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Per Vincenzo Padiglione

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CIP 

di Ivan BargnaPaolo Cavaglione, Silvia Mascheroni

Il pensiero concreto di Vincenzo Padiglione

Nel suo lavoro di antropologo Vincenzo Padiglione guarda ai modi in cui le persone stanno insieme, allacciano e sciolgono relazioni attraverso la mediazione esercitata dalle cose. E di come le cose stabiliscono dei rapporti fra loro tramite le persone che ne fanno uso, le raccolgono, le separano, le alterano, le producono e le distruggono. Cose e non oggetti, nel senso che non si tratta mai solo di qualcosa che sta nella nostra piena disponibilità, come docili strumenti che estendono la nostra padronanza confermandoci nella posizione di soggetti, almeno fino a quando si inceppano disabilitandoci. È di questa sporgenza ed eccedenza delle cose, della loro agentività riottosa che Vincenzo si  è occupato.

Le cose hanno una loro autonomia, ci resistono e al tempo stesso ci costituiscono contribuendo a fare di noi quello che siamo (Gell 2021; Latour 2005). Talora queste cose prendono la forma di immagini, alcune delle quali acquisiscono lo status speciale di ‘opere d’arte’ o costituiscono degli insiemi particolari e distinti cui diamo il nome di ‘collezioni’. Che è poi il terreno su cui Vincenzo e io ci siamo incontrati. Si tratta di ambiti il cui interesse, al di là delle apparenze, non è meramente specialistico e settoriale ma che aprono su un ampio insieme di dispositivi culturalmente variabili attraverso cui le società riflettono sulle pratiche quotidiane attraverso cui danno forma al mondo e a sé stessi, in un rapporto di corrispondenza sintonica o di presa violenta di quel che ci viene incontro.

È il caso ad esempio delle maschere, che Vincenzo Padiglione ha collezionato e alle quali ha dedicato una mostra [1]: nella pratica del mascheramento possiamo vedere una sorta di meta-abbigliamento, di ripiegamento riflessivo che mostra in maniera ritualizzata quelle che sono le modalità con cui ordinariamente l’abbigliamento opera, contribuendo a fare di noi quello che siamo, dandoci a vedere e nel contempo sottraendoci allo sguardo, nel vestirci, nello spogliarci e cambiarci d’abito negoziando con gli altri l’immagine di sé (Bargna 2004, 2015). Quel che qui è all’opera è una ‘scienza del concreto’ come scriveva Lévi-Strauss (2015) a proposito del ‘pensiero selvaggio’ che opera attraverso le cose, così come accade anche nei microcosmi sospesi fra reale e immaginario elaborati dai collezionisti (Padiglione 2021).

Che si tratti di cose o di persone, abbiamo sempre a che fare con la materialità di corpi e proprio per questo sullo sfondo e all’orizzonte sta la questione ineludibile della vita e della morte, di quel che dura e di quel che svanisce o assume un’altra forma, si trans-forma. Se, come scriveva Hannah Arendt, «la realtà e affidabilità del mondo umano poggia in primo luogo sul fatto che siamo circondati da cose molto più durature delle attività di coloro che le hanno prodotte» (Arendt 2017), resta comunque il fatto che la caducità è sia degli uni e degli altri.

978880620306graQui credo stia il nucleo profondo dell’agire riflessivo, inquieto e pulsante, di Vincenzo Padiglione, nell’acuta percezione della fragilità, deperibilità e consunzione dei corpi di cose e persone, al di là di ogni distinzione o contrapposizione fra organico e inorganico, naturale e artificiale. Vincenzo non prende la strada dei massimi sistemi, filosofici o religiosi, non cerca soluzioni rassicuranti, ma indugia sul margine, nelle pieghe più intime delle vite di cose e persone, laddove alla morte non sembra esserci riscatto. Talora, facendo suoi i proclami delle avanguardie artistiche di primo Novecento, sembra annunciare sfracelli, voler sovvertire il mondo (nei titoli di tante sue mostre ritornano i termini ‘eccesso’ ed ‘estremo’) ma a me sembra che al fondo la tonalità emotiva prevalente sia quella di un ripiegamento malinconico e dolente e tuttavia inquieto e mai rassegnato. che non esclude improvvisi ringiovanimenti. Ma naturalmente la vita, tanto personale che sociale ha sue stagioni, tempi che sono molto diversi e questa è una considerazione che faccio ora, in questa fine 2024.

Cose rotte, ferite, mancanti, debilitate, oggetti non più in grado di assolvere le funzioni per cui erano stati prodotti, recuperati nei mercatini delle pulci, salvati dalla discarica, che è poi il terreno e frangente da cui sono nati molti musei etnografici. Rovine che incorporano memorie stratificate, che mostrano le tracce visibili degli accadimenti che le hanno coinvolte e colpite. Attori e testimoni muti che evocano e rievocano e eventi e contesti di vita declinanti o scomparsi, che si presentano come enigmi che ci interpellano senza che li si possa sciogliere. Molte di queste cose assumono la veste di ‘oggetti d’affezione’ (Clemente, Rossi 1999) separati però da chi li aveva investiti sentimentalmente: oggetti patetici che richiamando le vite degli altri rendono presenti gli assenti, consentendo una qualche forma di socialità immaginaria ma non di meno reale. Vite apparentemente finite, forse bruscamente interrotte, cui è data una seconda possibilità oppure vite mai vissute, ‘vite di scarto’ che sono gli effetti collaterali di una costruzione di ordine che produce modi di vita ‘fuori posto’ (Bauman 2004). Biografie la cui storia non è mai stata scritta, memorie flebili di vite trascurabili. Oggetti ordinari e banali, artigianali o seriali, che tuttavia hanno poi vite che sono uniche, talora imprevedibili e inattese. Alcuni di loro, scampano a consunzione e distruzione, riemergendo proprio grazie alla decimazione di cui sono vittima gli altri e che nel renderli rari conferisce loro oggetto una nuova e diversa salienza candidandoli a vivere nelle collezioni.

Vincenzo  è catturato  dalle cose e ne subisce la fascinazione, non le classifica e cataloga trattandole come sopravvivenze residuali di un mondo estinto che si deve per quanto possibile ricostruire (l’approccio retrospettivo dell’etnografia come  rappresentazione di uno stato di cose preesistente), ma le riporta nel presente, come cose e persone fuori tempo, la cui forza sta proprio nella loro inattualità, nello sfasamento che ce le fa percepire come degli intrusi, presenze fuori luogo, la cui forza a venire sta proprio nel loro essere disturbanti, anacronistici ed eterotopici.

Si tratta allora non di capire e spiegare, ma di far loro posto, riconoscendone l’autonomia che poggia sulla loro ingombrante materialità, coriacea e inservibile. Estraneità irriducibile che richiede rispetto, che invita a un passo indietro o di lato, per non ridurle a noi. Di qui il compito che Vincenzo Padiglione assegna all’antropologia: quello di offrire un ‘risarcimento simbolico’ ai perdenti, agli sconfitti, alle vite che hanno fallito. Ma le ferite non vengono sanate e le cose restano ‘in bilico’ tra un passato che non torna, un presente sempre più distante e un futuro incerto: esistenze precarie e proprio per questo preziose, perché sempre sul punto di perdersi.

Delle cose come delle persone occorre prendersi cura, accompagnarle nelle diverse fasi della loro vita. La vita non si dà mai tutta insieme, ma un po’ alla volta, in un presente stretto d’assedio da una vita che non c’è più e da una di là da venire: se l’adultità ci appare come il punto culminate dell’esistenza, sono l’infanzia, l’adolescenza e la vecchiaia a occupare gran parte della nostra vita. In realtà la condizione prevalente è quella di una protratta dipendenza dagli altri, cosa che mostra il carattere in gran parte illusorio, ideologico, dei modelli culturali centrati sull’adulto come individuo autonomo e indipendente, incarnato dalla figura, oggi declinante, del maschio eterosessuale, bianco, agiato, istruito e normodotato.

Vincenzo si interroga sul prezzo da pagare che l’età adulta impone: le speranze tradite, le vite non vissute, l’armatura delle convenzioni sociali che il ruolo richiede. Di qui la sua attenzione ai giocattoli e alle cose dell’infanzia, custodi non solo di memorie ma di vite possibili, di futuri non-ancora realizzati, di promesse mancate che possono essere in una certa misura riattivate, nell’intuizione che ci sia qualcosa di più del qui e ora, che sia possibile arrestare il flusso lineare della storia, avere una chance di un riscatto per i vinti. È qui ben presente il pensiero di Walter Benjamin (2000) e di Ernst Bloch (2019), la loro attenzione al kitsch, alla fantasmagoria delle merci nello spazio pubblico e a quella più individualizzata e privata degli interni domestici, al frammento e allo spirito dell’utopia. 

Oggi l’adultità non è più certa e si accorcia, assediata dalla giovinezza che si allunga e dalla vecchiaia che la erode. Oltre l’opposizione speculare fra dipendenza e indipendenza, dovremmo allora prender atto della nostra permanente interdipendenza, quella che tiene insieme cose e persone, umani e non-umani.

Quelli che viviamo sono tempi contrassegnati da un’incertezza crescente con un passato irrilevante e un futuro imperscrutabile. Si naviga a vista ricercando gratificazioni immediate nell’impossibilità di un qualsiasi progettualità collettiva e individuale su tempi lunghi. In questo contesto anche l’esistenza degli oggetti diviene effimera, i loro cicli di vita si abbreviano: programmati per non durare vanno incontro a un’obsolescenza accelerata che non lascia rovine ma solo macerie (Augé 1997). Quel che resta sono rifiuti indifferenziati o materiali riciclabili, più raramente un riuso degli oggetti nei circuiti dell’economia circolare.

i__id5917_mw600__1xNelle società dell’abbondanza gli oggetti si svuotano di senso e funzione, si mutano in segni privi di significato, simulacri che alimentano un’economia della finzione (Baudrillard  2012). Se nella società industriale gli oggetti prevalevano sulle cose, in quella post-fordista tendono a smaterializzarsi per lasciare il posto a un consumo esperienziale di sensazioni ed emozioni fredde, di legami deboli che elidono investimenti affettivi impegnativi e duraturi.

In questo contesto antiquariato, vintage e collezionismo si fanno più ambigui: da un lato appaiono come pratiche di resistenza tese a valorizzare le tracce delle vite degli altri e a contrastare il consumismo usa e getta, dall’altra divengono l’espressione di un’economia che fa propria la forma della collezione creando valore non attraverso il lavoro ma la circolazione dei significati sotto il segno della cultura in senso antropologico (Boltanski, Esquerre 2017). Non si tratta più tanto di creare nuovi oggetti ma di mettere a valore la diversità culturale dei passati per arricchire gli oggetti già esistenti,  associando loro delle narrazioni  che sono il prodotto di uno storytelling management  (Salmon 2007).

In questo quadro il collezionismo non è solo un tipo di attività specifica ma una forma generativa del valore, un operatore che permette di mettere in rapporto i domini differenti di attività mercantile sui quali poggia l’economia attuale, consentendo di conciliare l’omogeneità del mondo delle merci con la diversità degli oggetti che lo compongono, di produrre ‘autenticità’ attraverso pratiche di rarefazione (Boltanski – Esquerre, 2017). 

Su questo terreno quanto mai instabile Vincenzo Padiglione si è mosso in modi sempre esplorativi, con etnografie che sono sperimentazioni, che aprono orizzonti senza mai la pretesa di chiudere il cerchio. Tentativi condotti per prova ed errore, senza garanzia di riuscita; mosse tattiche di spiazzamento che proprio perché poco rassicuranti, possono forse aiutarci a reggere le sfide dell’incertezza.

5037950cover29326È questo il caso delle sue ‘installazioni etnografiche’ (Padiglione 2009) che non sono solo una forma di comunicazione ma di pensiero concreto che si fa attraverso le cose. Né monumenti né documenti (Le Goff 1978) le installazioni etnografiche sono dispositivi situazionali e rizomatici che non illustrano una realtà data né espongono un ordine prescrittivo, ma invitano all’esplorazione attiva, a un pensiero da farsi insieme.  Genere spurio che prende forma nella zona di contatto e di frizione fra arte contemporanea e antropologia: privo dell’unitarietà, autosufficienza e bellezza dell’opera d’arte post-rinascimentale così come del nitore della museografia etnologica classificatoria.

Site-specifc e stranianti, composite ed eteroclite, temporanee e non-finite, relazionali e immersive, enigmatiche e riflessive, le installazioni mettono fuori gioco la contrapposizione fra opera d’arte e oggetto etnografico. Come già in parte aveva fatto Marcel Duchamp (altro riferimento centrale nel lavoro di Vincenzo Padiglione) attraverso i suoi ready-made, presentando oggetti comuni e riqualificandoli attraverso operazioni semantiche (la firma e titolo che ne fanno un’opera di anti-arte, l’urinatoio che diventa fontana), ricontestualizzazioni (dalla fabbrica e dalla stanza da bagno alla galleria) e riposizionamenti (l’inclinazione che rendeva l’urinatoio inutilizzabile aprendo a qualcos’altro).

È quel ‘sabotaggio culturale’ che Vincenzo ritrova nelle forme di ‘collezionismo estremo’ – e che gli consente di decostruire la staticità dell’oggetto etnografico, contrastando la visione che tutto vada da sé, che le cose non sarebbero potute andare diversamente, che il futuro si riduca a semplice variazione dell’esistente. Così gli accumuli di cose ed oggetti delle sue installazioni disordine, aprono a una molteplicità di rimandi attivabili, alla multidimensionalità del farsi e disfarsi delle “pieghe” che costituiscono la realtà attraverso la restituzione di materiali ordinari in modi imprevisti e disorientanti. Accostamenti paratattici che producono urti, come l’incontro di un ombrello e di un ferro da stiro su di un tavolo di dissezione anatomica (Lautréamont 2021). 

Padiglione non si limita a mutuare una tecnica artistica portandola sul terreno antropologico ma la torce e la stressa alla ricerca costante e mai conclusa di un equilibrio a geometria variabile fra risonanza e meraviglia (Greenblatt 1995), fra lo stupore che ci fa restare senza parole, assorbendoci nel microcosmo dell’opera e l’effetto eco che genera interconnessioni imprevedibili che ci portano fuori e lontano. Assemblando in modi situazionali e provvisori l’eterogeneo e il molteplice l’installazione pratica incontra sul terreno della materialità molte delle nozioni con cui gli antropologi hanno cercato di pensare contemporaneo come quelle di ‘bricolage’, ‘meticciato’, ‘creolizzazione’, ‘connessione’, ‘culturale’, ‘panorama’. E contribuisce a spostare la conversazione un po’ più in là. 

Vincenzo Padiglione

Vincenzo Padiglione

Un collezionista estremista o un artista performer?

La cosa è uno dei termini più abusati nel linguaggio parlato, quello povero che non è capace di individuare la parola giusta per descrivere un oggetto, un’azione, un sentimento, un comportamento, una situazione. Un minus strettamente legato al crescente analfabetismo di ritorno, ma anche all’impossibilità (o incapacità) di individuare nel vocabolario le voci giuste per individuare nuove forme di comunicazione, di offerta non solo culturale, di aggregazione. Pensate solo alla parola evento abusata per descrivere qualcosa che nel catalogo non c’è.

Ma dato che il catalogo (anche delle incapacità) è questo ecco che la cosa o l’evento, così nominati, perdono di vista la loro identità, l’essenza stessa di quella cosa o di quell’evento. L’assenza di precisione nel descrivere (qual)cosa interseca drammaticamente la perdita dell’emozione e della memoria che una parola precisa può generare nell’interlocutore. “Ecco qui una bella cosa per lei!” dice il rigattiere al cliente in cerca di un’idea per un regalo. Ma se invece dicesse “ecco qui una bella bambola per la sua bambina!” metterebbe in moto un ricordo personale corredato di emozioni positive (o negative) legate a un mondo, reale o immaginato, ma pur sempre un mondo.

Ecco, Vincenzo Padiglione è colui che si è incaricato di resistere alla perdita di memoria delle “cose” dando loro, oltre a un nome, storia e significato.

Ma chi è – mi sono chiesto – Vincenzo Padiglione? È solo un antropologo o una sorta di ircocervo nel quale convivono molte figure? È un collezionista estremista (oltre che estremo) di cose e di potenza delle cose, un abile investigatore, un semplice osservatore affetto da voyeurismo, un sabotatore dell’ordine (e del significato) delle cose, un artista performer, un accumulatore serio (e seriale) di oggetti scartati?

È insomma tutte queste figure insieme o ognuna di esse viene da lui scelta di volta in volta in relazione agli oggetti del suo interesse? E poi, mi sono chiesto ancora, per Padiglione è più importante l’oggetto in sé o il mondo che rappresenta? Nietzsche diceva che non esistono i fatti, ma la loro interpretazione. Potremmo dire parafrasando il filosofo che per Padiglione non esistono le cose, ma la loro interpretazione?

barocco-povero6Non ho onestamente una risposta a queste domande, perché – confesso – non sono un antropologo, né uno storico dell’arte e ho deboli strumenti per tentare un responso. Spinto da Pietro Clemente mi sono trovato a coordinare la presentazione de Il Padiglione Barocco, il libro (che definirei anche un album di famiglia) che molti e stimati studiosi hanno concepito e realizzato per raccontare la loro relazione con Padiglione e la sua opera. Da modesto collezionista di objet trouvé mi sentivo vicino all’argomento e ho quindi accettato con piacere questo incarico consapevole che il mio contributo poteva essere solo lo stesso offerto dal semaforo all’incrocio.

Ma, osservando il traffico tra una luce verde e una rossa, e soprattutto leggendo il libro ho capito almeno tre cose (mi si perdoni qui l’uso del termine cose).

Primo. Il lavoro (e il merito) di Padiglione si distingue per la capacità di creare connessioni profonde tra gli oggetti e le culture che li hanno prodotti.

Secondo. Per Padiglione un oggetto non va studiato solo come reperto culturale; va anche interpretato come frammento di storie, emozioni e relazioni umane, per dare a quell’oggetto una nuova vita e senso.

Terzo. Esiste una relazione forte tra la precarietà degli oggetti (in attesa di essere scartati) e la precarietà sociale dei nostri tempi (sempre di più, ad esempio, si parla di persone “scartate” dal mondo del lavoro)

A margine, ma neppure tanto, mi pare anche di avere compreso che questo approccio è uno dei pilastri della narrazione antropologica e culturale nella società postmoderna. Ogni oggetto, anche il più umile e disastrato, porta con sé un frammento di memoria, una traccia delle vite che ha attraversato e delle mani che lo hanno toccato. L’idolo consumistico, aumentando esponenzialmente la quantità di oggetti prodotti e scartati, ha paradossalmente arricchito il potenziale narrativo degli oggetti, trasformandoli in contenitori di storie personali e collettive.

Dalla valigia guatellesca di Padiglione, come dalle mutandine di Eta Beta, escono oggetti tra i più disparati. Su ognuno di essi il professore potrebbe tenere una lunga e approfondita lezione per il piacere del suo pubblico. E quando gli oggetti sono tanti e hanno un filo rosso che li connette, voilà, il demoetnoantropologo fa nascere un museo o una mostra a significare che la portata culturale di una raccolta di giocattoli di legno non è certo inferiore a una collezione di quadri del novecento. Il valore forse no, ma solo quello economico.

Un oggetto, insomma come una finestra su un mondo. Una bambola di pezza può raccontare l’infanzia di una persona, il contesto socio-economico in cui è vissuta, le idee di affetto e cura, e persino i valori estetici di un’epoca. Un vecchio mappamondo riflette la percezione della Terra di un tempo: i confini tracciati, i nomi dei paesi e le loro trasformazioni nel tempo raccontano una storia politica, geografica e culturale. Un piccolo cavallo di legno porta con sé le tracce della manualità artigianale, delle aspettative educative sui bambini e della relazione con la natura in epoche diverse.

Ogni oggetto usato, quindi, porta segni di una relazione umana: graffi, riparazioni, usura. Questi dettagli per Padiglione non sono meri difetti, ma veri e propri linguaggi che raccontano la vita dell’oggetto e delle persone che lo hanno vissuto. Una bambola rattoppata, ad esempio, diventa simbolo dell’importanza che aveva per il bambino o della scarsità di risorse che spingeva a riparare piuttosto che a sostituire.

In questo bel libro che raccoglie sul capo tribù le testimonianze affettuose e partecipate dei suoi colleghi, amici e seguaci emerge anche – almeno così io l’ho percepita – la forte relazione tra Scarto e Memoria.

vincenzo-padiglione-mauve-framedGli oggetti scartati non smettono di parlare. Diventano parte del nostro paesaggio materiale e spesso, con un cambio di prospettiva, riacquistano valore. Nella società postmoderna, caratterizzata da un surplus di beni, il gesto di riscoprire un oggetto dimenticato e attribuirgli una nuova vita è un atto di resistenza al consumo superficiale e alla perdita di memoria.

Insomma, partire da un oggetto usato come fa Vincenzo Padiglione per raccontare un mondo non solo è possibile, ma è anche un’azione estremamente potente. Un modo per esplorare il rapporto fra le persone, la cultura e il tempo, rendendo visibili le storie nascoste nei dettagli più semplici e quotidiani. Un esercizio che ognuno di noi può fare, magari aggiungendo ai bidoncini della raccolta differenziata un nuovo contenitore con la scritta “A passata memoria”. 

Imperterrito puer, Maestro di meraviglie 

Ho pensato di formulare una dedica per Vincenzo: frammenti poetici, appunti e riflessioni dedicati agli oggetti che abitano il suo mondo e alla relazione con loro.

In incipit, due poesie.

Agli oggetti non importa nulla della nostra vita
ma a noi interessa molto la storia di questi esseri feroci
che invadono il nostro mattino.
Questi esseri che si svegliano con noi all’alba
e che continuano a ripetere crudeli: Sei ancora qui con noi, ancora una volta viva.

Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, Milano, Rizzoli 2007.

Le cose 

Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da gioco e gli scacchi,
un libro e tra le pagine appassita
la viola, monumento di una sera
di certo inobliabile e obliata,
il rosso specchio a occidente in cui arde
illusoria un’aurora. Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno più in là del nostro oblio;
non sapran mai che ce ne siamo andati.
Jorge Luis Borges, Elogio dell’ombra, Torino, Einaudi 1971 

Come scrive Jorge Luis Borges, le cose “Dureranno più in là del nostro oblio: non sapran mai che ce ne siamo andati”: silenziose guide, sentinelle amiche per l’altrove del dopo vita nei riti più antichi, custodi della solitudine. Sanno rievocare un tempo collettivo, un sentire preciso.

E quegli oggetti, anche non posseduti, ci appartengono, perché sono nella memoria di tutti.

Se i codici della relazione virtuale del nostro vivere contemporaneo sono dominati dalla smaterializzazione, gli elementi fisici degli oggetti di Vincenzo, che impagina, sorprendendoci sempre, costituiscono un elemento evocativo importante, occupano uno spazio preciso della memoria.

Sensibilità e sensitività: la mappa affettiva si costruisce anche grazie all’esperienza tattile che permane; liscio-ruvido-lucente-tenue-caldo … corpo e forma, gli avvitamenti e gli incastri, la leggerezza e il pondus.

Di storia in storia, di mano in mano, la patina di ogni oggetto si arricchisce di significati, valori, legami affettivi che danno vita a una partitura di senso con accenti e risonanze. Di generazione in generazione.

I pensieri-ricordi, affastellati, mettono in moto la slot machines di un tempo privato, ma che si fa collettivo e plurale. Compongono un inventario degli affetti (invenire e inventare: scoperta e creatività), senza generare malinconia, o peggio ancora rimpianto, provocano corrispondenze e dunque sono anche un poco magici, nel loro essere protagonisti di ritualità.

Ci interrogano con discrezione.

Quando sono entrato nel tuo quotidiano?

Dove mi hai trovato?

Perché mi hai voluto?

Che cosa sono per te?

L’anagrafica dei dove e dei quando a volte si slabbra nella memoria.

Gli oggetti raccontano di noi, e noi di loro, con spontaneità, senza ritrosia, tra intimità e distanza.

Raccontano di luoghi non più abitati e di nuovi spazi, di paesaggi interiori che pensavamo smarriti e che, grazie a loro, risuonano.

Sono oggetti-orma, che accompagnano le nostre migrazioni esistenziali, esprimono quel sapere antropologico che è la loro essenza.

Manifestano una forza evocativa, offrono un’infinità di combinazioni e soluzioni.

Diventano portatori di senso, innescando un susseguirsi di rimandi, segnalibri della vita di ognuno, multicolore e complessa, instabile e sfaccettata.

L’amore di Vincenzo per questi oggetti ha come segno distintivo non solo la curiosità, ma la poesia e la bellezza che è molto vicina alla sensibilità creativa dell’infanzia: i bambini si impossessano delle cose trovate; ad esempio, nel segreto di una tasca, custodiscono preziosi tesori.

Invenzione: è quello che fa Vincenzo “impeterrito puer”, “maestro di meraviglie”, che agisce sulla fantasmagoria degli oggetti, trasforma la perdita di rilevanza degli scarti, di ciò che viene abbandonato, accoglie quanto viene occultato e messo ai margini. 

musei-del-se_copertinaE a proposito degli oggetti che parlano di noi, con i Musei del sé. Etnografia di giovani in camera (2020), durante alcuni anni, sono state investigate le camerette degli studenti universitari, divenuti etnografi dei loro compagni.

Come si legge nella presentazione della pubblicazione dedicata [2]: «Abbiamo presupposto che fosse proprio questo ruolo ambiguo di straniero interno, questo impegno a farsi ricercatore e interprete di contesti, vite e storie di altri giovani, un device cognitivo e relazionale capace di promuovere un sguardo intimo e al tempo stesso curioso e straniato. La nostra condizione di ricercatori dei ricercatori ci ha collocati sulla soglia (come del resto quella riservata agli adulti) una soglia critica dalla quale intravedere originali pratiche di uso degli spazi abitati, paesaggi densi di cose, mondi di vita quotidiana appaesati, oggetti incarnati in biografie e affetti, che vivendo con grande prossimità possono ogni tanto mutare di statuto. Diventano soggetti, interlocutori agenti nei dialoghi e nei soliloqui dentro la stanza. Parti organiche dello spazio mente, della mente locale del loro giovane proprietario».

«La mia camera è un cantiere continuamente aperto … museo dell’anima … gioia di vivere». (Arianna).
«Il bello di questa camera è che è molto stratificata, nel senso che ci sono cose di tutta la mia vita, di tutti i miei periodi» (Elena).
«Guardare i cd, mi mette sicurezza perché dico vedi Anna hai un passato …» (Anna).
«La mia camera è magica. Perché è sospesa nel tempo, in un’atmosfera fiabesca» (Chiara).
«Questo è il luogo che se lo comprendi davvero non vorresti lasciare mai … benvenuti nel mio piccolo mondo, fatto di gioie, dolori e un pizzico di follia che non guasta mai!!!» (Valentina).
«Quando mi chiudo in camera mi piace stare da sola, riesco a rilassarmi a pensare a molte cose, mi sento una persona diversa»  (Katia).
«[…] la prima cosa che sento è l’odore. Qui odora di me. È come entrare nella pancia della mamma» (Ilaria).
«Io direi che è come il mio piccolo rifugio, il mio angolo cottura» (Francesca).
«Percepisco la mia stanza come un’estensione del mio corpo. È praticamente un rifugio per chiudere gli occhi, rimanere a pensare …» (Lorenzo).
«La stanza è solo per me, ogni cosa che ci faccio non è per esibirmi ma solo per me»  (Ragazza).
«La mia stanza è “ciccina”, un misto fra bella, affettuosa, confortevole e vanitosa» (Ragazza). 

Bambole e giocattoli sono protagonisti indiscussi delle sue collezioni. L“installezione”, tenuta da Vincenzo per gli studenti e le studentesse della Scuola di Specializzazione in Beni DEA di Perugia nel 2022, ha avuto quale esito l’allestimento collettivo di una mostra di bamboline folcloristiche, composta da 4.000 bambole souvenir, raccolte negli anni da Vincenzo, ragionando sul tema delle identità etniche, collegate all’esperienza del viaggio.

Un sintetico inventario: nella loro collezione di plastica; che sorreggono oggetti da lavoro o strumenti musicali; stanno all’interno di una vecchia valigia, in gabbia o sottovetro; vivono il dramma della guerra; fanno riflettere sull’imbalsamazione.

«Un cumulo, un gioco di somma, un groviglio di cultura e identità».

Un’ultima dedica poetica. 

Oh fiume irrevocabile delle cose,
non si dirà
che solo ho amato ciò che salta, s’arrampica, sospira.
Non è vero
molte cose
mi hanno detto tutto.
Non solo m’hanno toccato
o le ha toccate la mia mano,
ma hanno accompagnato in modo tale la mia esistenza
che con me sono esistite
e sono state per me tanto esistenti
che hanno vissuto con me mezza vita
e moriranno con me mezza morte.
Pablo Neruda, Ode alle cose, 1954
 
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
[*] Ivan Borgna è l’autore di Il pensiero concreto di Vincenzo Padiglione; a Paolo Cavaglione  va attribuito  il testo Un collezionista estremista o un artista performer?; Silvia Mascheroni ha scritto Imperterrito puer, Maestro di meraviglie. 
Note 
[1] Stravolti. Maschere abitate e altri eccessi (Rocca Sinibalda, 2014); In bilico. Poetiche e politiche del collezionismo estremo (Museo Ettore Guatelli, Ozzano Taro, 018) Collezionare è sabotare. Etiche e pratiche del collezionismo estremo (Macro, Roma, 2019)
[2] V. Padiglione, S. Settimi (a cura di), Musei del sé. Etnografie di giovani in camera; Quaderni di antropologia museale, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2020.
Riferimenti bibliografici 
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Lévi-Strauss Claude, 2015, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano.
Padiglione Vincenzo, 2009, “Installazione etnografica: un genere di comunicazione visiva”, Antropologia museale, 23-24.
Padiglione Vincenzo, 2021 “Collezionisti / artisti. Poetiche e politiche dl collezionismo estremo”, in R. Perricone, a cura di, Etnografie ad Arte. Agency, mimesis, creatività e pratica degli artworks, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo.
Salmon Christian, 2007, Storytelling. La machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits, La Découverte, Paris.

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Ivan Bargna è professore associato di Antropologia estetica e di Antropologia dei media,  presidente del Corso di Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche all’Università di Milano Bicocca e direttore di AMA/Corso di Perfezionamento in Antropologia Museale e dell’Arte. E’ inoltre docente di Antropologia culturale all’Università Bocconi. E’ stato membro del comitato  di progettazione scientifica del MUDEC – Museo delle Culture di Milano. Svolge le  sue ricerche etnografiche nei Grassfields camerunesi di cui studia le produzioni artistiche, la cultura visuale e  alimentare.  È  curatore di mostre, tra cui – con Giovanna Parodi da Passano - L’Africa delle meraviglie. Arti africane nelle collezioni italiane, Palazzo Ducale e Castello d’Alberti, Genova, 2011) È autore di numerose pubblicazioni fra cui Arte africana (Milano 1998 , St. Léger Vauban 1998; New York e Londra, 2000; Madrid 2000) e Africa (Milano 2007, Berlino 2008, Los Angeles, 2009). Tra i suoi interessi di ricerca, il rapporto fra arte e antropologia sul terreno delle pratiche partecipative, con collaborazioni sul campo con artisti come Stefano Arienti, Maria Papadimitriou, Adrian Paci,  Emilio Fantin, Steve Piccolo, Paola Anziché, Leone Contini, Virginia Ryan.
Paolo Cavaglione, giornalista professionista in pensione. Genovese, esportato diciottenne a Milano ha iniziato il suo viaggio nella professione come inviato speciale in un mensile di nautica. Ha poi progettato, realizzato e diretto mensili e settimanali maschili e femminili. Sino alla realizzazione del suo sogno infantile: diventare direttore di Topolino e di tutti i giornali Disney. Per poi concludere la sua carriera come direttore generale di una media casa editrice di periodici.
Silvia Mascheroni, è ricercatrice nell’ambito della storia dell’arte contemporanea, dell’educazione al patrimonio culturale e della didattica museale. Conduce interventi formativi per responsabili e operatori dei Servizi educativi e dei musei; cura la progettazione di esperienze educative, partecipa a ricerche, a giornate di studio e convegni. È responsabile con Simona Bodo della progettazione e del coordinamento di “Patrimonio e Intercultura”, promosso da Fondazione ISMU, dedicato all’educazione al patrimonio in chiave interculturale (www.patrimonioeintercultura.ismu.org). Dall’anno accademico 2017-1018 è docente di “Educazione al patrimonio e didattica museale” presso la Scuola di Specializzazione in Beni storico-artistici dell’Università di Pisa. È co-fondatrice con Simona Bodo e Mariagrazia Panigada del Gruppo di lavoro “Patrimonio di Storie” (www.patrimoniodistorie.it).
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