il centro in periferia
di Pietro Clemente
Orti e creatività
Una estate pesante. Caldissima. Intrecciata con nuove stime di contagio e di crescita di esso. Con nuovi negazionismi e vecchie e proterve pretese che dopo il virus, per rilanciare l’economia, si debba costruire sulle coste, si debbano inquinare i fiumi, insomma qualcosa tipo Trump o il Bolsonaro. Naturalmente la colpa di tutto è degli sbarchi. Tanto che ha circolato una vignetta in cui in piazza Duomo a Milano c’è il mare e ci sono le navi. Tanto per dire che il contagio in Italia viene dalla Lombardia non dall’Africa. Non lo si dice in modo esplicito ma per favorire lo sviluppo si chiede di far cadere i vincoli che – connessi con l’Europa – hanno reso l’Italia un Paese un po’ più attento al futuro delle nuove generazioni. Impossibile non arrabbiarsi con i virologi (pochi per fortuna, ma amati dalla destra) che tornano a dire che Covid è una semplice influenza, sarebbero da denunciare perché è come se dicessero che, visto che in terapia intensiva ci vanno solo gli anziani – miei coetanei –, per gli altri il Covid è come una influenza. Allora si ritorni esplicitamente all’eugenetica. Si smetta di vantare la longevità italiana e si dica che per la crescita del PIL qualche anziano in meno ci può stare. In una intervista su Repubblica toscana l’economista Stefano Bartolini racconta le speranze che apparivano quasi certezze e nuovi modi di vedere di un post Covid solidale e centrato sulla salute della natura e degli uomini:
«Nel frattempo è emerso un fenomeno inatteso: migliaia di persone che rivendicano il diritto a non cooperare, si rifiutano di indossare la mascherina, sostengono che il Covid è una bufala. La frattura è sempre più evidente da una parte populisti e furbi, che di solito tengono il profilo basso ma che in questo caso escono allo scoperto, e dall’altra parte tanti che credono nella cooperazione e nella solidarietà»
Per Bartolini in prospettiva c’è però la nuova centralità dello Stato e la possibilità di dirigere in modo diverso economia e società. La fine totale del neoliberismo e l’ingresso in una nuova epoca.
Quest’estate il mondo delle culture popolari ha vissuto in modo drammatico l’impossibilità di celebrare le feste come da tradizione. Infatti festival, sagre, processioni, spostamenti di santi, pratiche votive, sono state messe alla prova della responsabilità, e per lo più hanno dovuto trasformarsi, adattarsi, o rinunciare. Sulla stampa sarda di agosto si leggeva tutto il dolore, ma anche il difficile lavoro di concertazione, di dialogo tra le persone e con le prefetture e i sindaci. In molti casi, tra questi anche i Candelieri di Sassari, entrati nelle liste Unesco del Patrimonio Immateriale, hanno ridotto la festa al solo rito religioso con pochi presenti rappresentativi. In molte feste c’è in gioco un ‘voto’: una terrestre simbolica collettiva e obbligante restituzione al mondo del divino di un intervento di salvataggio ricevuto dal mondo umano. Sciogliere un voto è ancora un impegno di vita. E questo fa riflettere sulla natura della religione popolare sulla quale Paolo VI aveva aperto un importante processo di riflessione e riconoscimento. L’identità di un gruppo o di una comunità si investe in valori morali che si attuano in azioni ritualizzate, con un impegno che dà vita al senso stesso del loro esserci. Questo impegno sta nello spazio e nel tempo, nel percorso a piedi, nella croce che si regge, nella consegna di un’urna o di una statua.
Quest’anno in molte feste è rimasto solo questo scheletro: senza popolo. Ma era possibile fare diversamente? Innovare? Di fronte allo stesso problema si sono trovate realtà laiche: dal Palio di Siena al Teatro Povero di Monticchiello. Il primo ha rinviato di un anno, il secondo ha innovato la formula per accettare la sfida. La scelta di Monticchiello, con la piéce Isole d’istanti. Uno spettacolo itinerante, con un pubblico rarefatto ma diffuso in più luoghi, in uno spettacolo mobile e come sempre riflessivo sul tempo che viviamo e il Covid, è stata valida. Non sempre si possono trovare soluzioni simili. Gran parte delle feste hanno taciuto. Ho guardato con curiosità (e facendo il tifo) chi ha avuto la forza di rispondere alle difficoltà con l’innovazione.
Il Covid 19 si è presentato come la dialettica del negativo nella filosofia tedesca dei tempi di Fichte e di Hegel. L’ostacolo che si oppone allo spirito umano ma attraverso il quale esso realizza il superamento di una vecchia identità e la costruzione di una nuova. Negli articoli, raccolti in questo numero di Dialoghi Mediterranei, questo tema è presente in molti modi. È un discorso che continua perché già aperto nel numero precedente ove ci si domandava se la pandemia avesse prodotto anche qualcosa di positivo, di innovativo. Nelle aree interne si sono create situazioni di maggiore sopportabilità dell’isolamento? C’è stato desiderio di nuovi ritorni? Ci sono stati fenomeni di ‘riabitazione’ dell’Italia? Tendenze al formarsi di comunità resilienti? Anche in questo numero il tema centrale resta questo. Irrisolto ma ricco di indizi. Lo si trova analizzato in alcuni quartieri milanesi (Micoli), dove il Covid ha spinto alla socialità e alla solidarietà, ma anche all’attenzione alle culture biologiche e all’ambiente. Un tema già segnalato nel numero scorso anche con riferimento alle culture orticole locali che hanno sorretto – senza bisogno di lontani trasporti – l’economia alimentare delle zone interne e talora l’hanno riattivata. Mi piace darne una traccia dalla sceneggiatura del Teatro Povero di Monticchiello edizione agosto 2020:
«Scena Nona: L’ortolano (in scena un anziano e una giovane, con mascherina e guanti)
Albo: Mi fa proprio piacere che tu voglia imparare a piantare le piante e coltivarle
Alessia: Beh, sai, credo che dopo tutto quello che abbiamo passato, saper coltivare un orto, o un giardino, sia una cosa davvero utile.
Albo: Hai ragione! Io, quando siamo stati chiusi, appena hanno dato il permesso, mi so rimesso subito a ffà l’orto, ed è stata una vera salvezza per me, mi facevo la mi passeggiatina pe arrivarci, mi so distratto e ho preparato pe bene il terreno. Ho piantato zucchine, pomodori, peperoni, melanzane, cetrioli, sedani, cocomeri, meloni e cipolle.
Alessia: tutta sta roba? Ma allora sei davvero ricco
Albo: esatto, mentre tutti quell’artri erano a ffàò la fila pe la spesa, io andavo all’orto e da mangià ce l’avevo bello e fatto
Alessia: dobbiamo tornare a farci le cose da noi, e no andà a comprà tutto quello che ci serve senza mai sapè da dove viene o come è coltivato…».
Il virus come segno di confine, verso qualcosa di diverso, di nuovo, ma in sostanza di antico quanto l’agricoltura più elementare. Ma Monticchiello si connette con la Milano di Niguarda e altri quartieri delle pagine di Alessandra Micoli:
«OrtoComune Niguarda è una associazione nata nel 2015 in un’area facente parte dell’Ente ParcoNord, che ha ricevuto in gestione un terreno al fine di creare, con un progetto partecipato, un orto comunitario: un’esperienza completamente diversa dalla consueta assegnazione di piccoli orti in uso a pensionati o privati in generale, ed assomiglia a ciò che avviene da tempo in altre città europee e negli Stati Uniti.
Durante il lockdown, raccontano Arianna e Valeria, socie fondatrici e colonne dell’Associazione, la natura e le piante dell’Orto crescevano rigogliosamente, ma senza poter essere accudite, raccolte, curate. Così come crescevano le piante all’interno dell’Orto, cresceva la domanda sociale all’interno di un quartiere da sempre molto attento alle relazioni ed alle necessità delle fasce più deboli. Nel quartiere di Niguarda, così come in altri quartieri milanesi, la necessità di aiutare chi aveva più bisogno era ben presente in molti dei suoi cittadini».
Dove ci sono attività sociali il virus può essere occasione di azioni solidali, e di innovazioni pratiche. Se anche Milano, così minacciata e colpita dal virus, è a suo modo ‘paese’, l’orizzonte si estende.
Ma forse il testo più vicino alla mia considerazione è quello di Antonio Fanelli sulla festa del grano a Jelsi in Molise. Qui la festa ha dovuto cedere alle condizioni del tempo del virus, anche se i grandi intrecci di grano ci sono stati, ma senza la partecipazione popolare. Antonio Fanelli segnala un evento ‘notturno’: la creazione di una statua di grano rappresentante King Kong che – posta sul tetto del Comune – ammonisce sul futuro dell’umanità. Un intervento clandestino ma che ha mobilitato la comunità sui valori della festa in nome di Sant’Anna e della festa del grano. Per chi, come me, si è occupato di tradizioni popolari la festa di Sant’Anna è uno snodo importante del calendario del ciclo dell’anno, festa della trebbiatura, della mietitura e delle messi, ricca di tradizioni locali. Il King Kong di grano viene segnalato come una mossa imprevista, un atto creativo (quasi carnevalesco) che riproblematizza e rilancia il valore di una festa in parte costretta al silenzio. Tra creatività e silenzio si sono consumate tante feste estive, tanti giochi, tante ragioni d’essere di varie comunità. Anche il silenzio può essere una buona risposta. Ad esempio, l’Università di Oxford ha scelto di ricominciare i corsi in pubblico nell’autunno del 2021, così come il Comune di Siena ha scelto di rimandare di un anno la celebrazione del Palio di Siena e così è stato per tante altre feste religiose e laiche. Forse la scelta della prudenza più radicale è valida, però esclude la dialettica del negativo, e si può imbattere – speriamo di no – nella ripetizione della situazione pandemica. Per questo motivo sono stato attratto, nella cronaca locale sarda, dal dibattito sulla celebrazione o meno delle feste sarde. La Regione Sarda ha fatto e disfatto decreti che autorizzavano e che negavano autorizzazioni. In alcuni casi il disagio e il conflitto sono entrati nelle comunità. L’estate sarda ha pianto e rimpianto feste ridotte all’osso, senza pubblico, feste che in passato si presentavano con gigantesche estensioni di banchi di vendita di carni e pesci arrosto, ma ormai senza alcun profumo di cibi nelle attuali notti di agosto.
Gli scalzi
La più animata delle discussioni sulla celebrazione della festa in tempo di Covid si è avuta nella comunità legata alla Corsa degli Scalzi per onorare San Salvatore a Cabras. Cabras è un paese in provincia di Oristano, noto per la produzione della bottarga fornita dal vasto stagno oggetto nel Novecento di grandi controversie sociali. Il paese è inoltre noto anche per gli straordinari ritrovamenti archeologici di Monte Prama (i ‘giganti’).
A Cabras i preparativi della festa, che si svolge nel primo fine settimana di settembre, si sono aperti ai primi di agosto con un dibattito lacerante. Fermiamoci un attimo sulla manifestazione di San Salvatore dal sito Corsadegliscalzi.it:
«Il primo fine settimana di settembre Cabras, il villaggio di San Salvatore di Sinis e tutta la penisola omonima celebrano la Corsa degli Scalzi, processione e festa religiosa e civile in onore di San Salvatore. Tra le più sentite di Oristano e della Sardegna centro-occidentale. Il nome Corsa degli Scalzi non è affatto casuale: la processione tra Cabras e San Salvatore (primo sabato di settembre) e ritorno (la domenica seguente) è una rievocazione storico-religiosa della difesa della statua del Santo nel 1619 da parte degli “Scalzi” contro un’invasione dei Mori».
Gli scalzi corrono in gruppo e a piedi nudi raggiungendo nella corsa diverse chiese locali. La corsa ha valore di scioglimento annuale del voto, voto che, dal passato, si rinnova di anno in anno per la tutela del santo nella vita della comunità.
Si può correre distanziati e con le mascherine? Il Prefetto richiede le condizioni standard per dare l’autorizzazione. L’Unione sarda del 7 agosto riporta il titolo: “Nessun limite, altrimenti la Corsa salta”, il giorno dopo: “Scalzi, si dimette il vicepresidente”, quello successivo: “Scalzi e Covid , is curridoris si dividono. I priori allargano il dibattito ai 900 devoti”. L’11 agosto: “Cammineremo lenti e distanti. Una nuova proposta condivisa da molti corridori”. Il 12 agosto: “Due proposte per salvare la corsa”, il 13 agosto: “Torna la pace tra i corridori della Corsa degli Scalzi. Oggi una nuova proposta”. Il 14 agosto: “Gli Scalzi fanno un passo indietro. Il sindaco: Mi pare prevalga uno smarrimento generale”. Infine: “Scalzi, il sindaco pronto a bloccare la corsa. San Salvatore trasportato su un mezzo come Sant’Efisio a Cagliari”.
Una sorta di dramma quotidiano che mobilita centinaia di persone, associazioni religiose femminili e maschili, vertici e base di una comunità, che non è solo di fedeli in senso stretto, ma in qualche modo anche di ‘cittadini’ connessi alla identità storica della comunità: gli Scalzi, pescatori legati allo stagno e al mare. Il popolo si divide e poi si ricompatta rinunciando a innovare. Il trasporto del santo su un mezzo scoperto: è la riduzione del rito al suo ‘abstract’. Nell’amaro di metà agosto resta però il senso di una realtà che ha vissuto con dolore e con democrazia le proprie scelte. Chiamato in causa sarei stato favorevole alla proposta di adattamento del rito: ‘cammineremo lenti e distanti’. Ma non c’è mai una ragione valida che sia esterna alle scelte di una reale comunità che ha un rapporto di intimità profonda con l’evento. Quindi hanno ragione loro. Ovunque la sofferenza simbolica del Covid, che non se ne va, è ancora altissima.
A modo suo, ce lo ricorda il testo su Fiamignano di Settimio Adriani, che qui rappresenta la difficoltà, non solo la bellezza e la naturalità, del vivere nelle zone interne nella montagna. I piccoli paesi e il (non)senso della statistica è un messaggio di amarezza, di dolore e anche di rabbia di chi vive le aree montane contrappuntato da una specie di ritornello: ‘questa è la montagna’, che sta a significare, lasciate perdere gli orizzonti sconfinati, i paesaggi e l’acqua buona, se ci vivete avrete tutte le scomodità e gli svantaggi della marginalità. Adriani mette in evidenza un nodo centrale: oggi l’opinione pubblica ha raccolto l’idea di una vita diversa, di un ruolo nuovo delle zone meno abitate, ma si intuisce che il passare a una nuova prospettiva è insopportabilmente lento. Come essere fiduciosi ascoltando il bilancio di quattro anni di post-terremoto nelle zone del Lazio, Marche, Abruzzo, Umbria. Amatrice ancora piange. Si parla di complicazioni burocratiche, di ritardi, ma si capisce che questi territori non sono mai al primo punto di una agenda del governo, di un ministro o di un presidente di Regione. Cambiare su queste cose, riorientare lo sguardo, richiede uno sforzo ciclopico, che non può basarsi sul numero dei votanti spesso disuniti delle periferie, ma su una scelta etica, di salute e politica che si deve basare su una egemonia complessiva. Un progetto lungo. Adriani racconta la gente che va via alla fine delle vacanze dai paesi di montagna e la solitudine di chi resta. Situazione raccontata l’anno scorso per Berceto su Dialoghi Mediterranei anche da Maria Molinari. Questo sguardo triste alla solitudine dei paesi è anche nelle pagine del Manifesto per riabitare l’Italia, nelle pagine di Vito Teti per la voce Paese nella critica a tutte le visioni idilliche o troppo ottimistiche.
Quando l’economista Bartolini (Repubblica Toscana, 24 agosto) scrive che occorre con i soldi europei:
«Finanziare un grande progetto di transizione verso agricoltura e allevamento di qualità: che fanno bene alla salute e quindi riducono la spesa sanitaria. Il telelavoro ci offre l’opportunità di redistribuire la popolazione in campagne e montagne spopolate decongestionando e rendendo più sostenibili le città. Ma bisogna investire per portare ovunque la fibra ottica e consolidare il territorio fragile…».
Non sembra una visione un po’ semplicistica? Sembra tutto quasi fatto, mentre invece tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Il giorno dopo dei piccoli paesi è la solitudine.
Tra i primi numeri di Il Centro in periferia era presente anche lo sguardo lungo (più di 50 anni) di Toni Casalonga per la sua esperienza di Pigna in Corsica. Toni raccontava che nei primi anni quando gli amici partivano da Pigna dopo le vacanze tra mare e collina, lo guardavano con una certa commiserazione, come a dire: ma tu resti qui, anche l’inverno, ma che ci fai? Dopo molti anni però la gente ha cominciato a dire: sarebbe bello restare anche d’autunno, anche d’inverno in questa diversa dimensione della vita. I villeggianti avevano dunque un po’ di commiserazione di se stessi. Tempi lunghi, coscienze da costruire, esperienze da apprendere e da ricordare.
I musei di nuovo in campo
Si oscilla tra speranza e delusione, ottimismo e lentezza di ogni possibile vero cambiamento. Ma la sensazione è che ora il terreno sia leggermente inclinato nella direzione di un cambiamento. Si tratta di capire come e dove agire nel ‘piccolo’, nel ‘locale’ perché certi processi si affermino, e anche di come influire sul mondo della politica e dell’opinione pubblica legata alle città per definire leggi e azioni pratiche che favoriscano la uguaglianza di possibilità (nella scuola, nello spazio, nel web, nei costi dei servizi, nella medicina).
La riflessione di Rossano Pazzagli in queste pagine, che tiene conto del suo lavoro sul Molise delle aree interne (forse il Molise è tutto un’area interna), fa il bilancio con un certo ottimismo, ma anche con il senso della necessità di azioni politiche chiare, segnali forti di cambiamento.
«Esse hanno dimostrato, infatti, di essere luoghi più sani, a differenza delle grandi aree urbane e delle zone economicamente più forti. L’Italia interna sembrava moribonda, invece è viva e “bella dentro”: lontana, marginale e fragile, ma allo stesso tempo sorprendentemente viva e innovativa. Un Paese fatto di campagne e paesi. Anche se hanno subìto lo spopolamento, i paesi non sono contenitori vuoti, ma un deposito di patrimonio territoriale, di stili di vita e di servizi ecosistemici, e anche di virtù civiche che nell’insieme possono rivelarsi utili non solo per loro stessi, ma anche per sperimentare un diverso modello di sviluppo. Dopo il coronavirus potranno finalmente riacquistare la voce perduta ed essere i punti di una rinascita su altre basi, a condizione che se ne prenda coscienza da subito a livello sociale, economico e soprattutto politico….
Ma per vivere nei paesi delle aree interne servono soprattutto servizi, servizi essenziali, altrimenti nessuno tornerà e pochi resteranno. Non basteranno gli appelli. Nell’ottica di un riposizionamento delle aree interne italiane, considerate come ambiente salubre e laboratorio di nuovi stili di vita, le regioni più appartate – quelle remote della montagna come quelle più basse ma egualmente lontane dai flussi vitali – possono ritrovare una nuova centralità in vari settori, nella costruzione di una vera sostenibilità ambientale e sociale come preludio alla sperimentazione di nuovi modelli economici».
Silvano Sabbatini, in una recensione-riflessione-esperienza [1], ricorda che sul territorio ci sono presìdi nuovi e significativi, e ne fa una breve rassegna, che mostra che una certa prassi dal basso è viva e può fare da ponte e da traino, sia sul piano simbolico ed etico che su quello economico, al Riabitare l’Italia. Piccoli ‘contropoteri’ entro un progetto comune in fieri. Ci ricorda che comunque «12 milioni di persone continuano tenaci a vivere nelle aree interne, dentro l’Italia».
È nel tener conto di questi ‘presìdi’ che ritroviamo i musei, cui Il centro in periferia ha dato nei numeri recenti sempre la voce, per raccontarsi non solo come ‘agenti’ del patrimonio ma anche dello sviluppo locale. C’è un nodo nell’Italia fragile che riguarda la presenza e il valore dei musei, la loro crisi, la discussione su di essi. Antonio De Rossi e Laura Mascino conducono una battaglia contro una interpretazione conservativa del ‘patrimonio’ entro la quale collocano anche i musei locali. Un nodo stimolante questo, per gli antropologi, che vengono provocati in questa discussione (vedi anche la voce patrimonio del Manifesto per Riabitare l’Italia). La grande attività dei musei nel periodo del lockdown con mezzi inconsueti per essi, la riapertura con forti tratti di iniziativa e attivismo locale, fa pensare che anche i musei possono essere esempi di riferimento e agenzie di supporto per rilanciare l’abitare periferico. Sono nati per tenere memoria del passato, ma si ritrovano ad avere sia un mondo di oggetti e di saperi che può servire al futuro sia un ruolo intermedio tra società civile e istituzioni, una capacità di mobilitazione e di mediazione che potrebbe risultare strategica.
Nello sguardo panoramico che Diego Mondo dà al caso dei musei piemontesi delle zone interne e montane, c’è una prudente ma positiva prospettiva di questo genere. Essi intanto sia per la Legge regionale sulla Cultura, sia per il dialogo con l’Europa si trovano ad essere dotati di esperienze significative:
«l’approccio place-based elaborato in sede europea e sperimentato nell’ambito di strategie territoriali tuttora in corso offre interessanti indicazioni per l’elaborazione di risposte condivise in grado di proporre soluzioni innovative e percorribili. La valorizzazione del patrimonio culturale e la promozione del turismo (sostenibile, lento e di prossimità) includono dunque numerose questioni non solo legate all’accessibilità materiale dei luoghi. I musei etnografici presenti in area alpina rientrano in questo ambito di discussione, orientando le questioni poste dalla salvaguardia delle espressioni culturali in direzione di una visione allargata e trasversale relativa ad altri problemi strutturali del territorio….
Se dunque i musei/presidi etnografici possono integrarsi a più articolate iniziative di sostegno al welfare locale, contribuendo a creare le condizioni per la promozione dei diritti di cittadinanza, ci si può porre la domanda in che misura essi possano prendere parte a progetti rivolti alla sostenibilità e a promuovere nuove economie del territorio. In sostanza, a contribuire a salvaguardare i fragili ecosistemi montani e la biodiversità e ad inserirsi in quell’innovativo flusso di pensieri, azioni ed esperienze oggi presente nel mondo alpino».
Già nel numero precedente di luglio il Museo dell’emigrazione piemontese era apparso assai attivo nell’articolo della sua direttrice Carlotta Colombatto, e capace, pur non essendo di area marginale, di connettersi con la rete dei musei e dei temi generali di essi. Negli ultimi mesi l’ipotesi di Diego Mondo appare di fatto sottolineata anche dalla straordinaria valanga di iniziative che si possono seguire sul web da parte degli ecomusei piemontesi. Percorsi montani, trasmissione di saperi alimentari, di saperi paesaggistici, di storie di miniera o di sopravvivenza, cinema all’aperto, festival, traversano la ecomuseografia, dove i musei protagonisti hanno nomi radicati nel territorio sia come luoghi (i nomi delle valli) sia come temi (la pecora sambucana, la pietra ollare, l’argilla, la miniera, la segale…). Si riscontra una attività prevalente nella provincia di Cuneo sulla quale anche insiste il centro di Paralup, già protagonista di corsi sul ritorno all’agricoltura e della Rete del Ritorno.
Nel dibattito sui musei aperto nelle pagine de Il centro in Periferia con lo scritto di P. C. Grimaldi e Davide Porporato (I musei etnografici. Forme e pratiche di resilienza alpina), l’idea guida era proprio quella di constatare da un lato il ruolo di fatto dei musei nel sostenere iniziative locali extra museali, e la loro tendenza a farsi riferimento e sponda dello sviluppo locale. Quindi ad uscire da quel ‘paradigma patrimoniale’ cui De Rossi e Mascino attribuiscono un disinteresse verso la dimensione economica e sociale dello sviluppo locale. Spero che questi temi continuino ad essere discussi perché, secondo me, il nesso tra musei e sviluppo locale è diventato imprescindibile. Ma credo che tutta la letteratura antropologica, almeno dagli anni ’90, abbia visto nei musei uno strumento di iniziativa sociale, non solo dei luoghi della memoria di un mondo cimiterialmente disattivato.
Avrebbe dovuto esserci in questo numero un contributo sul Museo di Gianfranco Molteni. Gianfranco era un antropologo museale, allestitore di musei nel senese e in Toscana, che aveva in atto un impegnativo lavoro di coordinamento e scambio con i musei calabresi. La sua idea guida – che mi aveva anticipato – era quella di sostenere il carattere rilevante del museo per lo sviluppo locale e non solo per la memoria, la didattica o il turismo. Non avremo il suo scritto. E sono e siamo qui a rimpiangere la sua improvvisa e definitiva assenza. Anche a suo nome vorrei continuare questo dibattito.
Il Manifesto di Riabitare
Il volumetto delle ‘preziose’ (gradevoli, aggraziate, maneggevoli, con carta di qualità, delle copertine belle e semplici) Saggine dell’editore Donzelli, uscito a luglio, nasce in tutta evidenza come uno strumento di diffusione dei temi del ritorno e del riabitare. Diffusione, forse anche divulgazione. Ma tutta la sua struttura oscilla tra un impegno all’urgenza politica e una chiamata a un aperto e ampio dialogo intellettuale. Non ha la perentorietà del primo e grande Manifesto, quello dei comunisti di Marx ed Engles, anche se c’è un nuovo spettro che gira per l’Europa, ed è lo spettro del coronavirus combinato con quello del populismo nazionalista. I 10 punti del Manifesto, occupano otto pagine, i commenti ad esso ne occupano 40. Sono voci di intellettuali ed esperti che vanno dall’arte alla politologia, dalla geografia alla storia, dalla sociologia all’urbanistica. Tra gli autori delle voci ci sono anche economisti, antropologi, dirigenti di centri e istituzioni. Le 28 parole chiave del ‘dizionario’ di Riabitare l’Italia occupano quasi duecento pagine. Si intuisce il lancio dei temi del volume in un ampio spazio interdisciplinare, ma soprattutto aperto all’azione. Anche se il volume non è un bilancio di quel che si è fatto, né un elenco di proposte su quel che c’è da fare, il Manifesto indica un percorso, una ‘postura intellettuale’ e politica, un campo di azioni. Le voci non sono coerenti tra loro come la linea di un partito marxista del ‘900, aprono spazi, lasciano intuire differenze, possibilità di scambi e di divergenze.
Dobbiamo – e gliene siamo grati – al direttore di Dialoghi Mediterranei, Antonino Cusumano, una recensione nitida sia della struttura e delle voci che del carattere progettuale del libro:
«non è soltanto una raccolta, se pure importante, di pagine, di studi attenti e acute riflessioni ma è corpo di un progetto concreto, proposta empirica e pragmatica, laboratorio di idee e di appelli. Un prontuario o vademecum complementare ed esito naturale dell’altro libro, Riabitare l’Italia, edito appena due anni fa dalla stessa Donzelli a cura di Antonio De Rossi. Due testi che nella loro consustanzialità progettuale dialogano all’interno di un unico ragionamento, di una immagine del nostro Paese da rifondare, da ricostruire ribaltando l’ordine convenzionale del guardare e del pensare, mettendo al centro quei piccoli paesi delle aree interne che costituiscono l’orditura della trama rizomatica dell’Italia plurale dai mille campanili. Tanto più che nella sfida contro la pandemia alcune di queste comunità sono rimaste indenni dal contagio, potendo contare non solo sull’isolamento fisico ma anche su volontariato e associazionismo, su una governance di prossimità e di mutualità nella gestione dell’emergenza sanitaria, pur pagando il prezzo della grave deficienza sul piano delle infrastrutture tecnologiche e delle reti digitali».
Il testo Un sillabario per una Nuova Italia presenta il Manifesto nella nuova cornice della pandemia, delle scritture di speranza e di riflessione che caratterizzano questo difficile tempo. Il Manifesto comincia trattando di quella medicina territoriale che la pandemia ha mostrato non esserci più a danno di tutti gli italiani. L’aspetto che mi ha sorpreso di più di più in questo libro, al quale pure ho collaborato, è che il Manifesto è stato concepito prima della pandemia ed è stato ‘lavorato’ durante la pandemia, diventando anche – a suo modo – un istant book sulle politiche post-covid19. A noi autori è stato soltanto chiesto di tener conto nelle voci della situazione sanitaria che vivevamo. Il miracolo di questo libretto è vedere come tutti abbiamo scritto entro e nella prospettiva della crisi sanitaria che vivevamo, in pagine che però non sono congiunturali, ma abbiamo colto, si può dire tutti intuitivamente, il carattere epocale dell’evento.
Questo libro chiede di essere portato in giro, discusso, presentato. Ha bisogno di realtà locali che lo agitino o lo tengano come libro d’affezione a cui guardare per i loro progetti. La stampa ha già fatto circolare recensioni e segnalazioni, alcune voci hanno circolato oltre il confine della Saggina (tra queste in particolare la voce Confini di Fabrizio Barca, particolarmente densa e importante). Tra le voci credo che la voce Innovatori del sociologo Filippo Barbera valga la pena di essere letta da chi lavora nei piccoli paesi nella prospettiva del Riabitare l’Italia. Una voce gradevole, quasi narrativa, figlia di una ricerca sociologica complessa, che può aiutare a ridefinire l’identità di chi opera nei territori fragili. Di chi talora vien visto come un passatista, un nostalgico, un antimoderno. La dedico ai tanti amici e interlocutori della Rete dei piccoli paesi (una rete effimera oltre che virtuale) e ai collaboratori di Dialoghi Mediterranei, che con le parole di Barbera considero innovatori. Ogni tanto ci sono parole che possono aiutare i movimenti: questa è una di quelle.
La Società dei Territorialisti sta preparando un volume della sua rivista on line Scienze del territorio su “Dal confinamento pandemico nuove forme dell’abitare”, e spero che questi due volumi possano incrociare idee e progetti.
Tutto questo sta nella «crisi di egemonia specchio di una più generale criticità del modello di sviluppo lineare e ‘progressivo’ di cui si era nutrito il Novecento» (Manifesto pag. 3, punto 2), e si muove verso una nuova possibile egemonia di un modello economico che sia anche modello di vita e di relazioni, legato ai luoghi e agli uomini. Usiamo questa parola legata al pensiero gramsciano, una parola intensa, forte, difficile che va presa sul serio. Egemonia. Forse non sappiamo ancora quali sono le condizioni nelle quali essa si può produrre nel nuovo millennio. Ma le stiamo cercando. Forse un passaggio importante è, come scrive Cusumano, «un patto tra questa Italia dei margini e il resto del territorio nazionale» in grado di «innescare quella ricomposizione materiale e culturale auspicata per uno sviluppo sostenibile che tiene insieme centri e periferie».
Turismo
Forse ci sarebbe voluta una voce ‘turismo’ nel Manifesto. L’ho pensato solo ora, dopo una estate sarda in cui pareva che solo il turismo fosse risorsa economica per l’isola. Pastorizia estensiva e turismo estensivo. Una Sardegna futura da incubo. I sindaci sardi hanno firmato (molto numerosi, più di 200) un progetto di riconoscimento Unesco del ‘paesaggio culturale sardo’ tutto basato sulla Sardegna preistorica, non c’è traccia neppure della mitica Sardegna giudicale, figurarsi delle miniere e delle tonnare, dell’industria petrolifera. Una concezione arcaizzante del paesaggio culturale. Ben venga anche questo riconoscimento, ma il commento del politico, che accompagna il progetto, merita una riflessione: «Questo ci consentirà di mostrare al mondo quest’unicità in misura superiore a quanto già accade oggi, e la ricaduta per il turismo sarà evidente». Credo che si debba discutere di cosa è il turismo. Da anni ci sono studi serissimi. In genere viene tradotto in numeri di cappuccini e brioches, di souvenir, di alberghi e B&B. Ci sono Associazioni che lottano contro il turismo di massa e ci sono economisti, antropologi, sociologi, geografi che lo studiano. Ma sembra che lo si debba o demonizzare o lusingare. Questo strano Golem va decostruito, analizzato, trasformato in voci di varie tipologie già da tempo in uso. In studi locali, basati sul carico e il consumo di territorio, o all’inverso sulle capacità di sollecitare nuove iniziative. Quasi tutti i piccoli paesi hanno avuto a che fare con turisti speciali che sono diventati attori di progetti di rinascita. Ma il turismo di cui si parla per la Sardegna è fatto di grandi navi, di masse di stranieri anonimi, di indotto che non fa decollare una nuova economia ma una vecchia e nota tendenza che, incrementando il turismo come economia prevalente, fa diventare l’identità sarda sempre più un prodotto turistico. Forse se ne riparlerà per l’uscita al festival di Venezia del film di Salvatore Mereu, Assandira, nome e storia tratte dal romanzo di Giulio Angioni, antropologo sardo, che ha riflettuto sul turismo in Sardegna rivivendolo narrativamente in una forma vicina alla tragedia greca.
Due perle rare
Completano queste pagine de Il centro in periferia due scritti speciali. Il testo di Nicola Grato dedicato alo scrittore siciliano Bufalino (Il paese secondo Gesualdo Bufalino) e alla dimensione del paese, e il testo di Linetta Serri (Storia di una foto), dedicato a una fotografia di Emilio Lussu da giovane, ripreso in una battuta di caccia, che diventa un racconto straordinario che coinvolge generazioni, archivi, memorie, incontri, storie di vari gradi del passato. Le pagine di Grato su Bufalino mi hanno ricordato più volte le pagine di Alberto Cirese su Cosmo e campanile [2], su provinciale e nazionale. Perché l’abitare il paese implica al tempo stesso rifuggire «come una malattia mortale da ogni localismo» e addirittura, come dice Bufalino, «…mi convinsi che ciascuno di noi ha almeno tre patrie: il villaggio o città dove nasce, la regione dove abita, la comunità nazionale a cui appartiene. Più tardi ancora capii che la terra è la patria di tutti; che il più remoto esquimese mi è fratello altrettanto quanto l’inquilino della casa di fronte… Dissi e scrissi che la mia patria più vera era la biblioteca».
Sono passi che mi fanno pensare a un saggio di Cirese sulla rivista Basilicata [3] intorno alle sue molte patrie: l’Abruzzo della madre e della nascita, il Molise del padre, ma anche Rieti e il reatino della sua vita di giovane, e la Sardegna dei suoi anni di Università, di ricerca, di incontri (in cui io stesso sono iscritto) e infine il Messico di cui si innamorò per l’accoglienza e la bellezza di un mondo che gli ricordava il suo passato, e dove fece tante appassionanti lezioni in una lingua che ironicamente chiamò ‘itagnolo’. Credo che a Bufalino sarebbero piaciuti questi e altri riferimenti di Cirese a identità mobili e molteplici ma sempre legati a centri concreti della vita. Essere provinciali, è anche il tema caro a De Martino della patria culturale.
Storia di una foto mi sembra una piccola perla perché è insieme una ricerca, dove si scoprono cose impreviste, uno stabilire relazioni, un ricordare persone che non ci sono più, e una metafora del valore delle cose del passato. Tutto questo avviene intorno alla figura di Emilio Lussu che in queste pagine abbiamo spesso associato alle attività di casa Lussu ad Armungia, paese natale di Emilio, e del ritorno dopo due generazioni del nipote Tommaso. Il rapporto tra Lussu ed Armungia è stato forse l’opposto complementare di quello di Bufalino. Nel senso che Lussu dopo la giovinezza non ha più vissuto ad Armungia, ma la sua esperienza del paese è stata per tutta la vita una bussola, anche quando i suoi pensieri erano sullo scenario internazionale, sulla guerra di Spagna, sul nazismo, e la sua vita si svolgeva in Francia. Ne ha scritto in testi di straordinaria efficacia narrativa. Una bussola e un luogo di intensi ritorni. La fotografia ritrovata lo lega alle battute di caccia e alla sua formazione narrata ne Il cinghiale del diavolo. Ma il racconto di Linetta Serri parte dalla pandemia, dal lockdown, vive nel suo interno e dà senso allo scritto anche come un atto di resurrezione, sia per la storia e la foto uscite dall’oblio, sia per l’uscita dell’autrice dalla reclusione. Linetta è, nelle pagine de Il centro in periferia, una presenza speciale. Perché lei è stata il sindaco di Armungia che per tre anni ha favorito e coordinato degli stage di ricerca dell’Università di Roma nel ‘paese di Emilio Lussu’, esperienza intensa e forte nella formazione di tanti giovani e mia. Una esperienza che è rimasta anche come un legame con quel paese che continua ad avere un valore per me. La presenza di questo testo su Lussu la considero un dono, e idealmente invito tutti gli autori di questo numero ad accogliere e festeggiare con me la Storia di una foto, e Linetta Serri, autrice, e ‘sindaco storico’, o ‘sindaca storica’ del paese di Emilio Lussu.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] L. Martinelli, L’Italia è bella dentro. Storie di resilienza, innovazione e ritorno nelle aree interne, Altreconomia, Milano, 2020.
[2] A. M. Cirese, Tra cosmo e campanile. Ragioni etiche e identità locali, a cura di Pietro Clemente, Gianfranco Molteni, Eugenio Testa, postfazione di Alessandro Mancuso, Siena, Protagon, 2003
[3] A. M. Cirese, Il Molise e la sua identità, in “Basilicata. Rassegna di politica e cronache meridionali”, 29, 1987, n. 5/6
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
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