di Davide Accardi
Nel film Matrix, di Lana e Lilly Wachowski, dopo che Neo ha accettato di ingerire la pillola rossa, Morpheus, di fronte al suo evidente stato di turbamento, gli chiede: «Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da un sogno così non ti dovessi più svegliare? Come potresti distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà?». La scena prosegue con la metamorfosi di Neo; o meglio, ciò che l’eletto scambia per una sua violenta metamorfosi è, in realtà, il suo risveglio da un sogno elettronicamente indotto che durava da tutta la vita. Le domande che Morpheus rivolge a Neo, per prepararlo alla scioccante verità, costituiscono una delle argomentazioni che Cartesio utilizza per sostenere l’atteggiamento gnoseologico del dubbio metodico nella faticosa ricerca di un primo barlume di certezza [1].
Una versione contemporanea del dubbio cartesiano (insinuato da Morpheus nella mente di Neo) ci viene fornita anche dal filosofo statunitense Hilary Putnam:
«Si immagini che un essere umano (potrete immaginare di essere voi stessi questo personaggio) sia stato sottoposto a una operazione da uno scienziato crudele. Il suo cervello (o il vostro) è stato distaccato dal resto del corpo e posto in una vasca piena di sostanze nutrienti che lo mantengono in vita. I terminali nervosi sono stati collegati a un computer super-scientifico che fa sì che la persona di cui quello è il cervello abbia l’illusione che tutto sia perfettamente normale. Gli sembrerà che vi siano persone, oggetti, il cielo e così via, ma, in realtà, tutto ciò che quella persona sente non è che il risultato degli impulsi elettronici trasmessi dal computer ai terminali nervosi. Il computer è così perfezionato che, se la persona cercherà di alzare una mano, gli impulsi trasmessi dal computer faranno sì che egli “veda” e “senta” la mano che si alza. Inoltre, cambiando il programma del computer, lo scienziato crudele potrà far sì che la vittima “provi” (anche come allucinazione) qualsiasi situazione o ambiente lo scienziato voglia fargli provare. Lo scienziato potrà anche cancellare il ricordo dell’operazione al cervello, cosicché la vittima crederà di aver sempre vissuto in questo ambiente» [2].
Ciò che questi esempi dimostrano è la naturale e atavica tendenza dell’uomo a non fidarsi di quello che viene dato per assunto. Un sentimento, questo, che se da un lato è fondativo della scienza stessa (la quale accetta per definitive le tesi fino a prova contraria) dall’altro corrobora tutta una schiera eterogenea di persone che a quei dati, scientificamente provati, non crede.
Tale fenomeno prende il nome di negazionismo, cioè quella corrente pseudostorica e pseudoscientifica del revisionismo che consiste in un atteggiamento storico-politico il quale, utilizzando a fini ideologici-politici modalità di negazione di fenomeni storici accertati, nega contro ogni evidenza il fatto storico stesso. Spesso i negazionisti non accettano tale etichetta e in taluni casi accusano la storiografia che essi stessi negano cercando di essere accreditati piuttosto come revisionisti [3]. La differenza tra i due termini consiste nel fatto che, mentre i revisionisti criticano alcuni assunti della storiografia attraverso una revisione documentale, attraverso cioè un metodo scientifico, i negazionisti non accettano certi fatti storici solo in base a delle opinioni, o attraverso fonti non attendibili.
Cercando di andare oltre certe definizioni, risulta interessante tentare di capire quale sia la natura del negazionismo; se sia cioè un fenomeno esclusivamente culturale o meno. Come già detto, il negazionismo è una variazione a-scientifica (perché priva di alcuni dei requisiti fondamentali della ricerca scientifica, come lo studio delle fonti) del revisionismo. Nonostante spesso in passato esso si sia manifestato su temi storico-politici, come ad esempio la Shoah, il negazionismo è di per sé avverso a qualsiasi altro assunto scientifico, quale che sia la branca della scienza in questione.
È dunque da considerare come negazionista anche la posizione di chi, in questi mesi, ha messo in discussione l’esistenza del covid-19. Cosa accomuna, quindi, posizioni così apparentemente lontane, eppure fortemente collegate? È utile fare una distinzione all’interno dello stesso fenomeno negazionista. Ne esistono infatti di due livelli: un negazionismo organizzato, ossia quel negazionismo ideologicamente orientato e politicamente consapevole che si manifesta attraverso vere e proprie associazioni, ed un negazionismo spontaneo, di cui talvolta si occupano le cronache giornalistiche. Quest’ ultimo è costituito da gesti e atteggiamenti altrettanto ideologizzati, ma comunque orecchiati e tendenti spesso ad attirare l’opinione pubblica [4].
Fatta questa doverosa premessa, cerchiamo di capire quel che fino ad ora è stato solo accennato: perché il negazionismo, in quanto fenomeno ideologicamente orientato, è un fenomeno politico? Prendiamo, come esempio valido per tutte le posizioni sostenute dal negazionismo, quello certamente più famoso, cioè quello legato alla Shoah. Verrebbe da dire che, tale negazionismo, è un fenomeno politico perché sostenuto da uno o più movimenti politici, ideologicamente ascrivibili all’estrema destra. Questa osservazione rimanda ad una domanda: perché il negazionismo ha trovato udienza in certi settori e non altrove?
Come vedremo più avanti, il negazionismo fonda la propria autorità sull’idea liberale contemporanea di pluralismo delle idee, declinato in una domanda di riconoscimento di pari legittimità a tutte le idee compresa, ovviamente, la propria. Pur essendo pertanto un fenomeno moderno, come tutte le posizioni derivanti dalle Grandi Narrazioni ideologiche, ha un rapporto stretto e conflittuale con il passato che nega e, di conseguenza, con lo stesso pluralismo contemporaneo dal quale è nato.
Il negazionismo è sempre stato convinto che dal 1945 l’Europa, e più in generale l’Occidente, si regga su una grande menzogna, la Shoah: essa è stata un mito, il mito dell’Olocausto, creato e diffuso dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, con la complicità dell’ebraismo mondiale [5]. E se democrazia e pluralismo attuali si reggono su una grande menzogna mitologizzata, ciò implica che anche i sistemi politici che a questi princìpi si richiamano nel loro funzionamento costituiscono una menzogna.
Insomma, negando la Shoah, si negano le basi stesse della nostra democrazia esprimendo, di conseguenza, posizioni anti-democratiche, posizioni cioè politiche. Ecco perché il negazionismo è sempre un fenomeno politico. Tanto più che esiste un filone negazionista di sinistra che ha sviluppato una propria lettura marxista della Shoah: «Hitler non voleva uccidere gli ebrei, voleva espellerli dallo spazio tedesco. […] Non disponendo di un territorio in cui mettere i suoi ebrei indesiderabili, […] la Germania fu dunque condotta ad organizzare riserve di ebrei, concentrandoli in ghetti e campi. Perché tanti di loro vi sono morti? Perché perirono di fame, di cattivi trattamenti e anche perché li si uccise. Ma le prove di un massacro deliberato sono più che dubbie» [6]. Una posizione che sostiene che la Shoah è stato un crimine prodotto dal sistema concentrazionario e dalle condizioni in cui si svolse la guerra, e non una scelta provocata dalla decisione nazista di procedere allo sterminio dell’ebraismo.
Il negazionismo marxista si è segnalato per il suo tentativo di leggere il sistema concentrazionario non come una esplicita opera del regime nazista, quanto piuttosto come una proiezione del sistema capitalistico, ovvero come un universo regolato dalle stesse regole che presiedono il sistema di produzione capitalistico. La definizione di negazionismo di sinistra trova giustificazione, quindi, nel tentativo di impostare un’analisi marxista e classista dell’universo concentrazionario nazista e dei fini economici di quest’ultimo.
Il negazionismo, come anticipato, non è solo un fenomeno politico ma anche, proprio perché politico, contemporaneo. Dalla metà degli anni ‘60 del ‘900 lo sviluppo e la partecipazione collettiva al processo democratico nei Paesi europei non potevano limitarsi ai dati sull’affluenza durante le elezioni: essi si aggiravano sempre intorno all’85% con punte del 91% e mai sotto il 72,5% in ogni democrazia occidentale. Questo parametro, quindi, non poteva ormai più dirci molto del reale funzionamento, dello stato di salute dello Stato democratico: era necessario osservare, secondo Bobbio, quanto fossero democratici quei processi decisionali presenti nel mondo del lavoro e dell’associazionismo, dalle fabbriche alla riunione di condominio. Era necessario per esaminare lo stato di salute della democrazia, quindi, poter verificare che quella che Bobbio chiama democrazia politica si fosse trasformata in democrazia sociale, ovvero che i princìpi democratici di uguaglianza e di partecipazione, si fossero diffusi anche nella nostra vita non politica [7].
Questa affermazione, ancora valida, trova conferma nel ruolo che i media hanno nella diffusione del negazionismo. La democrazia nata dalle ceneri della Shoah è una società pluralista, fondata sulla diversità di opinione. Abbiamo visto come questo pluralismo sia stato interpretato come pari legittimità di opinione dai negazionisti; uno slittamento di significato che ha permesso al negazionismo di ottenere quel clamore mediatico del quale ha bisogno per affermarsi come verità, avendo consapevolezza che gran parte della memoria passa attraverso il clamore suscitato nell’universo mediatico, dal momento che era l’eccezionalità della notizia a legittimare di per sé la notizia stessa. Il negazionismo ha, insomma, capito di non dover più produrre quella pubblicistica autoconsolatoria e denigratoria destinata a sparuti estremisti di destra ma occorre, invece, aprirsi uno spazio sempre più ampio all’interno dell’universo massmediale per mezzo della provocazione o dello scalpore.
È infatti noto che la fonte principale attraverso la quale si sono diffuse e continuano a diffondersi notizie negazioniste sia il mondo di internet, comprendente blog, riviste pseudo-scientifiche e social network. Uno di quegli spazi della nostra vita, direbbe Bobbio, in cui va misurato l’effettivo funzionamento dell’apparato democratico. L’approdo nel mondo mediatico del negazionismo ha inevitabilmente politicizzato i social media stessi, polarizzandone gli utenti e favorendo la trasformazione di quel negazionismo spontaneo in negazionismo organizzato. Nel 2019, ad esempio, si è tenuto a Palermo il primo congresso nazionale dei terrapiattisti, ovvero dei negazionisti del modello sferico della Terra.
In questi mesi stiamo assistendo a numerose posizioni, paradossalmente spesso anche di medici e infermieri, volte a negare l’esistenza del Covid-19 e il mezzo attraverso il quale tali idee vengono diffuse e fanno proseliti è certamente quello dei social media. Quello spazio sociale, per usare ancora le parole di Bobbio, attraverso il quale si dovrebbe misurare il grado di democratizzazione della società, si sta rivelando uno strumento attraverso il quale alcuni dei princìpi della democrazia stessa, come il pluralismo, vengono osteggiati, oltraggiati e messi in discussione da quel negazionismo che appare, oggi più che mai, un fenomeno politico e, quindi, contemporaneo.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Riferimenti bibliografici
[1] René Descartes, Opere filosofiche, a cura di Eugenio Garin, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1986.
[2] Hilary Putnam, Ragione, verità e storia, Arnoldo Mondadori, Milano, 1989:12
[3] Giovanna Canzano, Revisionismo o negazionismo? Intervista a Robert Faurisson, Ariannaeditrice.it, 3 marzo 2008.
[4] Francesco Germinario, Il negazionismo. Un fenomeno contemporaneo, Carocci Roma 2015
[5] Ibidem
[6] Aa.Vv., Dallo sfruttamento nei lager allo sfruttamento dei lager. Una messa a punto marxista sulla questione del revisionismo storico (1979), trad. it. di C. Saletta, G. Loforno, Graphos, Genova 1994
[7] Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Torino, Einaudi, 1984.
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Davide Accardi, ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università di Palermo, discutendo una tesi dal titolo Lo stato d’eccezione. Ha, in seguito, conseguito la laurea specialistica in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università di Palermo discutendo una tesi dal titolo L’identità nazionale nei territori di confine. Scrive e si interessa di cinema, in particolare sulla relazione tra spazi e vuoti in Antonioni e sull’influenza della psicanalisi in Kaufman.
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