Se le scienze umane ci hanno insegnato qualcosa, questo è il ruolo decisivo che il processo narrativo ricopre per la creazione, la definizione e la trasmissione delle categorie culturali. A dispetto delle varie forme di “amnesia storica” o “autoaccecamento” che i diversi gruppi umani mettono in atto per naturalizzare la norma, infatti, ciascun individuo e ciascuna comunità danno senso al mondo costruendolo retoricamente e simbolicamente, inserendolo cioè all’interno di griglie interpretative del reale tanto plastiche quanto apparentemente immutabili.
Si pensi, ad esempio, a concetti a prima vista autoevidenti quali identità, cultura e società. Si pensi al modo in cui essi permeano le nostre vite e appaiano dotati di un nocciolo di oggettività che li rende ovvi e immediatamente riconoscibili. E si pensi anche alla nozione che di solito li accompagna, quella di confine, intesa come linea che separa entità discrete e sostanzialmente irriducibili le une alle altre. Per il senso comune (e per tanta retorica politica), culture e società sono entità nitide e osservabili, di solito coincidenti, almeno in Occidente, con ciò che si trova all’interno delle frontiere statali e nazionali; così come nitidi e osservabili sono i confini, naturali, metaforici o politico-amministrativi, che le demarcano e le distinguono da ciò che è altro.
Eppure, l’antropologia culturale ci racconta da decenni che le cose non stanno esattamente così e che, per quanto sembri un ragionamento controintuitivo e difficile anche solo da immaginare, la differenza arriva sempre dopo, non prima, rispetto alla definizione di un confine: precipitato, dunque, non causa, di un atto illocutorio. Claude Lévi-Strauss (2002: 10) lo scriveva già negli anni Cinquanta del secolo scorso: la diversità culturale non è tanto il prodotto dell’isolamento dei gruppi, quanto delle relazioni tra di essi. Da questo punto di vista, il concetto di confine perde qualsivoglia oggettività per diventare, al contrario, anche quando sembra sovrapporsi perfettamente a un oggetto naturale (un fiume, una catena montuosa, un deserto, etc.), un prodotto simbolico: frutto di decisioni storiche, contingenti, continuamente negoziate (e rinegoziate); spazio poroso che, mentre separa, inevitabilmente unisce; luogo liminale in grado di generare relazioni.
Un contributo fondamentale in tal senso è stato fornito dalle ricerche etnografiche di Fredrik Barth. Interessato ai meccanismi di definizione dei gruppi etnici, l’antropologo norvegese ha puntato la sua attenzione proprio su quanto si accennava in avvio di queste righe: le dinamiche in grado di determinare retoricamente – e culturalmente, socialmente, politicamente – i limiti dell’ingroup e dell’outgroup. Ciò che gli interessava, insomma, non era tanto la ricostruzione di tipologie etniche, quanto l’esame dei processi di formazione etnica e, soprattutto, lo studio delle azioni che, attraverso l’uso strumentale del concetto di confine, assicurano il mantenimento e la perpetuazione delle identità. Come scrive Ugo Fabietti (1998: 99), «invece di pensare al gruppo etnico come a qualche cosa di determinato dai “contenuti culturali”», l’antropologia di Barth tratta questi contenuti come mattoncini utili a «costruire il confine, e quindi definire la cultura del gruppo» (Ibidem).
Sebbene, sempre con Fabietti (Ivi: 95), non si possa ignorare che il modello dello studioso scandinavo, per quanto innovativo, abbia avuto il difetto di concentrarsi troppo sui dispositivi che mantengono i confini etnici, anziché su quelli che ne permettono l’attraversamento, e che di conseguenza abbia indugiato su una visione discreta e sostanzialmente statica della differenza culturale, gli va comunque riconosciuto il merito di aver saputo cogliere le mosse attraverso le quali gli esseri umani forniscono tangibilità e naturalezza ai limiti da loro stessi prodotti. Tale modello, infatti, consente di far luce sui criteri, sempre arbitrari e contingenti, di selezione e scelta che rendono alcuni “contenuti culturali”, e non altri, significativi per marcare una differenza.
Laddove c’è un confine, dunque, c’è porosità e fluidità. Non solo perché esso, rendendo significativa la differenza tra identità e alterità, pone comunque le condizioni per la pensabilità e l’esistenza di questi due poli, ma anche perché il confine è sempre – se ne sia consapevoli oppure no – uno spazio negoziato di incontro/scontro. Come argomenta Francesco Remotti, tutti gli esseri umani, in un modo o nell’altro, tracciano linee e tuttavia ci sono confini e confini: «confini fatti per chiudere, per proteggere e per impedire l’accesso ai rispettivi territori, e confini fatti invece per organizzare lo scambio e la comunicazione con gli altri» (Remotti, 2019: 12).
Ovviamente non c’è nulla di necessario nella scelta/invenzione/costruzione di una soglia, bensì tanto di storico e culturale. Non sembra allora un caso che oggi certi confini vengano sempre più ostentati e resi appariscenti (nonché potenzialmente letali) attraverso l’impiego di cartelli, parole d’ordine, luci, muri, reti di filo spinato, pattugliamenti armati. Si potrebbe addirittura sostenere che, a dispetto della natura fittizia dei suddetti confini, attraverso tali azioni si voglia proprio occultare la loro intrinseca precarietà. A questo proposito, ci soccorrono le parole del geografo Franco Farinelli (2019: 28), il quale sostiene che ogni confine può avere tre funzioni: «una funzione reale, una simbolica e una immaginale». Esso non serve solo a bloccare qualcuno o a porgli di fronte una serie di ostacoli materiali, ma la sua autentica finalità «è prima ancora quella di produrre un’immagine della realtà, al cui interno il soggetto è convinto di stare». Esso, insomma, dà forma a ben determinate idee di cultura e comunità.
Proviamo allora a chiederci quale tipo di Noi abbiano in mente certi settori della società occidentale mentre presidiano e militarizzano i confini innalzando muri che, persino quando non si vedono, perché smaterializzati tra le maglie della rete o esternalizzati per prevenire/contenere il movimento di certe categorie di esseri umani, appaiono sempre più granitici e invalicabili. Oppure, specularmente, quando compartimentalizzano la vita sociale moltiplicando i confini interni, dunque discriminando e segregando. Il tutto in nome di improbabili idee di purezza e autenticità.
Ora, come antropologi siamo ben consapevoli di quanto sia pericoloso tutto ciò, ma non possiamo far finta di non vedere che le cose, al di là del nostro recinto disciplinare (un altro confine…), sembrano andare molto diversamente. E mentre noi portiamo avanti la nostra meritoria opera di decostruzione, fuori il mondo va da tutt’altra parte. Ciò che è storico e culturale, scrive magistralmente Arjun Appadurai (2001), oggi più che mai sembra preda di minacciosi processi di reificazione ed essenzializzazione. E, gli fa eco Ulf Hannerz (2001: 62), non dobbiamo dimenticare che, quando gli esseri umani «definiscono una cosa come reale, questa diventa comunque reale nelle sue conseguenze». Un fastidioso paradosso avviluppa allora le scienze umane, proprio in un momento storico tanto delicato: la conoscenza di cui esse sono portatrici non è accompagnata da una proporzionale presa sullo spazio politico e da una effettiva capacità performativa nell’arena pubblica.
Partendo da tale consapevolezza, il progetto di terza missione Paesaggi di confine. Modelli di narrazione partecipata, coordinato dalla prof.ssa Irene Baldriga e implementato tra il 2022 e il 2024, ha indagato i processi di patrimonializzazione e costruzione identitaria nel nostro Paese attraverso un confronto tra ricercatori afferenti al Dipartimento SARAS (Storia Antropologia Religioni Arte e Spettacolo) dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e società civile (associazioni di terzo settore, fondazioni, musei e luoghi della cultura, comunità, centri di accoglienza, spazi di aggregazione, scuole). Il volume che ne è risultato, edito da Carocci e curato dalla stessa Irene Baldriga e da Carmelo Russo, Dialoghi sul confine. Patrimonio culturale e costruzione di comunità (2024), raccoglie le suggestioni emerse da questa ambiziosa ricerca applicata con l’obbiettivo di portare avanti lo spirito aperto del progetto originario. Individuando nel confine lo «spazio dell’incontro e dell’attraversamento, del riconoscimento di identità plurime, di tangenze che producono crisi e contrapposizioni, ma anche opportunità di confronto, scoperta, maturazione, creatività» (Ivi: 9), i contributi al testo si sforzano allora di mostrare come si abita e come si oltrepassa il limite nella vita quotidiana.
Nella sua Introduzione Irene Baldriga parla del confine come di un vero e proprio «paesaggio» multidimensionale (Ivi: 13). Non soltanto linea o contorno tracciato intorno a una morfologia naturale o culturale, «esso rappresenta di per sé un luogo, un ambiente, una dimensione di vita», spazio praticato ogni giorno dai più disparati attori sociali (Ibidem). Date queste premesse, le macro-tematiche intorno alle quali si sono sviluppate le ricerche degli autori che hanno partecipato al progetto sono essenzialmente due: la fruizione/costruzione del «patrimonio» materiale e immateriale e la «narrazione», intesa come atto performativo e relazionale in grado di costruire un senso di comunità più o meno allargato (Ivi: 14). I confini, da questo punto di vista, sono analizzati come aree di incontro e indagati nelle loro più diverse, e apparentemente distanti, manifestazioni: linee/barriere/frontiere materiali e simboliche – di volta in volta, secondo il differente criterio di selezione adottato dagli attori sociali, amministrative, culturali, ludiche, fisico-naturalistiche, linguistiche, artistiche, intergenerazionali, di classe, di genere – che, attraverso lo sguardo etnografico dal basso, si mostrano nel loro incessante prodursi e riprodursi: insieme di relazioni e rapporti in cui i concetti di identità e alterità smettono di essere enti discreti per rivelare, al contrario, la loro mutua dipendenza.
Un progetto come Paesaggi di confine, continua Baldriga, ha l’ambizione di rispondere ad alcune domande urgenti: «Quali tratti peculiari, quali presenze, quali comportamenti connotano un luogo o un tema-soglia? Quali strumenti ci permettono di analizzarne la molteplicità e di poterla interrogare? E quali esperienze fanno di noi gli attori di uno spazio del limite, proteso verso un “al di là” in qualsiasi forma configurato?» (Ivi: 16). Lo fa attraverso un’indagine interdisciplinare e multi-situata che, nella volontà di documentare la potenzialità dei paesaggi di confine, tocca parecchi ambiti: i modi in cui monumenti, aree archeologiche, quartieri e centri abitati fanno comunità e, a loro volta, vengono abitati e risignificati dalle persone; i modi in cui memoria storica, evoluzione demografica e nuove intersezioni urbane interagiscono dialetticamente; i modi in cui nuovi linguaggi e giochi linguistici possono costruire immaginari inediti e visioni alternative; i modi in cui si può performare il genere; i modi in cui le esperienze di segregazione ed emarginazione (generazionale, classista, etnica, etc.), prodotti di ben noti meccanismi di esclusione sociale, possono essere reintegrate in un orizzonte di senso plurale.
Tale progetto intende altresì dare corpo a un concetto, quello di “terza missione accademica”, che dà sempre l’impressione di affiancare timidamente le ben più nobili finalità dell’insegnamento e della ricerca tradizionalmente attribuite all’Università. Come indicato dall’ANVUR (l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), la terza missione è «la propensione […] all’apertura verso il contesto socioeconomico, esercitata mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze»; un modo, cioè, per superare l’immagine stereotipata dell’Accademia come luogo lontano dalla gente comune e sordo ai problemi concreti. Da questa prospettiva, fare davvero i conti con gli obiettivi della terza missione significa, in ultima analisi, lavorare per far sì che la ricerca incontri l’impegno sociale (Ivi: 27), favorendo lo sviluppo di nuove pratiche di cittadinanza e la promozione di una cultura del dialogo e della partecipazione.
Quest’ultimo tema è decisivo e impatta almeno due aspetti cui, come antropologo e docente, non posso rimanere indifferente. Da una parte, la questione dell’impegno pubblico delle scienze umane e, come si sosteneva in avvio, della loro presa sul reale, non solo in termini di produzione di conoscenze, bensì di contributo esperto alla sua trasformazione. Dall’altra il dialogo con le scuole, non a caso interlocutrici privilegiate di molti ricercatori che hanno partecipato all’iniziativa, e lo sviluppo di percorsi educativi sensibili e al passo coi tempi.
Per quanto riguarda il primo tema, mi sembra molto interessante il tentativo di far dialogare ricercatori universitari, professionisti del terzo settore e attori sociali, sforzandosi di tradurre la complessità delle categorie scientifiche in un linguaggio accessibile e spendibile pubblicamente. Un’azione meritoria, questa, perseguita senza la pretesa di trasformare la comunità accademica in avanguardia pronta a dettare la linea, bensì attraverso un dialogo paritario in cui a incontrarsi sono sempre expertise differenti. Come molti contributi al volume testimoniano, d’altra parte, chi vive il/al/nel confine è testimone tanto di innegabili frizioni, tensioni e violenze, quanto di un profondo pluralismo e può essere interlocutore legittimo per lo sviluppo di cambiamento sociale. Si tratta, allora, di avere il coraggio di infrangere altri confini: quelli tra ricerca pura e applicata, quelli tra i saperi accademici e, soprattutto, quelli che pretendono di separare l’Università dalla vita vera. In questa direzione una rivista come “Dialoghi Mediterranei” è impegnata a svolgere un ruolo non irrilevante.
Per quanto riguarda il secondo tema, invece, non posso non richiamare brevemente la mia fin qui, mi sia concessa l’espressione, tragicomica esperienza con l’Educazione civica nella scuola secondaria di secondo grado. Secondo la normativa scolastica italiana, l’Educazione civica è un settore interdisciplinare del cui insegnamento sono responsabili tutti i componenti del Consiglio di Classe, i quali dividono un monte ore annuo di 35 ore per attività didattiche che presuppongono un dialogo serrato tra le diverse discipline. Questo sulla carta. Inutile dire che, a fronte di tante idee interessanti approntate dai dipartimenti dei singoli istituti, l’Educazione civica venga sovente vista come una fastidiosa deviazione dai contenuti e dalle programmazioni delle materie curriculari. Superfluo aggiungere che spesso la dimensione interdisciplinare si restringe fino ad annullarsi e risolversi in stanche lezioni frontali su “Cittadinanza e Costituzione”. Ecco, leggere che il tema “Paesaggi di confine” ha innescato un denso dialogo educativo tra ricercatori, insegnanti e studenti rappresenta, oltre che una fonte di ispirazione per l’elaborazione di futuri percorsi didattici, un’opportunità per riflettere concretamente, sul campo e con le giovani generazioni, «sull’etica della liminalità» (Ivi: 16) e le sue potenzialità per la costruzione di comunità autenticamente democratiche (Ivi: 82).
In un’epoca contraddistinta dal «feticismo dei confini» (Khosravi, 2019: 12), l’antropologo iraniano Shahram Khosravi invita a porsi una domanda: «che cosa si vede se guardiamo il confine dall’altra parte?» (Ibidem). Provare a decentrare lo sguardo, unendo la postura antropologica alle esperienze di vita delle persone che abitano/attraversano/subiscono il confine, è probabilmente il modo migliore per realizzare che quel che sta dentro (e quel che sta fuori) una categoria dipende da definizioni mai date una volta per tutte. Come i contributi di Dialoghi sul confine testimoniano, allora, la soglia non può che essere intesa in duplice modo: lente per osservare da inedite angolazioni i meccanismi profondi del modo corrente di fare socialità e paesaggio-laboratorio di nuove forme di relazione.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Riferimenti bibliografici
Appadurai A. (2001), Modernità in polvere, Meltemi, Roma.
Baldriga I., Russo C., a cura di, 2024, Dialoghi sul confine. Patrimonio culturale e costruzione di comunità, Carocci, Roma.
Barth F., 1994, I gruppi etnici e i loro confini, in Maher V., a cura di, Questioni di etnicità, Rosemberg & Sellier, Torino.
Fabietti U., 1998, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, Roma.
Farinelli F., 2019, Cittadinanza, spazio, confini. La natura della modernità, in “Semestrale di Studi e Ricerche di Geografia”, XXXI, 2: 19-31.
Hannerz U., 2001, La diversità culturale, il Mulino, Bologna.
Khosravi S., 2019, Io sono confine, Eleuthera, Milano.
Lévi-Strauss C., 2002, Razza e storia. Razza e cultura, Einaudi, Torino.
Remotti F., 2019, Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Bari.
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System. Ha recentemente pubblicato presso le Edizioni del Museo Pasqualino nella collana “Dialoghi” il volume Antropologia a tutto campo. Discorsi sulla contemporaneità.
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