni Settanta del secolo passato, in questa zona costiera della provincia di Trapani, la politica avrebbe voluto sviluppare un’iniziativa industriale di valenza strategica nazionale. Il faraonico progetto prevedeva, anzitutto, la costruzione di uno scalo marittimo ad alti fondali, entro l’isobata dei -50 metri, con una chilometrica diga foranea, all’interno della quale avrebbero trovato posto una decina di banchine per complessivi 200 ettari destinati all’attracco di superpetroliere e mineraliere e alla sistemazione di silos per lo stoccaggio di materie prime. A ridosso del porto, protesa e rammagliata all’autostrada A29 (Palermo-Mazara del Vallo) e alla rete ferroviaria (scalo di San Nicola), sarebbe sorta una zona industriale di 2500 ettari, con possibilità di espansione fino al limitare della zona balneare di Tre Fontane.

L’area industriale avrebbe ospitato una propria centrale termo-elettrica (alimentata dal metano algerino e, in via residuale, da idrocarburi), impianti metallurgici e chimici all’avanguardia operanti in una logica integrata per conseguire economie di scala in fase di produzione. Le necessità di acqua dolce per la produzione sarebbero state soddisfatte da un desalinizzatore (di cui avrebbe indirettamente beneficiato l’industria del sale trapanese) ovvero da una o due dighe da costruirsi a monte dei fiumi Modione e Arena. In alternativa alla centrale termo-elettrica, si considerava l’approvvigionamento di energia elettrica da una centrale nucleare, di cui si auspicava la costruzione niente di meno che nel mare delle Egadi! All’interno del progetto si ipotizzava l’istituzione a Capo Granitola di un centro di ricerca industriale in campo metallurgico che avrebbe dovuto garantire alle produzioni del polo l’avanguardia tecnologica a livello mondiale così da resistere nel tempo alla concorrenza di altri Paesi. Nelle intenzioni dei redattori del progetto, la mega-infrastruttura portuale avrebbe dovuto servire non solo per il comodo del centro elettrometallurgico (i.e. importazione di materie prime ed esportazione di prodotti finiti) ma anche come moderno hub per la ridistribuzione in Europa e nel mondo delle merci africane e, soprattutto, per l’esportazione di altri prodotti siciliani (cemento, gesso, cloruro di sodio, fertilizzanti potassici, fosfati). Si proponeva, pertanto, l’istituzione per legge di un “porto franco”, cioè un’area non soggetta all’applicazione del regime doganale ordinario limitatamente alle merci in transito destinate alla riesportazione lungo le correnti di traffico fra Suez e Gibilterra.

Il progetto per l'area industriale di Capo Granitola

Il progetto per l’area industriale di Capo Granitola (da G, Marullo, cit.)

I redattori del progetto ignoravano, o fingevano di ignorare, che l’area di espansione del polo industriale avrebbe fagocitato il borgo, la tonnara e il faro di Torretta-Granitola, l’area naturale, oggi protetta dal WWF, del Lago Preola e dei Gorghi Tondi e nonché quella archeologica delle Cave di Cusa. Nessuna considerazione era svolta in merito alla perdita di opportunità per i comparti ittico, agricolo e turistico. Con questa logica di spianamento dei luoghi si muoveva il bulldozer del polo industriale. 

La crisi petrolifera, la concorrenza estera, il declino della produzione industriale di massa, i processi di sindacalizzazione, il congestionamento urbano, il disagio sociale di immensi quartieri-dormitorio privi di servizi essenziali dimostrarono, all’inizio degli anni Settanta, esattamente l’opposto di quanto ipotizzato dalla teoria dei poli industriali: la verticalizzazione produttiva creava diseconomie di agglomerazione. Fu allora che la teoria e la politica si volsero verso il territorio con occhi nuovi e “scoprirono” un fenomeno fin lì considerato residuale e pertanto indegno di attenzione: i distretti industriali. Vale a dire sistemi locali territoriali, diffusi sull’intero territorio nazionale, in cui piccole e medie imprese riuscivano, con un mix di collaborazione e competizione e senza necessariamente essere l’indotto di una grande azienda, ad emergere e competere sul mercato internazionale facendo leva sulla propria flessibilità organizzativa e sull’innovazione di processo e prodotto (oltre che sulle svalutazioni competitive della lira). 

Le “aree interne” beneficiate dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne 2014-2020 Idem,  Le Aree Interne 2014 – 2020, https://www.politichecoesione.governo.it/it/politica-di-coesione/strategie-tematiche-e-territoriali/strategie-territoriali/strategia-nazionale-aree-interne-snai/le-aree-interne-2014-2020/.

Le “aree interne” beneficiate dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne 2014-2020 Idem, Le Aree Interne 2014 – 2020, https://www.politichecoesione.governo.it/it/politica-di-coesione/strategie-tematiche-e-territoriali/strategie-territoriali/strategia-nazionale-aree-interne-snai/le-aree-interne-2014-2020/.

Il nuovo modello di sviluppo locale 

Sull’abbrivio di queste evidenze empiriche prese piede per le scienze territoriali una nuova stagione di studi idiografici, volti a cogliere la specificità dei casi individuali onde ricavarne induttivamente elementi per orientare l’azione politica. La “scoperta” dei luoghi in quanto ispessimento e sedimentazione irriproducibile di vissuti, relazioni sociali, risorse fisiche e culturali, interessi e vocazioni è, dunque, un’acquisizione relativamente recente nella storia delle politiche nazionali per lo sviluppo. La si può convenzionalmente datare alla chiusura della stagione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (1992). La nuova sensibilità verso le specificità territoriali ha trovato sbocco nella categoria descrittivo-precettiva di “sviluppo locale” [6]. L’attributo “locale” non designa necessariamente un’entità delimitata con nettezza da confini fisici o politico-amministrativi ma un’area di perimetro variabile dotata, e consapevole di essere dotata, di caratteristiche fisiche e sociali distinte e riconoscibili dall’esterno. Il sostantivo “sviluppo” non ha più pretese perequative di asserita validità universale, ma indica un processo endogeno (bottom-up) in cui una pluralità di attori locali – istituzioni private e pubbliche, individuali e collettive – strutturano relazioni e reti formali e informali, mercantili e sociali, di collaborazione e competizione, a lungo e a breve raggio, tutte protese al supporto di un’idea-forza condivisa; non un’idea astratta ma un’idea che, attingendo a una dotazione di risorse materiali e intangibili sedimentatesi in loco nella lunga durata, crea opportunità di reddito e di lavoro sostenibili sul piano economico ed ecologico [7].

Sotto la spinta del decentramento amministrativo degli anni Novanta del secolo passato, la centralizzazione delle politiche per lo sviluppo ha ceduto il passo ad una proliferazione e stratificazione di enti, strumenti e sigle – PON, POR, PIT, PISL, GAL, PAL etc. – per la gestione consortile dei contributi finanziari erogati dall’Unione Europea attraverso i fondi strutturali e, da ultimo, anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

Alla galassia della governance dello sviluppo locale il legislatore nazionale ha aggiunto, nel 2013, l’Agenzia  per  la  Coesione Territoriale, cui si deve l’elaborazione della “Strategia Nazionale per le Aree Interne” [8] per orientare i progetti di sviluppo locale contro la marginalizzazione e il declino demografico di quelle aree del Paese caratterizzate da una significativa distanza dai principali centri di offerta di servizi, in particolare quelli relativi all’istruzione, mobilità e servizi socio-sanitari. Dal 2014 al 2023 l’Agenzia ha investito oltre mezzo miliardo di euro in favore di 72 “aree interne” raggruppanti 1060 comuni con circa 2 milioni di abitanti, circa il 26% dei comuni classificati come “aree interne”. Nel nuovo ciclo di programmazione (2020-27) l’obiettivo dichiarato è di favorire 124 aree di progetto coinvolgendo 1904 comuni in cui vivono oltre 4,5 milioni di abitanti. L’Agenzia è stata soppressa il 10 novembre 2023 e le sue funzioni, unitamente all’attuazione della Strategia, trasferite al Dipartimento per le Politiche di Coesione e per il Sud della Presidenza del Consiglio dei Ministri. 

4-ambiti-schemaLa strategia italiana per le “aree interne” va inquadrata nel più ampio disegno della strategia UE per le “zone rurali” così come delineata in una recente comunicazione della Commissione Europea [9]. Essa presenta una visione a lungo termine (fino al 2040) che identifica quattro ambiti di intervento complementari per rendere le aree rurali più forti, connesse, prospere e resilienti. 

Per inciso, appare stridente la mancanza nella strategia UE di un esplicito nesso fra la politica di coesione territoriale e quella migratoria, evidente sintomo di pregiudizi ideologici che dal livello nazionale si riverberano nelle scelte europee. 

rural-areas-visionL’arsenale teorico-pratico dello sviluppo locale: “territorialità attiva” e “restanza” 

Al fine di rimettere sulla mappa i luoghi periferici e disegnare per loro un futuro possibile, l’intervento pubblico è certamente necessario, oltre che doveroso nel quadro dei principi di solidarietà e coesione territoriale sanciti dall’art. 119 comma 5 della Costituzione [10] e dell’art. 174 del Trattato sul Funzionamento dell’UE [11]. Tuttavia, per diventare veramente incisivo, esso richiede, oltre che una maggiore dotazione finanziaria, un diffuso cambiamento di sensibilità negli attori che incarnano le istanze locali, troppo spesso motivati a mettere in piedi occasionali cordate di comodo per intercettare contributi a fondo perduto piuttosto che a strutturare relazioni e reti di azione territoriale essenziali e stabili.

La narrazione sullo sviluppo locale necessita di un’impalcatura concettuale ed etica per penetrare efficacemente nel patrimonio partecipato e diffuso delle percezioni, conoscenze e pratiche collettive, permeare le strutture profonde della società fino a diventare senso comune, anzi ethos. Parole chiave come “territorialità attiva” e “restanza” possono fornire un contributo in questa ideale direzione. Mi soffermerò brevemente su ciascuna di esse. 

51qppyfunzl-_ac_uf10001000_ql80_Territorialità attiva

«È possibile e utile considerare il territorio come un soggetto collettivo, senza per questo cadere in una visione di tipo nostalgico e regressivo (l’idea “tradizionale” della comunità)? (…) In che senso e con quali limiti è possibile parlare oggi di comunità (…) senza per questo cadere nella riproposizione di (…) concezioni organicistiche della società e del territorio?» Queste domande, ancora di straordinaria attualità, si poneva Francesca Governa oltre venti anni fa [12]. La studiosa, rigettando la nozione “essenzialista” di comunità come appartenenza data e immanente di coloro che per natura hanno qualcosa in comune, approdava ad una provvisoria, ma già convincente, definizione di comunità come “fare insieme”. Attingendo alla lezione di Roberto Esposito che aveva definito la communitas come modalità difettiva dello stare insieme attorno ad un dono-onere reciproco (cum+munus) [13], la studiosa considerava euristicamente valida per l’interpretazione della realtà «un’idea di comunità svuotata di ogni contenuto ideologico (…),  non più come univers[o] esclusiv[o], stabil[e] e costrittiv[o], ma come (…) entità mobil[e], plurim[a] e cangiant[e] (…), costruita attraverso la scelta, l’impegno, l’azione collettiva di soggetti». In sintesi: la comunità non come appropriazione di uno spazio ma come “costruzione volontaria” legata a doppio filo alla materialità di un luogo: il locale in quanto scenario in cui si dispiega l’agire sociale e in quanto prodotto dell’azione stessa, fermo restando che l’agente presuppone il luogo mentre non è valida la relazione inversa (il luogo non è coincarnato all’agente). “Territorialità attiva” era la formula per descrivere il rapporto di mediazione simbolico-cognitiva e pratica fra questa particolare comunità di scopo e il luogo geografico su cui essa agisce per promuoverne lo sviluppo.

Posto che l’agire insieme (e non l’avere una proprietà-sostanza in comune) è l’elemento fondante di una comunità, nel medesimo saggio, Francesca Governa si interrogava su quali fossero i confini di una comunità in quanto sistema locale territoriale. La risposta che abbozzava individuava nella relativa stabilità delle reti di relazioni locali l’elemento distintivo della comunità. Stabilità ma non fissità, essendo il luogo immerso nel divenire della storia che modella e rimodella paesaggi simbolici e topografici, dinamiche sociali ed economiche. In questa lettura, nessuna identità collettiva sarebbe immutabile ma sempre e comunque un costrutto transitorio con una scadenza temporale variabile a seconda della durata della costellazione di condizioni esterne intorno alle quali ha definito la propria comunione di interessi, la propria ragion d’essere, il proprio programma d’azione. 

restanza-tetiRestanza 

Lo stato di chi resta – o, in controtendenza, si trasferisce – nelle “aree interne” ha trovato la sua etichetta antropologica nel neologismo “restanza”. Attestato nella pubblicistica almeno dal 2011 [14] e accolto dalla Treccani nel 2017 [15], il termine “restanza” ha un retroterra semantico complesso definito da un pendolo che, come concettualizzato dall’antropologo Vito Teti, oscilla idealtipicamente fra due opposte declinazioni di quel “sentimento del ritorno” che è la nostalgia [16].

Da un lato, vi è la “restanza” come malessere, come forma inerziale di nostalgia regressiva di quelle comunità, non necessariamente stanziali ma talvolta provvisorie e virtuali, che vivono e rappresentano la condizione di residualità alla stregua di una nicchia ecologica in bilico fra orgogliosa affermazione della propria specialità e consapevolezza della propria ineluttabile estinzione. La forza per così dire lirico-romantica che anima questa restanza è la ricerca di un mondo passato e perduto, forse mai esistito nella presunta purezza e sacralità in cui viene mitizzato (retrotopia). I “restanti” di questa specie assumono un atteggiamento resistenziale di tipo eroico, reazionario, antimoderno. Si ergono ad aliquota superstite e di retroguardia di un esercito sconfitto in ritirata; trasformano, nella loro mente e sui social che usano come megafono consolatorio della loro languorosa apatia, quanto rimane dei luoghi a sacrari di micro-patrie in cui inscenare sterili pianti e rimpianti collettivi in attesa che la storia finisca o di colpo riprenda in un imprecisato futuro premiandoli per la loro fedeltà alla bandiera. Nell’ambito di queste auto-proclamate comunità vintage di retromani, i reduci-sopravvissuti-vittime si lusingano a guardare con superiorità la propria pretesa diversità riflessa sullo specchio, sono sedotti da questa immagine identitaria e come Narciso rischiano di precipitarvi dentro e annegarvi.

Dall’altro lato, vi è la “restanza” come nostalgia progressiva, resilienza, anzi resistenza, animata da una progettualità rivolta al futuro per mantenere un senso nei luoghi rispondendo alle sfide della modernità senza rottamare la tradizione (utopia possibile). Questa “restanza” si sostanzia in un’azione creatrice che fa leva e strategicamente reinventa le potenzialità inespresse (o ritenute obsolete) dei luoghi – risorse naturali, paesaggistiche, culturali e sociali – non solo in funzione anti-spopolamento ma anche per preservare la loro biodiversità topica di fronte al rischio di estinzione per dissolvimento nella massa liquida e spaesante del non-luogo globale.  

9788807460098_0_500_0_75Alcune provvisorie conclusioni 

La “restanza” in quanto dimensione affettiva della “territorialità attiva” fornisce allo sviluppo locale uno strumento cognitivo e pratico per articolare una risposta agli effetti destrutturanti della globalizzazione. Lo fa attraverso il riconoscimento e la messa a valore nella rete globale di luoghi che non sono riserve indiane o comunità mormoniche residuate al progresso e chiuse in se stesse ma molecole costitutivamente aperte al legame con l’alterità in un mondo plurale e dinamico in perenne trasformazione. In questa chiave, i due termini, con accenti nuovi, rendono possibile una rilettura del “modello della globalizzazione dal basso” in cui i luoghi, specialmente quelli marginali, attuano una strategia lillipuziana per legare il Gulliver globale [17] e scongiurare per le identità-varietà locali (intese nella modalità non essenzialistica proposta da Roberto Esposito) un epilogo di identicità-uniformità nel processo in atto di omologazione culturale. 

Il plesso restanza-territorialità attiva, lungi dall’essere fumoso slogan, suggerisce alcune linee-guida a coloro che, nel pubblico e nel privato, con politiche, leggi, decisioni amministrative, scelte d’investimento e di consumo contribuiscono a plasmare i modi di abitare e organizzare spazi, economie e relazioni. Non intendo scrivere un nuovo manifesto etico-politico in concorrenza con gli altri già esistenti [18] ma solo raccogliere nella forma di appunti alcune schegge di ragione pratica per ripensare la polis dentro il grande paradigma dello sviluppo locale sostenibile in una stagione della storia in cui l’estinzione della nostra specie non è più un’iperbole letteraria dei critici del progresso infinito ma guadagna a grandi falcate posizioni nell’inquietante ranking dei possibili esiti della storia. 

1) Il “ri-abitare” luoghi periferici e in progressivo abbandono non deve essere ispirato da una reazione all’horror vacui demico ma da un consapevole progetto di “ri-abilitare” lo spazio con idee e opere che definiscano una nuova modalità relazionale di esser-ci e appartener-vi, un nuovo valore d’uso – produttivo, sociale, culturale, ricreativo, turistico. 

2) La ricerca di un nuovo valore d’uso per un luogo richiede un rinnovamento, per così dire, “filologico” dell’esistente, cioè compatibile con le determinanti naturali, le permanenze storico-architettoniche, le pratiche sociali e i saperi contestuali che unitamente definiscono la intelligenza territoriale e la vocazione del luogo. 

3) Persino le ferite dei luoghi (i.e. opere incompiute, infrastrutture militari e fabbriche dismesse, macerie di terremoti) possono diventare risorse e offrire opportunità di cambiamento in una pratica di Kintsugi territoriale in cui l’oro della progettualità lega assieme i cocci lasciando visibili le tracce dei danni passati a futura memoria. 

4) La vocazione di un luogo non va confusa con l’interesse dei soggetti più forti e vocali ma va cercata, attraverso studio e analisi partecipata (direi “maieutica” con Danilo Dolci), in oggettivi punti di forza fisici e sociali che configurano con nettezza un’identità, un vantaggio territoriale comparato sulla base del quale un sistema locale può competere sul mercato dei luoghi, creare sostenibilmente reddito, lavoro, dignità e qualità della vita. 

5) Lo studio dei luoghi include il riconoscimento, il recupero, la custodia, la consegna agli altri in chiave critica e contemporanea della memoria. La memoria come fossile che vive solo nei libri cristallizza i luoghi in immagini impossibili. La memoria come esercizio attivo sulle stratificazioni di tempo passato scava per trovare fra le rovine ispirazione, materia prima per un futuro possibile. 

6) L’identità locale non è un’eredità di contenuti dati e presupposti, romanticamente imbevuta di sangue e terra (localismo, Lebensraum), ma una manifestazione di cittadinanza responsabile costruita attorno al diritto e ai diritti umani fondamentali, e pertanto aperta – in regime di reciproco riconoscimento (e non passiva tolleranza) – alle contaminazioni dell’alterità. 

7) Dentro questa identità, la comunità si ridefinisce come patria d’elezione (e non di nascita), orizzonte sociale “immunizzato” da dinamiche di appropriazione, esclusione e discriminazione, proteso verso una nuova dimensione umana fatta di prossimità, vicinanza, solidarietà, accoglienza, cura reciproca e cura dei luoghi. 

8) Gli indigeni del luogo – coloro che da generazioni vi abitano e possono provare un radicamento e un’appartenenza ininterrotta – non ne sono i detentori esclusivi. Lo statuto di “restanti” è aperto a tutte le costituencies di esseri umani che accettino di rispettare e promuovere l’identità “immunizzata”: i frequentatori abituali, i villeggianti, coloro che hanno il corpo altrove e il cuore ancorato al luogo, i migranti che, motivati da disperazione e speranza (“disperanza”), cercano uno spazio per quella estrema forma di “restanza” al mondo che è la sopravvivenza. Né il turista né migrante ci “rubano” i luoghi: entrambi li definiscono dall’esterno facendone domanda – per svago, per sopravvivere. Chi ruba ai luoghi sono piuttosto coloro che vi restano scambiando il pregiudizio per fedeltà. 

9) Il recupero architettonico del patrimonio pubblico e privato può fungere da volano per il rilancio di un luogo in abbandono. Tuttavia, se non accompagnato da una visione socio-economica più ampio, può nella migliore delle ipotesi risolversi in una musealizzazione-imbalsamazione del luogo, oggetto di visite mordi-posta sui socials-e-fuggi. 

10) I luoghi marginali possono tornare a essere presidi di umanità se in essi si struttura un’offerta di servizi essenziali per la vita sociale di giovani come di anziani, di stanziali come di pendolari e telelavoranti: il forno per il pane, la bottega di prossimità, il dispensario farmaceutico, l’accesso alla medicina territoriale, i trasporti condivisi verso il centro più vicino, la connessione a internet. Il locale non è nemico del globale, deve conviverci se vuole sopravvivere. 

 L’ex direttore dell’IAMC-CNR di Capo Granitola Salvo Mazzola (spentosi per Covid-19 il 17 gennaio 2021 all’età di 67 anni) presso l’ex tonnara riqualificata in centro di ricerca biomarina di rilievo internazionale (foto della famiglia Mazzola, 2020).


L’ex direttore dell’IAMC-CNR di Capo Granitola Salvo Mazzola (spentosi per Covid-19 il 17 gennaio 2021 all’età di 67 anni) presso l’ex tonnara riqualificata in centro di ricerca biomarina di rilievo internazionale (Archivio famiglia Mazzola, 2020)

Post scriptum 

La rete di protezione del locale

Lo studio del territorio di Capo Granitola e della sua tonnara mi ha col tempo portato ben oltre la malinconia per un mondo perduto e mi ha posto davanti al problema attuale del mondo che possiamo perdere.

La tonnara era una forma di predazione leale da parte dell’uomo, realizzava una modalità di sfruttamento della risorsa tonno ante litteram e inconsapevolmente ecosostenibile. Parafrasando il titolo della favola di Bacchelli [19]: lo sa – anzi, purtroppo, lo sapeva – la tonnara… che attendeva e selezionava le prede di una certa taglia stagionalmente e per un breve periodo di tempo, in base alle esigenze effettive di consumo e alle capacità disponibili di trasformazione; secondo alcuni studi, giammai oltre il 10% dello stock in transito [20]. Era una pratica che non si concedeva il minimo spreco: del tonno – non a caso detto “maiale del mare” – non si buttava via nulla (persino dalle parti non commestibili si otteneva olio per la concia delle pelli e concime). Inoltre, le maglie larghe delle sue reti non andavano a impattare su altre specie marine che, di fatto, nella vigenza del divieto di altre attività nella zona limitrofa, venivano a godere indirettamente di un “fermo biologico” per il proprio ripopolamento.

La memoria di un metodo di pesca tradizionale costituisce una concreta lezione civica impartita a noi abitanti del presente sulla necessità di riconciliarci con la nostra coscienza ecologica attraverso uno sfruttamento sostenibile delle risorse marine. Un monito affinché il rapporto fra uomo e mare, improntato alla logica dissipatoria del consumo, trovi un nuovo equilibrio rispettoso dei cicli della natura oltre che dei bisogni delle generazioni umane future.

Con questa chiave di lettura, desidero con una punta di orgoglio ricordare quale è stato il destino felice della tonnara di Capo Granitola a me vicina per storia familiare. Chiusa nel 1972, dopo poco meno di un trentennio di attività privata, la tonnara di Granitola, che nel frattempo era confluita nella proprietà della Regione Siciliana, è rimasta in abbandono per quasi un ventennio. Al culmine di una ristrutturazione con fondi pubblici durata, fra arresti e ripartenze, altri venti anni, doveva diventare un’infrastruttura turistico-portuale, perché purtroppo nel nostro Paese qualunque struttura che si trovi sul mare è costitutivamente prigioniera dello stereotipo della valorizzazione turistica – come se il mare non potesse essere altro che lo scenario in cui innestare esperienze di consumo vacanziero. E invece, a Capo Granitola è accaduto qualcosa di diverso. Per una fortuita combinazione di eventi in cui il fattore umano ha fatto la differenza, dal 2005 l’ex tonnara ospita la sede secondaria di un Istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) che opera nel campo della sostenibilità degli ecosistemi marini [21].

Si deve soprattutto alla lungimiranza e alla determinazione del compianto amico Salvo Mazzola, già direttore, se oggi l’ex tonnara di Capo Granitola ha una nuova vita legata al mare, al suo studio e alla sua protezione. A ben vedere, una destinazione d’uso che era già nelle corde della tonnara durante la gestione dell’imprenditore trapanese Attilio Amodeo. Qui, infatti, beneficiando dell’inconsueta apertura mentale del proprietario e dei suoi Rais, il prof. Raimondo Sarà, direttore della sezione palermitana dell’allora “Centro Sperimentale per la Pesca ed i Prodotti del Mare”, poté condurre ricerche che contribuirono, fra le altre cose, a scardinare in modo definitivo l’inveterata teoria della stanzialità mediterranea del Thunnus thynnus. 

Oceanografo e manager dalle inusuali doti umane, il dottor Mazzola fu capace di vedere il potenziale della tonnara in un’ottica diversa da quella, fin troppo scontata, del recupero in chiave turistico-ricettiva. Nelle more dei finanziamenti del CIPE per dar seguito a decisioni politiche già prese in favore di Italia Navigando, seppe trovare un interstizio in cui, con un comodato d’uso senza ulteriori pretese, inserì apparecchiature e giovani ricercatori, lanciando i primi progetti con partner stranieri a valere unicamente su fondi attinti da bandi internazionali. Poi, quando, in assenza dei tanto sospirati finanziamenti CIPE, Italia Navigando fece dietro-front dal progetto di tonnara-resort, Salvo Mazzola promosse una coraggiosa iniziativa: ottenere l’intera struttura in concessione per il CNR. E ci riuscì, pur tra tanti ostacoli, con la sua risoluzione e con il buon senso intrinseco alle “cose vere” che tendono ad affermarsi da sole anche di fronte all’attrito opposto da chi in modo perverso si rende responsabile dell’inoperoso abbandono dei beni pubblici. Il riutilizzo dello spazio-tonnara da parte di un istituto del CNR che, attraverso progetti transnazionali, studia olisticamente l’ecosistema marino fornisce una solida e credibile rassicurazione circa il fatto che non si è perso di vista, parafrasando Italo Calvino, quale è stato l’elemento di continuità che il luogo ha perpetuato lungo tutta la sua storia, quello che l’ha distinto e gli ha dato un senso, il genius loci, quello che il luogo deve saper conservare, pena l’estinzione.

Salvo Mazzola aveva un progetto – lui non usava mai la parola “sogno” perché aveva a che fare con la modalità passiva del dormire – ancora più ambizioso: tornare a calare una tonnara-laboratorio nelle acque prospicienti Capo Granitola. Aveva in mente una lunga costa di reti culminante in una sola camera che chiamava “della vita”, munita di sistemi acustici e video per studiare i tonni e le altre specie. Di fatto, la tonnara del “Rais” Mazzola non avrebbe catturato pesci ma dati, preziosissimi perché attinti direttamente al centro del Mediterraneo. Una visione futuristica e oggi, nell’epoca di cambiamenti climatici che rischiano di allontanare il tonno dal Mediterraneo, quanto mai attuale. Una concreta lezione di “restanza” in quanto “territorialità attiva” all’interno del paradigma dello sviluppo locale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
[*] Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono la posizione dell’Agenzia dell’Unione Europea presso la quale egli lavora.
Note
[1] Cf. ISTAT, La geografia delle aree interne nel 2020: vasti territori tra potenzialità e debolezze, Statistiche Focus, 20 luglio 2022, https://www.istat.it/it/files//2022/07/FOCUS-AREE-INTERNE-2021.pdf
[2] Cf. EUROSTAT, Urban-rural Europe – demographic developments in rural regions and areas, October 2022, https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Urban-rural_Europe_-_demographic_developments_in_rural_regions_and_areas#Depopulation_of_rural_regions.2Fpopulation_change_due_to_migration
[3] Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale.
[4] Cf. Conti S., Geografia economica. Teorie e Metodi, Torino, 1996, spec. Introduzione, capp. III e IV.
[5] Cf. Serra G., Viaggio a Capo Granitola, Trapani, 2021: 181-185.
[6] Cf. Dematteis G., “Possibilità e limiti dello sviluppo locale” in Sviluppo locale, 1.1.94: 10-30.
[7] Cf. Conti S., op. cit., capp. V e VII; Giaccaria P., Competitività e Sviluppo Locale, Milano, 1999: 27-57; Amin A., “Una prospettiva neo-istituzionalista dello sviluppo locale” in Sviluppo Locale, n. 1, 1998: 75-93.
[8] Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Politiche di Coesione e per il Sud, Strategia Nazionale Aree Interne – SNAI, https://www.politichecoesione.governo.it/it/politica-di-coesione/strategie-tematiche-e-territoriali/strategie-territoriali/strategia-nazionale-aree-interne-snai/
[9] Commissione Europea, Una visione a lungo termine per le zone rurali dell’UE: verso zone rurali più forti, connesse, resilienti e prospere entro il 2040, 30 giugno 2021, COM(2021) 345 final, https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:6c924246-da52-11eb-895a-01aa75ed71a1.0020.02/DOC_1&format=PDF
[10] «Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni».
[11] «Per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme dell’Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale. In particolare l’Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e il ritardo delle regioni meno favorite. Tra le regioni interessate, un’attenzione particolare è rivolta alle zone rurali, alle zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici, quali le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna».
[12] Cf. Governa F., “Il territorio come soggetto collettivo? Comunità, attori, territorialità” in Quaderno SloT, n. 1, 2001: 31-46.
[13] Cf. Esposito R., Communitas. Origine e destino della comunità, Torino, 1998
[14] Cf. Teti V., Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Macerata, 2011: 21-22.
[15] Cf. Accademia della Crusca, https://accademiadellacrusca.it/it/parole-nuove/restanza/23529
[16] Teti V., Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, Bologna, 2020; idem, La restanza, Torino, 2022.
[17] Cf. Brecher, J., Costello, T., Contro il capitale globale. Strategie di resistenza, Milano, 1996; Magnaghi A., Il territorio degli abitanti. Società locali e autosostenibilità, Milano, 1998.
[18] Cf. Cersosimo D., Donzelli C. (a cura di), Manifesto per riabitare l’Italia, Roma, 2020 (per una sintesi, cf.: https://riabitarelitalia.net/RIABITARE_LITALIA/il-manifesto-pagina/); “Manifesto di Trevico” elaborato nell’ambito della Casa della Paesologia di Franco Arminio, https://casadellapaesologia.org/2016/03/12/manifesto-di-trevico-2/; “Decalogo per la Decrescita Felice”,  https://www.decrescitafelice.it/ elaborato nell’ambito dell’omonimo Movimento promosso da Maurizio Pallante e largamente ispirato a Latouche S., La scommessa della decrescita, Milano, 2007.
[19] Bacchelli R., Lo sa il tonno. Favola mondana e filosofica, Milano, 1923.
[20] Cf. Repetto N., Rossi S. (a cura di), Le ragioni del tonno – storia, biologia, pesca e tutela del tonno rosso mediterraneo, Genova, 2013: 150.
[21] Allora Istituto per l’Ambiente Marino Costiero del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IAMC-CNR), oggi Istituto per lo studio degli impatti Antropici e Sostenibilità in ambiente marino, IAS), https://www.cnr.it/it/istituto/124/istituto-per-lo-studio-degli-impatti-antropici-e-sostenibilita-in-ambiente-marino-ias

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Gianluca Serra, dottore di ricerca in diritto europeo (2011) con un master in sviluppo locale (2004), è autore di numerose pubblicazioni scientifiche in prestigiose riviste giuridiche nazionali e internazionali sui temi della tutela dei diritti fondamentali della persona e della ricostruzione dello Stato in contesti post-bellici. Dal 2022, dopo varie esperienze lavorative nella funzione pubblica internazionale (in Afghanistan, Somalia, Estonia, Belgio, Francia), è un alto dirigente dell’Unione Europea. Recentemente ha pubblicato: Viaggio a Capo Granitola (2021) Le tonnare di Capo Granitola e Sciacca. Il ritorno della memoria (2021).

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