di Stefano Montes
L’ambito delle storie di vita è talmente vasto e complesso che, anche una breve riflessione sull’argomento, sovente paralizza lo studioso. Mi conforta tuttavia il fatto che la paralisi, almeno quella momentanea ed euforica, ha affinità con la trasformazione prodotta dall’incanto. E le storie di vita m’incantano e – trasformandomi – mi conducono immancabilmente verso l’Altro: lo statico ‘posizionamento’ del Sé viene, così, smussato dal dinamismo insito nel ‘passaggio’ all’Altro. Questo orientamento verso l’Altro, nonostante il complesso e fluido magma di aspetti presenti nel campo delle storie di vita, richiama alla mia mente almeno due domande iniziali. Mi libero subito – catarticamente – della prima perché penso sia la più manifestamente ‘politica’, quasi ovvia, continuamente riproposta in antropologia, forse impossibile da evacuare una volta per tutte, ma estremamente importante per coloro i quali si interessano all’alterità vicina e lontana.
Chi ha l’autorità per parlare degli altri? L’antropologo (dall’esterno) o il nativo stesso (dall’interno)? Un quesito simile si pone anche per lo storico già situato all’interno della società indagata: come fare una ‘storia dal basso’ – la storia, cioè, di individui comuni con nessuna pretesa a una biografia ufficiale – senza effettivamente tradire la loro voce o attribuire loro tratti e punti di vista spesso appartenenti allo spazio semantico dello studioso? In ambedue casi, la storia e l’antropologia, esiste un’asimmetria di fondo – forse ineliminabile in toto – alla quale le storie di vita cercano in qualche modo di porvi rimedio. Le frontiere che separano l’‘interno’ dall’‘esterno’ e l’‘alto’ dal ‘basso’ non sono infatti impermeabili se sono esse stesse prese in conto nella ricerca e se lo strumento di analisi è adeguato a questo scopo. Credo che la storia di vita, come strumento di analisi culturale, nonché come oggetto di studio in sé, sia una risposta efficace alle asimmetrie e agli automatismi che portano il singolo individuo all’auto-centramento.
Una storia di vita, con le sue forme di continuità narrative e le sue forme di discontinuità temporali, tende già ad assicurare la forza polivalente della parola degli Altri; se l’antropologo o lo storico le considerano inoltre un mezzo per riflettere sulla permeabilità delle frontiere (per esempio, esterno/interno, alto/basso), allora la loro efficacia metodologica e epistemologica è amplificata. La storia di vita ha il pregio di sfumare le gerarchie e le asimmetrie e di lasciare parlare gli Altri: i nativi, i poveri, i diseredati, tutti coloro i quali hanno il diritto di esprimersi in prima persona, ma che spesso non ne hanno avuto i mezzi o l’opportunità.
Inoltre, se è vero che una storia di vita presenta a volte più consistentemente il punto di vista di un individuo (colui il quale parla o del quale si parla), è ancora più vero che essa è permeata dal punto di vista degli Altri, dalla parola degli Altri, che si trasmette nel dialogismo intrinseco della narrazione che la veicola: per quanto monolitica e autocentrata su un solo punto di vista, una narrazione contiene inevitabilmente il montaggio dell’intreccio i cui rimandi ad Altro (dal narratore all’autore, dal realismo interno al periodo storico, dal testo al genere, etc.) non possono essere del tutto evacuati.
La storia di vita è dunque traccia incontrovertibile di un’alterità salutare e ineludibile. Anche se raccolta da un antropologo (o da una persona diversa da quella che la ha effettivamente vissuta), nella storia di vita rimane comunque la traccia della parola di chi la ha vissuta direttamente. Se parlo di traccia, è proprio perché penso, alla maniera di alcuni linguisti, che l’enunciazione in vivo non si trasmette tale e quale negli enunciati che ne risultano, ma si deposita comunque secondo percorsi che contengono, in qualche modo, il segno del passaggio, incancellabile in toto, di un posizionamento. Nonostante l’enunciazione sia in sé volatile, lascia fortunatamente il segno della sua presenza nella narrazione interna al testo (sotto forma di enunciazione enunciata) e all’esterno del testo (sotto forma di rimando ai dispositivi che l’hanno preceduta e resa possibile).
Allora, piuttosto che affidarci unicamente all’autorità di un’origine spesso incerta, le storie di vita ci indirizzano verso la griglia di relazioni che si crea nell’andirivieni interno e esterno al testo che le mette in circolo: all’interno del testo, grazie alla costruzione dell’intreccio narrativo e discorsivo; all’esterno del testo, grazie ai rimandi da un testo all’altro, da un soggetto all’altro, da una cultura all’altra. Nelle storie di vita, all’autorità dell’origine – di qualsiasi tipo essa sia – tende a sostituirsi la dialettica dell’intreccio e del rimando. Per quanto riguarda il ricercatore – vale tuttavia anche per l’uomo comune – la storia di vita aiuta a mettere meglio a fuoco lo sguardo da vicino e da lontano sul suo ‘posizionamento’ e ‘passaggio’.
Che fare, quindi, operativamente, a partire da questi presupposti, da questo elogio sintetico e incantato delle storie di vita? Il primo passo verso la migliore comprensione dei meccanismi che definiscono l’individuo e la collettività credo sia fondato proprio sull’analisi dei modi molteplici secondo cui l’enunciazione in vivo si trasforma in un enunciato che mette in scena i simulacri dell’enunciazione (e, viceversa, nel recuperare l’enunciazione in vivo a partire dai simulacri di enunciazione enunciata nel testo). Il secondo passo consiste nel trasformare l’andirivieni apparentemente sregolato e implicito che si stabilisce da una storia di vita all’altra (da un soggetto all’altro, da una cultura all’altra) in un ordine di relazioni esplicite che deve essere esso stesso sottomesso a uno sguardo indagatore che si sofferma sul metalinguaggio utilizzato dal teorico per cogliere la griglia di relazioni.
Altrimenti detto, le storie di vita sono – dovrebbero diventare sempre più, da un punto di vista teorico – un mezzo per lasciare parlare gli Altri e, al contempo, per focalizzare l’attenzione sui dispositivi che concorrono alla manifestazione della parola altrui. Se dovessi essere più radicale, coniugando metodo strutturalista e finalità postmodernista, affermerei che attraverso le storie di vita parlano gli Altri e le strutture di relazioni che consentono loro la parola. Ciò necessita un chiarimento riguardante il mio posizionamento e passaggio.
Come ho già affermato, dare voce ai diseredati, ai poveri, ai nativi, nonché a tutti coloro i quali sono parte integrante del vivere ordinario e straordinario, è un progetto centrale per le scienze sociali contemporanee. Se questo è indubbiamente vero, non basta tuttavia, a mio avviso, accontentarsi dello scopo esplicito di questo progetto, avviato già da lunga data sia da storici che da sociologi e antropologi, che consiste nel dare voce a un altro individuo. È necessario inoltre focalizzare l’attenzione sulle forme di composizione delle storie di vita e sui linguaggi che le attraversano e le traducono.
Ma c’è di più. (E lo studioso dovrebbe cercare di mettere a fuoco su questa ‘eccedenza’ che si configura al di là di una singola disciplina.) Nelle storie di vita si accumulano campi di forze composite che è necessario indagare in una prospettiva interdisciplinare. La seconda domanda che credo sia importante porsi allora riguarda proprio la pertinenza della disciplina atta a esplorare questo oggetto della conoscenza. A chi appartiene lo studio delle storie di vita? Risponderei a tutti indistintamente: a tutti coloro i quali non si fanno scrupolo di passare da una disciplina all’altra e accettano di abbandonare i rigidi principi di controllo di un solo regime discorsivo. Contro il posizionamento statico e la chiusura ai dinamismi della cultura, l’interdisciplinarità diventa, a mio parere, un passaggio quasi obbligato per coloro i quali si occupano di storie di vita, e non solo quindi per le caratteristiche intrinseche da esse possedute. Infatti, le storie di vita danno delle informazioni sull’identità dell’individuo, sulle sue forme di fabbricazione, sulle modalità secondo cui l’esperienza individuale viene modellata dalla convivenza con gli Altri e dalle norme culturali, ma anche sul modo in cui alcune categorie più generali si costruiscono e si sedimentano in alcuni campi del sapere piuttosto che in altri. Uno sguardo interdisciplinare consente di meglio cogliere questa complessità e la storia di vita è uno strumento adeguato per affrontarla.
Una storia di vita è un chiaro esempio dell’esistenza di un dialogismo della narrazione – quindi dei diversi punti di vista – ma anche, più in generale, di un dialogismo benefico della cultura che lo studioso dovrebbe mettere in risalto: al suo interno, così come al suo esterno, dialogano oralità e scrittura, i testi e i linguaggi, il narratore e il raccoglitore della storia, il nativo e i suoi Altri, la costruzione del sé e le norme culturali, un testo di partenza (un’origine orale) e un testo di arrivo (una trasposizione scritta), le forme di temporalità e di spazialità.
In altri termini, la ricerca incentrata sulle storie di vita è fondamentale per cercare di restituire la parola all’Altro, a una ‘origine’ spesso bistrattata, o addirittura rimossa, ma anche per mettere l’accento sulle forme dialogiche che costituiscono il dinamismo dei linguaggi e della cultura. La spinta alla ricerca dell’‘originalità’ e dell’‘autenticità’ della parola dell’altro non deve dunque venire meno, ma deve arricchirsi del presupposto che qualsiasi forma di comunicazione individuale, in un modo o in un altro, è mediata dal rimando ad Altro. Non si tratta quindi di fare a meno della parola riportata (per cercare di ritrovare a tutti i costi una pura parola di partenza) o di sminuire la portata e implicazione della voce narrante di un altro individuo (a volte, è l’antropologo che raccoglie la storia e la traspone, modificandola secondo ‘necessità scientifiche’), ma di problematizzare la questione e di riflettere sui modi in cui le diverse forme di rimando ad Altro si mettono in scena per rappresentare se stessi e gli Altri (comprese le scienze sociali e i relativi metalinguaggi). I concetti stessi di originalità e di autenticità vanni riformulati sulla base di queste premesse.
Alle questioni dell’autorità e dell’appartenenza disciplinare se ne affianca, infine, una terza che ‘sposta’ le prime due: la pregnanza della vita stessa. Ai miei occhi una storia di vita non è solo uno strumento di indagine di competenza della sociologia, dell’antropologia o della storia (o di qualsiasi altra disciplina), ma è un vero e proprio quesito esistenziale in sé riguardante la vita di ogni essere umano e le stesse modalità atte convenzionalmente a raccontarla. Basti pensare al fatto che (1) una vita acquisisce senso grazie alla narrazione che se ne fa e che (2) la narrazione di una vita non può avere luogo se non seguendo alcune modalità che convenzionalmente la definiscono come tale all’interno di una società. Indipendentemente dalla nostra appartenenza sociale o geografica, tutti noi, infatti, viviamo e raccontiamo continuamente la nostra vita, ne rivediamo alcuni assunti, reimpostiamo alcuni obiettivi, (ri)programmiamo le nostre necessità sulla base degli ostacoli che incontriamo e delle interazioni in corso con gli altri individui. Potremmo dire, senza esagerare, che uno degli aspetti che ci impegna di più, come essere umani, è rappresentato dalle continue narrazioni della nostra vita. Non smettiamo di raccontare noi stessi e gli Altri.
Naturalmente, ciò non significa che sistematicamente e periodicamente ci mettiamo a raccontare la nostra vita per intero, dalla nascita al presente. Più semplicemente, anche se più radicalmente, la nostra giornata è fatta di ‘resoconti’ che facciamo a noi stessi, ai nostri amici o parenti riguardanti ciò che ci è accaduto di banale o eccezionale, gli avvenimenti che ci hanno colpito e impegnato direttamente e quelli che non abbiamo potuto vivere in prima persona. Una storia di vita si costruisce di giorno in giorno, è frammentaria e discontinua; siamo noi, nella nostra ricostruzione, che le diamo una parvenza di continuità secondo linee di coerenza che procedono anche dal contesto di interazione con gli altri. Tessere una storia di vita significa accordarle una coerenza – spesso a posteriori – dipendente da ciò che ci viene chiesto dal nostro prossimo e dal modo in cui noi intendiamo ‘offrirci’ agli Altri: una presentazione per un impiego di lavoro, una breve notizia bio-bibliografica per un volume collettaneo, una dichiarazione d’amore, una testimonianza di un sopravvissuto, un’autobiografia di campo, etc. sono altrettanto sub-generi testuali che focalizzano l’attenzione su campi semantici specifici e su forme di continuità/discontinuità particolari. E non è tutto. La narrazione subisce il vincolo derivante dal genere testuale adottato ma essa è anche modellizzata dal tipo di comunicazione interpersonale preso in conto. Se qualcuno racconta, qualcun altro ascolta: se un individuo racconta un episodio della giornata, un altro individuo si presta all’ascolto di questa narrazione in un contesto specifico, secondo un’intenzione alla ricezione ben precisa, valutandone forse gli aspetti metalinguistici e fàtici.
In questa prospettiva, la narrazione, per quanto individuale, è sempre comunicazione sociale, fondata su un modello culturale, inevitabilmente grammaticalizzato o testualizzato. Non esiste altro mezzo: la cultura, per potere essere comunicata, deve necessariamente avvalersi di segni il cui significato si conosce (e si trasmette) rifacendosi alla regola o seguendo l’esempio del singolo individuo comunque inserito in un gruppo. Anche l’individuo più solo e marginalizzato racconta, se non ad altri a se stesso, ciò che gli è accaduto.
In definitiva, l’uomo è ‘un essere affabulatore che traduce’ continuamente gli elementi dell’esperienza, incoglibile in sé e nel suo continuo svolgersi, in testi diversi che consentono la sua comunicazione e fissazione. Non solo esperienze e narrazioni vengono tradotte da un testo all’altro, ma anche da un tipo di codice (orale, scritto, registrazione, film) all’altro. La traduzione ha quindi un peso centrale nella storia di vita. Anche se ciò può sembrare strano di primo acchito, la storia di vita è il risultato di continue e ininterrotte traduzioni. Si è detto spesso che la storia di vita è narrazione dell’uomo nel mondo. Mi è sembrato utile ribadirlo e molti sarebbero d’accordo con me. Si è trascurato però il fatto che la storia di vita è traduzione di mondi reali e immaginari.
Senza saperlo, ognuno di noi si serve di segni estremamente complessi, s’improvvisa traduttore da un codice all’altro (da un testo all’altro, da un discorso all’altro, da una disciplina all’altra), si definisce antropologicamente grazie a queste continue traduzioni e contribuisce a fabbricare uno schema canonico della narratività, socialmente accettato, all’interno del quale si situa il suo divenire. Persino l’esperienza spicciola, se non tradotta in testi e discorsi, rimarrebbe evanescente nel suo concreto divenire.
Sono personalmente affascinato dallo strato implicitamente semiotico di ogni storia di vita: le modalità secondo cui un uomo qualsiasi dà senso alla sua vita, procede alla sua comunicazione e narrazione, concentra o espande flussi temporali, si ancora su un tipo di spazio concreto o simbolico. Tutti questi sono meccanismi molto complessi che noi ‘operiamo’ quotidianamente, spesso inconsapevolmente. Tuttavia, se non potessimo tradurre, non potremmo costruire una storia di vita, non potremmo darle senso. Tradurre consente di bloccare i processi continui e inarrestabili e di trasporli in testo. Se, dunque, la vita non può fare a meno di narrazioni, la vita non può neanche rinunciare alle traduzioni. E questo bisogno deve essere il cardine della riflessione teorica sulle storie di vita.
Il connubio tra la narrazione-traduzione e la vita rende le storie di vita particolarmente interessanti perché consente di riflettere quasi quotidianamente, per livelli diversi e senza necessariamente ricorrere a teorizzazioni colte, alla classica opposizione tra l’essere e il divenire, tra la strutturazione-fissazione di ciò che noi siamo e i processi che ci attraversano e ci modificano. Questa è la ragione per cui, come strumento e oggetto di studio, credo che le storie di vita debbano essere considerate un ‘campo di applicazione’ di tutte quelle discipline che possono contribuire alla comprensione dell’essere umano e del suo esserci. Gli strumenti e le strategie teoriche di recupero di una vita debbono essere interdisciplinari proprio per mettere alla prova gli impianti teorici di ciascuna disciplina e per consentire una maggior penetrazione dell’epoca in cui viviamo e una più grande comprensione delle similitudini e differenze che circoscrivono le diverse forme di umanità. Tutte le discipline sono dunque chiamate in causa e possono concorrere alla definizione della vita di un uomo (che è comunque sempre un uomo tra altri uomini). Tanto più che la storia di vita, oltre a tagliare trasversalmente ambiti diversi (quali la religione, la politica, l’economia, la parentela, etc.), mette in scena questi ambiti in quanto linguaggi di una cultura la cui rappresentazione racchiude il rapporto che s’instaura tra i linguaggi stessi e il modo di utilizzarli e di tradurli di un attore. La trasversalità si fonda sul principio di traducibilità delle diverse componenti della cultura.
La storia di vita può essere traccia della trasversalità: dei linguaggi che si attraversano oltre che, più concretamente, della lotta trasversale di un uomo contro un’egemonia o un’autorità apparentemente indiscussa. Ritengo necessario insistere, nella ricerca, su questo punto: da una parte, il dovere dell’impegno dello studioso contro il potere e l’imposizione dei pochi; dall’altra, il rispetto dei diritti del singolo. Ciò detto, anzi forse proprio per questo, è necessario non tralasciare il legame tra ‘le pieghe della narrazione’ e ‘l’organizzazione della cultura’. Una storia di vita è un modo per raccontare se stessi e gli altri facendo riferimento al proprio passato e al rapporto, manifesto e latente, che questo intrattiene con il presente e il futuro. In questa definizione essenziale sono chiamati direttamente in causa la temporalità, le istanze d’azioni elementari messe in opera da una cultura, il rapporto tra un individuo e i suoi altri, le modalità del racconto, la funzione del ricordo. Non mi è possibile qui prendere in considerazione tutti questi tratti nella loro ampiezza. Vorrei però mettere l’accento almeno su una questione centrale: il rapporto tra forme temporali e istanze d’azioni.
In una storia di vita, si mettono in gioco i modi in cui le forme temporali e le istanze d’azione si dispongono in una sequenza lineare. Una storia qualsiasi, dalla più semplice alla più complessa, si compone di una sequenza di avvenimenti il cui ordine dà senso alla storia stessa attraverso una varietà di mancanze e di risoluzioni, di equilibri e disequilibri. La malattia e la salute, giusto per dare un esempio, sono due stati che si inquadrano in uno stato di disequilibrio e di equilibrio. E ancora: un dissapore con un amico corrisponde a un disequilibrio narrativo e la riconciliazione equivale a un equilibrio narrativo. L’ordinario e lo straordinario sono ritagliati dall’ordine lineare degli avvenimenti, anche se la linearità si dà per ‘progressioni’ e ‘ritorni’ di eventi positivi e negativi. Inoltre, la linea di vita di un individuo si incontra inevitabilmente con quella di un altro individuo. Una sequenza lineare non può dunque esistere in sé: si collega ad altre sequenze lineari che formano insieme delle vere e proprio ‘reti di vita’ che si intersecano l’un l’altra. Indagare le storie di vita è quindi utile per soffermarsi sul singolo individuo, ma anche per ritrovare strutture più generali della cultura.
Un individuo (un attore) segue infatti alcune istanze d’azione (i dispositivi attanziali) che costituiscono gli schemi canonici della narratività messi in opera dalla cultura: una storia di vita non è, quindi, soltanto una messa in serie lineare (i sintagmi) delle svolte che ha preso una vita individuale, ma anche un vero e proprio dispiegamento sintagmatico di proprietà culturali (i paradigmi). I paradigmi della cultura spezzano la continuità del tempo e l’inarrestabilità del divenire attraverso la riproposizione del simile e equivalente. Ciò è dovuto al fatto che il comportamento individuale non si svolge al di fuori dei modelli culturali: l’individuo è libero di scegliere tra i diversi comportamenti che la cultura gli offre o può trasgredire le regole culturali creando in questo caso degli anti-comportamenti che divengono elementi della cultura. La trasgressione dei comportamenti culturali non deve però essere intesa come un atto trascendentale (o esclusivamente creativo), ma come un effetto del capovolgimento delle regole: in altri termini, la regola prefigura, per certi aspetti, l’anti-regola (e vice versa). Gli insiemi di regole e di anti-regole costituiscono dei modelli di riferimento per l’individuo che interpreta il ruolo dell’appartenenza (riconosce ciò che è proprio) e del disconoscimento (assegna ciò che è altrui). Questi ruoli non sono fissi, ma si trasformano nel tempo e nelle culture.
Una storia di vita è un caso particolarmente felice da studiare dal punto di vista delle dinamiche di scambio dei ruoli di ‘proprio’ e ‘altrui’ all’interno di una cultura e in culture differenti. I processi di inversione di ciò che viene percepito come ‘proprio’ e ‘altrui’ sono centrali nella costituzione-narrazione-analisi di una storia di vita poiché essa è il prodotto di una serie di attraversamenti di linguaggi. Non si tratta tuttavia di dissolvere il progetto antropologico in una deriva illimitata di attraversamenti soggettivi del senso (interpretazioni, transferts, intertesti, etc.), ma di sostenerlo nel principio dialogico della cultura. In questo senso, due punti si rivelano importanti: (1) il dialogismo di cui parlo non può certo fare a meno dei testi e (2) va al di là della sola conversazione tra due individui. La conversazione tra due individui non è che un aspetto del dialogismo della cultura il cui comune sostrato consente lo scambio e l’interazione interpersonali.
All’interno della cultura, tutti i diversi livelli che la compongono dialogano tra loro. Si ha dialogo laddove una entità rinvia a un’altra, senza dissolversi nell’altra entità, creando al contrario una griglia comune risultante da similitudini e differenze tra le entità stesse e modificando, almeno in parte, come effetto del dialogo, le entità di partenza. Il dialogo richiede una traduzione dei linguaggi che non rimangono isolati nel loro spazio culturale ma si modificano e si arricchiscono vicendevolmente. I linguaggi si traducono e si testualizzano. Venendo in contatto, i diversi linguaggi della cultura creano delle griglie, risultanti dal differenziale reciproco che li contraddistingue; essi, al contempo, si modificano, si arricchiscono, producono altri testi.
La cultura è formata da lingue diverse il cui valore differenziale non si costituisce in sé, in isolamento, ma dipende dal sistema globale della semiosfera. Mi piace quindi pensare una storia di vita come un punto di vista (su se stessi, gli altri e il mondo) esemplificativo del meccanismo della semiosfera in cui i vari linguaggi circolano e si definiscono l’un l’altro ritagliando spazi semantici più omogenei e meno omogenei, frontiere più fluide e meno fluide. Nella semiosfera circolano ugualmente i linguaggi delle scienze sociali, specializzandosi in metalinguaggi più coerenti e interdefiniti, ma pur sempre fondati sulla selezione di categorie e sul loro assemblaggio in paradigmi. La storia di vita dell’antropologo e le sue autobiografie di campo non sono quindi che un caso più specifico del genere più vasto delle storie di vita. È certo però che questo caso più specifico è ancora trascurato in semiotica e in antropologia. Penso invece che lo studio delle dinamiche culturali si dovrebbe continuare, in maniera più approfondita, comparando i testi in cui gli etno-antropologi si limitano alle ‘considerazioni scientifiche’ (le monografie più classiche) e quelli in cui manifestano il loro ‘esserci’ (le lettere di campo e i diari).
Si pone quindi la questione dei rapporti che s’instaurano tra le teorie e le convenzioni di scrittura delle pratiche etnografiche, tra i processi di elaborazione cognitiva dell’individuo e le logiche discorsive che discipline diverse quali l’antropologia e la sociologia (o le altre scienze sociali) impongono ad alcuni autori. Indubbiamente, una strada sempre valida consiste nel comparare idee e punti di vista diversi. Riflettere sulla molteplicità dei punti di vista, senza affezionarsi all’‘essenza’ di uno solo di essi, è un ottimo allenamento alla vita in un mondo sempre più globalizzato, una preparazione all’accettazione dell’alterità nostra e degli altri. Una strada meno praticata, ma altrettanto fertile, consiste invece nell’applicarsi ai testi (ivi compresa la loro fase di produzione e di ricezione) al fine di mostrare la loro pregnanza discorsiva e mettere in evidenza le modalità di costruzione teorica messe in opera dai singoli autori nel loro fare. Non si tratta dunque di sostituire un ‘testualismo’ dilagante a un ‘situazionismo’ di principio, ma di lasciare dialogare le forme di manifestazione dell’‘enunciazione (e interazione) enunciata’ con le forme degli ‘enunciati enunciati’ al fine di risalire alla produzione e alla ricezione di enunciazioni. I processi di elaborazione individuale e le logiche discorsive delle singole discipline si depositano, lasciano tracce nel passaggio dalla langue alla parole e nelle consecutive riattualizzazioni e traduzioni. Di conseguenza, piuttosto che ‘fingere’ una separazione o oltranza tra contesti (o situazioni) e testi (o narrazioni), si dovrebbe lavorare sul modo in cui (1) i testi ricreano al loro interno i contesti e sul modo in cui (2) i contesti prevedono interazioni (non ristrette a qualche scambio minimale) fondate su moduli narrativi.
In seguito a quanto detto, è importante qui sottolineare un punto. Spostare l’accento sul ruolo che la storia di vita ha nella semiosfera non significa trascurare il ruolo attivo dell’antropologo, del sociologo o dello storico. Significa, più semplicemente, produrre uno spostamento sui linguaggi di cui si servono gli scienziati sociali, sui linguaggi che li attraversano e li rendono atti a parlare all’interno di una cultura i cui comportamenti sono regolati da norme e princìpi. Un antropologo o uno storico (o qualsiasi altro scienziato sociale) ha un metalinguaggio che utilizza per parlare del suo oggetto di conoscenza, dei suoi altri (e, a volte, di se stesso), i quali inevitabilmente perdono alcuni tratti che li rendono soggetti in carne e ossa per diventare una trascrizione filmica, narrativa, gestuale. Nel passaggio dal soggetto in carne e ossa (l’antropologo, i suoi altri) alla sua trascrizione, si effettua una traduzione di linguaggi (dall’enunciazione all’enunciato, dal campo al testo, da un tipo di codificazione orale a quella scritta o filmica) che include il soggetto osservatore e il soggetto osservato nell’ambito della semiosfera. Il soggetto, per quanto inventivo e trasgressivo, è situato all’interno dei suoi linguaggi, non può farne a meno. I testi, in quanto cristallizzazioni di un sapere dato, danno l’impressione che il soggetto sia posto all’esterno del prodotto del suo fare e dire; in effetti, i testi sono il risultato finale di un lungo processo di testualizzazione che prende di mira (coinvolge, manifesta, occulta) anche il soggetto del fare e del dire.
Non bisogna dimenticare che, in una prospettiva più moderna, si è pensato in antropologia di spostare l’asse dal punto di vista dell’antropologo al dialogo tra l’antropologo e l’informatore o, comunque, al principio che l’Altro, chiunque esso sia, abbia il diritto alla parola. Una storia di vita, in effetti, dovrebbe essere il tentativo di restituire la parola integrale dell’Altro tenendo conto del fatto che la ‘restituzione’ e la ‘parola dell’Altro’ sono prodotti in un contesto in cui gli Altri sono onnipresenti. L’Altro è sempre gli Altri, la parola di un singolo individuo è sempre, in qualche modo, la risposta al quesito di un altro individuo. Credo, quindi, che anche lo spostamento da un punto di vista monologico a un punto di vista più empiricamente dialogico debba essere integrato da una prospettiva più semiotica secondo cui l’antropologo (o il sociologo, lo storico, etc.) e l’informatore sono ‘voci’ che circolano in una semiosfera compenetrata di linguaggi diversi. Non intendo dire che un antropologo e un informatore non sono persone in carne e ossa, ma che sono portatori di una cultura che essi rappresentano e che li rappresenta. L’antropologo è un uomo tra gli altri, con maggiori competenze dei nativi e con una specializzazione teorica, ma pur sempre un uomo con uno sguardo emanante, almeno parzialmente, da una cultura di appartenenza. Anche volendolo, un antropologo non potrebbe liberarsi dalla propria cultura (che lo ‘aiuta’ invece a produrre uno sguardo sull’altro).
In luogo di rammaricarsi del fatto che non possiamo liberarci della nostra cultura (e dei nostri stessi metalinguaggi), possiamo mettere l’accento sulle modalità secondo cui la cultura ci orienta in un modo piuttosto che in un altro e sulla fattura stessa dei metalinguaggi. Questo principio è valido anche per l’informatore. Da parte sua, l’informatore (o il nativo) non è che un campione della propria cultura. Nessun informatore rappresenta interamente la propria cultura. Ciò non deve stupire. Ingenuamente, infatti, crediamo di essere ‘portatori di una cultura intera’, in realtà non ne veicoliamo che alcuni aspetti, ignorandone altri: la cultura è composta di diversi insiemi e intersezioni, in reciproco contatto tra loro, che si sovrappongono, si mescolano e non sono mai ‘a disposizione’ di un solo informatore. Come dico spesso ai miei studenti, se mi si guasta l’automobile non mi rivolgo a un prete perché non saprebbe cosa fare; se invece ho un problema spirituale mi rivolgo a un prete (o uno sciamano). Ma è anche vero che il problema che mi ha assillato per anni, la spia dell’olio continuamente accesa della mia automobile, mi è stato risolto dal mio amico africano che fa il fruttivendolo dietro l’angolo di casa mia, a Palermo. Chi avrebbe mai detto che un migrante fruttivendolo ne sapeva di più del mio meccanico! Non solo il sapere di una cultura non è interamente a disposizione di un individuo, ma può addirittura provenire da un altrove. Questo presupposto implica l’accettazione del fatto che siamo immersi in una semiosfera in cui ‘circolano’ non tanto segni isolati ma vere e proprie formazioni semiotiche i cui livelli di organizzazione molteplici, all’interno e all’esterno di una cultura, consentono un continuo dinamismo e amalgamarsi dei linguaggi. Concentrarsi sui linguaggi non vuol dire evacuare gli attori in carne e ossa, ma considerarli nella loro pienezza di esseri produttori e prodotti, ricezione e innovazione.
Che dire, per concludere, se non che una breve riflessione è una sintesi che impone un ordine discorsivo a una materia che si trova a essere informata dalla sintassi degli elementi prescelti e dalla composizione delle categorie ritagliate per assolvere questo compito. Una riflessione, quale che essa sia, si fonda inevitabilmente su un principio di esclusione e contrazione del dire degli Altri. Con le mie scelte, magari inconsapevolmente, ho forse anch’io manifestato un ordine di gerarchie. L’ambito delle storie di vita tende invece – direi, fortunatamente – a manifestare il diritto alla parola dell’Altro, a sfuggire al monologismo del singolo: il ruolo dell’antropologo (o di qualsiasi altro studioso) rimane spesso in secondo piano e l’Altro assume lo spessore che gli spetta.
Lo studio delle storie di vita e il suo uso come strumento di analisi della cultura è quindi un oggetto utile per combattere forme di centramento sul proprio sé. Penso che questa ragione, da sola, basterebbe a giustificare lo studio delle storie di vita. In questa riflessione, per quanto selettiva, io ho voluto inoltre amplificare il valore dello spostamento in sé (così come della circolazione e dell’incontro) e focalizzare sulla produzione di griglie di relazioni che risultano da questo dinamismo. Vengono prima le griglie strutturali o gli atti di parole che rimandano ad Altro? Le griglie sono statiche o dinamiche, produttrici o prodotte dallo spostamento?
L’incanto che provo per la ricerca nel campo delle storie di vita nasce proprio dal fatto che le questioni da affrontare teoricamente e praticamente si ridefiniscono, per utilizzare una terminologia più semiotica, in funzione dell’incontro dei diversi universi semantici e dei dispositivi enunciativi chiamati in causa. Riconoscere la loro funzionalità – il relativismo delle loro configurazioni d’insieme e delle combinazioni sintattiche – non è una dichiarazione d’impotenza analitica: universi semantici e dispositivi enunciativi si dispongono secondo coordinate appartenenti a una semiosfera che si offre proprio come declinazione del loro incontro (e non aprioristicamente). Ciò che conta è esserne consapevoli e valorizzare lo spostamento. Uno spazio di manovra insospettato è affidato alle prospettive di ricerca incrociate, al rimescolamento dei quesiti tradizionali che mettono in luce le forme che assumono gli universi semantici in funzione dei dispositivi enunciativi (e viceversa). Sono convinto che, da quesiti ben posti o da aporie irrisolte, possano nascere, se affrontate a più voci, prospettive teoriche più dinamiche e pratiche più consapevoli degli ostacoli da superare. Direi, per finire, che le storie di vita, se opportunamente raccolte e analizzate, potrebbero risultare un apporto utile proprio per lo studio della (inter)soggettività intesa come risultante dell’incontro dei diversi dispositivi enunciativi e del molteplice ritaglio degli universi semantici. L’incanto soggettivante di cui parlavo all’inizio può coniugarsi allora, ne sono sicuro, con il procedere oggettivante della scienza.
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Etnoantropologia all’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
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