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Performance corporea: lo statuto de-costruttivo del corpo come “narrazione” politica

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Marina Abramović

di Laura Sugamele

La società odierna, caratterizzata dall’iper-tecnologia, ha attribuito al corpo una centralità: il corpo è “postumano”, soggetto ad esposizione visiva. È un corpo “messo in scena” (Di Stefano 2013: 437). La ridefinizione del corpo e del suo significativo potere di “narrazione” e trasfigurazione emotiva si sviluppa nel dibattito filosofico novecentesco di tipo fenomenologico. A partire da Merleau-Ponty sino a Max Scheler [1], l’ambito filosofico tende a valorizzare la componente spirituale e comunicativa del corpo. Secondo Scheler, il corpo umano non è soltanto una realtà materiale, in quanto esprime anche “atti” spirituali: mimica, percezioni, operazioni simboliche. È nel XX secolo che il corpo diventa “strumento” di espressione, caratterizzando la corrente artistica della body e della performance art, laddove il corpo è al centro dell’azione artistica.

«Contrapponendosi alla tradizione di pensiero che prediligeva un soggetto privo di fisicità (il cogito trascendentale), generalmente maschio, bianco, occidentale, la Body Art riconosce che tutte le forme della cultura sono parte integrante della società e che il corpo, secondo quanto aveva affermato Merleau-Ponty, è il collegamento tra il soggetto e il mondo» (Di Stefano: 439-440).

Alla luce di questa considerazione, di rilievo è l’uso del corpo come traslazione di stati interiori e di percezioni emozionali. In quest’ottica, è necessario sottolineare che, in generale l’arte provoca in noi delle emozioni. La visione di un dipinto, per esempio, suscita in noi “qualcosa” (Turco 2014: 514). Da questo punto di vista, nella performance art il corpo è funzionale alla stessa espressione artistica, nel senso che il corpo è “corpo simbolico” di un significato trasferito e “incorporato” nella performance che può diventare “corpo del dolore” o “corpo del piacere” e in quanto tale è quindi strumentale all’emersione di specifici percorsi introspettivi.

Caratteristica della performance art non è solo quella di creare e simulare un’azione, attraverso i gesti del corpo, congiuntamente alle installazioni che colorano di fatto la simulazione; bensì, l’obiettivo – mediante l’atto di performance – è quello di imprimere un determinato significato. In tal senso, l’efficacia della performance corporea è di essere nella sostanza “atto” performativo, che determina e fissa indelebilmente nel tempo un significato emozionale, culturale o politico. L’elemento della traslazione di un significato attraverso il corpo si evidenzia nel contatto comunicativo tra “narrazione” corporea e pubblico, il quale fruisce del messaggio comunicato, fattore che definisce la performance come «apertura psicofisica verso l’esterno, “l’altro da sé”» (Contino 2013: 93). L’ausilio di installazioni video e supporti tecnologici alla performance artistica, amplifica la funzione narrativa in un modo profondo, specialmente a livello sensoriale, questo perché la caratteristica della performance è di creare una fruizione diretta tra l’artista – dunque, la sua espressione artistica – e il pubblico che interagisce con l’opera stessa.

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Marina Abramović

Dagli anni Settanta, performer come Marina Abramović e Ulay, riuscirono a realizzare interessanti performance caratterizzate dalle reazioni emotive del pubblico. Le azioni effettuate nella body art, in particolare nella performance art, tendono così ad esprimersi concretamente, in modo tale da trasfigurare un significato performativo di impatto, duraturo sul pubblico che guarda. «Mettendo in scena il gesto nella sua pura immanenza, la performance art gli attribuisce infatti una realtà più vivida, più netta, per questo ‘aumentata’» (Giomibin 2018: 140). L’obiettivo della performance è di produrre un “esserci” congiunto tra performer e pubblico: un “movimento” di connessione, al contempo corporeo e mentale. In quest’ottica, la femminista americana Peggy Phelan, evidenziando l’essenza performativa dell’arte, parla di «ontologia della presenza» (ibidem). Si tenga presente che, al centro della riflessione, non è posizionato il ruolo dell’artista nella performance in sé, giacché lo snodo di interesse è il corpo dell’artista inscritto nell’azione performante dell’opera; un corpo che assume una valenza politica e sociale, che mira a coinvolgere l’astante, provocando in lui delle reazioni (Turco 2014: 541).

«Quella artistica è un’esperienza soggettiva che si fa con tutti i sensi, con il corpo, attraverso l’esercizio della percezione e della restituzione; è azione e presenza in un tempo e in uno spazio definito, il risultato di un incontro, quello dell’artista con il mondo, dal quale nasce un’emozione che torna al corpo e si fa sentire. L’arte ha sempre a che fare con la materia liquida o condensata. Come nella vita, la percezione prevale sul dato di fatto: l’artista si re-inventa costantemente la realtà avvicinandola a sé e ai suoi soggetti. […] L’arte conduce il soggetto di fronte alla propria bellezza. Alla verità» (Cardini, Guidi 2016: 7).

A tale proposito, nell’intervista realizzata per Marina Abramović, in occasione della sua performance presso il Museum of Modern Art di New York, l’artista afferma l’obiettivo della propria azione artistica: l’arte che trasmette un significato. L’arte della performance è quindi attuata in un determinato momento e per uno scopo, e la “narrazione” prodotta mediante il corpo e i gesti del corpo ha un significato, amplificato dall’ausilio di strumenti. Coltelli, arnesi di varia tipologia, persino il sangue che sgorga dal corpo, possono essere un elemento fondamentale ai fini della performance, così da attribuire ancora più senso alla “narrazione” del performer [2]. Da questo punto di vista, il corpo e il pubblico costituiscono i due fattori principali della performance.

«È il corpo che agisce in quel momento ciò che la parola non può dire; […] Quello dell’Abramovic è sempre un corpo che non si risparmia e che si spinge con coraggio verso l’impossibile. Un corpo cosciente che non conosce vergogna né divieto. Un corpo umile che sente, che impara e si racconta concentrato in una sola direzione: lo spettatore» (Cardini, Guidi 2016: 9).

In questa prospettiva, nell’immobilità del corpo e nel silenzio del performer si individua una forma di presenza che, in tal modo, coincide con l’esser-ci dell’artista che, nella passività affermata nell’azione artistica, non è al di fuori della sua opera, anzi dimostra una totale partecipazione emotiva percepita dal pubblico [3].

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Marina Abramović

In “Rhythm 0” del 1974, performance realizzata nello studio Morra di Napoli, Marina Abramović si presentò al pubblico completamente immobile, come priva di volontà.

In un’altra parte della stanza, vi era un tavolo con alcuni oggetti tra cui delle forbici, dei coltelli, una frusta e delle catene, oltre che una pistola. La caratteristica dell’opera fu quella di invertire i ruoli: l’artista divenne il prodotto stesso della narrazione corporea e la sua passività portò il pubblico ad assumere, a sua volta, un ruolo attivo (Demaria 2008: 96). La performance venne effettuata per un periodo di circa 6 ore, durante il quale gli spettatori potevano usare liberamente gli strumenti posti sul tavolo.

_0_2All’inizio il comportamento del pubblico si dimostrò tranquillo e quasi divertito, per poi trasformarsi in modo incontrollato e pericoloso, visibile nelle immagini, nelle quali si nota come parte del pubblico abbia messo nella mano dell’artista una pistola e il suo dito addirittura posto sul grilletto; l’artista venne poi svestita, i suoi abiti tagliati con lame e forbici e le stesse lame furono adoperate per tagliare la pelle della Abramović e infliggerle così dolore.

003Successivamente, tra il pubblico vi erano invece altri che mostrarono un atteggiamento di protezione verso l’artista, cercando di fermare i comportamenti di violenza.

La ragione insita in una tale performance era quella di porre in luce quanto la violenza, in apparenza inesistente, tuttavia, potesse attivarsi e con gradi alquanto gravi. La violenza sembra quindi intensificarsi, soprattutto, nel momento in cui sono presenti circostanze favorevoli che consentono la sua attivazione. Peraltro, nell’immobilità del corpo, condizione evidenziata dalla Abramović in “Rhythm 0”, si esplica la situazione di annientamento corporeo e dell’identità dell’“altro” contro un “altro”.

In tale prospettiva, le violenze di genere, in particolare gli stupri individuali o di gruppo contro le donne, gli atti criminosi di femminicidio o di stalking, presuppongono l’esistenza di un soggetto che si percepisce in una posizione di forza e predominanza, il quale attraverso l’annientamento del corpo di un altro soggetto determina l’annichilimento della sua identità. Una certa dicotomia narrativa veniva a comporsi dunque in “Rhythm 0”, ove la rappresentazione corporea dell’artista svelava due condizioni: lo stato vigile e quello inerte del corpo, soggetto e oggetto di azioni esterne.

La forza della narrazione politica di questa performance è visibile nel messaggio che l’artista ha cercato di esplicitare, attraverso l’atteggiamento del pubblico nei suoi confronti:  l’ambivalenza che vi è dietro ogni processo di relazione e stereotipizzazione dell’altro da sé, quando nell’incontro con l’altro si determina ciò che Freud [4], padre della psicoanalisi, definiva come atteggiamento «patemico-somatico dell’odio», l’“altro” che suscita in “noi” sentimenti ambivalenti, per esempio atteggiamenti di piacere, di frustrazione o di odio.

foto-numero-4La componente politica della narrazione corporea viene, comunque, portata alla ribalta da Marina Abramović con la performance-installazione “Balkan Baroque”, che vince il Leone d’oro alla Biennale di Venezia nel 1997. Il messaggio connesso alla performance converge con la guerra della ex-Jugoslavia (iniziata nel 1991) e il genocidio della Bosnia. In questo caso, scopo dell’artista fu quello di denunciare, con immagini di fortissimo impatto visivo, una guerra che la stessa artista giudicava sbagliata.

foto-numero-5La durata di “Balkan Baroque” fu di 6 ore per 4 giorni. L’opera era caratterizzata dall’ausilio di installazioni video, posizionate su tre pareti diverse e da 1500 ossa di bovino, su cui l’artista sedeva, mostrando un atteggiamento di forte dolore e disperazione, a rammentare le migliaia di uomini, donne, bambini e bambine che persero la vita durante il conflitto e il genocidio. Le ossa vennero posizionate al centro della sala con la Abramovic, seduta sopra di esse, intenta a pulirle, atto che di fatto, richiamava la crudeltà della guerra e della pulizia etnica.

Il corpo dell’artista raffigurava il tentativo di traslare sul piano corporeo ed intra-psichico, la sofferenza e il totale annientamento dell’umano, dell’altro da sé, del corpo dell’altro; allora, la rappresentazione artistica, tenta di creare per metafora il conflitto continuo e mai risolto tra il “noi” e l’“altro” (meccanismo che ha caratterizzato la guerra dei Balcani), e che la “narrazione” politica-corporea di Abramović riesce ad evocare in questa performance.

Inoltre, con il passare delle ore e dei giorni, le ossa su cui l’artista sedeva iniziarono a marcire e ad emanare un odore insopportabile. L’odore nella stanza diventò terribile e Abramović continuò comunque con atteggiamento imperturbabile a pulire le ossa. Una performance, quindi, davvero particolare quella di “Balkan Baroque”, peraltro, caratterizzata dalla presenza di monitor su cui scorrevano le immagini dell’infanzia e dei genitori della Abramović, che, oltre alle canzoni popolari cantate dall’artista durante la performance, costituivano il corollario opportuno per ricordare il passato della terra jugoslava, dilaniata e devastata dalla guerra. La performance nel pensiero dell’artista, di certo, può contraddistinguersi quale possibilità sia di espiazione che di riconciliazione (Bastianelli 2018).

In una prospettiva analoga di narrazione corporea-politica, si pone Regina José Galindo, performer guatemalteca, i cui lavori si ispirano a quelli di Abramović. Tuttavia, se ne differenziano per le note ancora più politiche. I temi delle performance di Galindo sono intrecciate al problema della violenza sessuale contro le donne nel Sud-America, in particolare nel Guatemala, ma anche al razzismo, al neocolonialismo, allo sfruttamento della terra da parte delle logiche di potere statale-nazionale e industriale. Per questa artista,  l’arte si pone innanzitutto come “risveglio” etico.

Le sue performance sono forti visivamente. “No perdemos nada con nacer” del 2000, per esempio, è una performance che richiama l’attenzione alla disumanizzazione della vita in ogni suo aspetto. L’artista è all’interno di un sacco di plastica e l’immagine allude ad una discarica; in particolare, l’azione sottintende i cadaveri umani ritrovati nelle discariche del Guatemala, rinchiusi in sacchi di plastica, alla pari di rifiuti da gettare (Zaza 2018: 44).

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No perdemos nada con nacer

In “Piedra”, performance del 2013, l’artista rimane immobile, coperta di carbone, in una posa sostanzialmente statica, così ad indicare una “pietra” o un oggetto immobile rispetto alle sopraffazioni altrui, una performance che richiama la condizione dell’oppressione femminile in Guatemala, in generale, problema diffuso in America latina.

 

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Piedra

 Sulla stessa linea artistica sono “Trayectoria” in cui l’artista viene trascinata per i capelli e “Perra”. In quest’ultima, l’artista «s’incide con un coltello la parola “perra” (cagna) sulla sua gamba sinistra, imitando gli sfregi fatti con coltelli e rasoi sui corpi di donne guatemalteche violentate e uccise» (ivi: 46).

 

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Perra

Le performance di Galindo sono citazioni delle violenze del passato, di cui furono vittime donne e bambine di etnia maya, ad opera del regime di Ríos Montt. Dunque, l’arte di Regina José Galindo è sia un grido di sofferenza che un atto pubblico di critica al patriarcato, di denuncia contro i crimini consumati ad opera delle ideologie nazionali, una accusa graffiante proprio per la metafora corporea.

Nelle opere di Galindo emerge un impegno politico volto al riconoscimento dell’uguaglianza etnica e di genere. Le sue performance, quindi, non sono altro che un meccanismo di riflessione critica e interiore, sulle violenze e le oppressioni del passato, come del resto su quelle ancora esistenti nella società attuale, laddove l’incremento dei nazionalismi si coniuga ad un tentativo di regressione dell’autonomia femminile. In tal senso, si potrebbe affermare che per Galindo il corpo costituisce uno “spazio” politico-critico ed è utilizzato dall’artista come segno stesso di ribellione e protesta.

L’arte per Galindo ha un potenziale sovversivo, che sul piano visivo riesce a dare quella visibilità a certe tematiche di genere e politiche, che senza questo mezzo non avrebbero, specialmente in relazione alla questione della reificazione del corpo femminile, tuttora al centro di una costruzione androcentrica della sessualità e della verginità femminile, quale “elemento” di appropriazione e conquista virile-maschile, discriminante che per Galindo si afferma con virulenza, soprattutto nelle guerre e nei genocidi. Del resto, «nei Paesi liberali l’evoluzione dei costumi e le lotte di rivendicazione paritaria hanno consentito l’indebolimento dei divieti, tuttavia i pregiudizi maschili permangono nella mente e negli atti, difatti sono ancora molte le donne picchiate e schiavizzate» (ivi: 37). Su questo piano, nella performance dal titolo “Tanatosterapia”, l’artista si contraddistingue per il fatto di assumere una posizione inerme, sostanzialmente passiva, una performance che rimanda sia all’immagine femminile alla mercé delle condizioni esterne, sia all’immobilità sociale e politica, sulla situazione gravosa della violenza di tipo sessuale contro le donne. Anche in un’altra immagine, il corpo dell’artista appare ricoperto di terra, sempre in una posa statica.

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Regina José Galindo, Tanatosterapia

Il lavoro artistico di Regina José Galindo, non è altro che una forma effettiva di resistenza alle sopraffazioni e agli atti di crudeltà contro la dignità umana, una resilienza che mediante la performance corporea-artistica può avere un intenso impatto emozionale sul pubblico che guarda. «La sua opera ha spesso come protagonista il corpo minuto dell’artista, teatro di un conflitto permanente, che esemplifica i drammi generati dal capitalismo e da tutte le relazioni di potere che affliggono la società contemporanea» (Benaglia, Zanchi 2019). Nell’opera di Regina José Galindo traspare la protesta di carattere femminile e femminista, anche anti-imperialista, traslata in rappresentazioni concrete che con il corpo riescono ad assumere una incredibile drammaticità.

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Regina José Galindo, Tanatosterapia

Nelle performance di Galindo, la coscienza politica dell’artista emerge quindi in modo chiaro: l’uso della “narrazione” mediante il corpo veicola una diretta comunicazione tra pubblico e artista, entrambi coinvolti totalmente nella metafora interpretata nella performance. Come sottolinea Cristina Demaria, studiosa di semiotica, nella performance vi è «il tentativo di creare qualcosa di visibile per l’invisibile, grazie alla scrittura del corpo entro il rituale della performance. Scrivere il corpo non significa allora e semplicemente farne un oggetto di iscrizione, bensì di traduzione e tras-duzione» di messaggi specifici (Demaria 2008: 100).

In tal modo, in Abramović e Galindo, il corpo della performance si tramuta nel segno politico della contrapposizione al “male radicale”, ovvero di una elevazione identitaria che, attraverso il corpo che narra, che mette in scena pubblicamente le conseguenze delle azioni politiche e di potere, raffigura sia la forza dell’opposizione che la sublimazione psichica del dolore.

Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Note
[1] Di Max Scheler si veda La posizione dell’uomo nel cosmo, 1928, trad. it. di G. Cusinato, Franco Angeli, Milano 2004.
[2] Si veda l’intervista di Marina Abramović per il MoMa, disponibile all’indirizzo https://www.khanacademy.org/partner-content/MoMA/artist-interviewperformance/v/moma-Abramović-what-is-performance-art.
[3] A tale riguardo, così scrive Lorenza Perelli: «Lavorare con la mano e con il corpo nudo non è esporre la propria identità, ma cercare il minimo comune denominatore di ciò che siamo in quanto esseri umani. Il corpo nudo è un elemento a-storico, pre-politico, direbbe Hannah Arendt. Esso vive nel regno delle necessità primarie e da queste Marina Abramovic trae le sue opere. Una volta portato il corpo nudo nello spazio pubblico, sotto gli sguardi degli altri, senza cambiarne le sembianze, senza vestirlo, senza renderlo adeguato, ecco che questo elemento a-storico comincia a vivere un’esperienza del tutto nuova e imprevedibile, acquista una dimensione politica nel partecipare alla vita pubblica e una narrativa storica data dai segni dell’esperienza a cui esso è stato sottoposto in un periodo circoscritto» (Perelli 2017).
[4] «[…] Freud insiste pure sulla tendenza innata dell’uomo alla malvagità, all’aggressione, alla distruzione e alla crudeltà, che provengono dall’odio primordiale. Essa incide socialmente in maniera disastrosa, poiché l’uomo soddisfa l’aspirazione al godimento a spese del suo prossimo, aggirando gli interdetti» (Chemana, Vandermersh, Albarello 2004: 232).
Riferimenti bibliografici
 Bastianelli Marco, Marina Abramovic, Platone e l’anello di Gige: sull’idea di una giustizia tra gli uomini, «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», anno 2018.
Benaglia Sara, Zanchi Mauro, Resistere dal corpo, 10/11/2019, articolo disponibile all’indirizzo https://www.doppiozero.com/materiali/resistere-dal-corpo.
Cardini Giovanna, Guidi Alessandro, Il corpo e la seduzione, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2016.
Chemama Roland, Vandermersh Bernard, Albarello Carlo (a cura di), Dizionario di psicoanalisi, Gremese editore, Roma 1998.
Contino Tiziana, Interactive Psychosocial Art, in Incontri sul contemporaneo. Gli artisti, l’arte e la psicologia, S. Ferrari – M. L. Tina (a cura di), I quaderni di PsicoArt, vol. 3, 2013.
Demaria, Rendere visibile l’invisibile: il corpo politico di Marina Abramović, AA.VV., Culture della differenza. Femminismo, visualità e studi postcoloniali, UTET, Torino 2008.
Di Stefano Elisabetta, La voce del corpo: Madam Orlan e la soma-estetica, in Controcanto. Voci, figure, contesti di un altrove al femminile, Diana Del Mastro (a cura di), Szczecin, Katedra Italianistyki US – Dipartimento di Italianistica US 2013.
Giomibin Lisa, Nel gesto, nell’atto l’arte della performance tra opera e evento, «Lebenswelt», 13, 2018: 140.
Perelli Lorenza, Arte che non sembra arte. Arte pubblica, pratiche artistiche nella vita quotidiana e progetto urbano, Franco Angeli, Milano 2017.
Turco Federica, Dalla performance all’azione. The artisti s present: Marina Abramović, «Lexia. Rivista di semiotica», 17-18, 2014: 541.
Zaza Giacomo, Regina José Galindo. L’arte come risvegli etico, AA.VV., in Regina José Galindo, G. Zaza (a cura di), NFC Edizioni, Rimini 2018.

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Laura Sugamele, dapprima si è laureata in Filosofia e scienze etiche presso l’Università di Palermo e ha completato i suoi studi di specializzazione in Filosofia e forme del sapere all’Università di Pisa. Attualmente è dottoranda in Studi Politici presso l’Università “La Sapienza” di Roma. I suoi interessi di ricerca si rivolgono agli studi di genere, filosofia politica, storia del pensiero femminista con un focus sullo studio del femminismo postcoloniale. È autrice di Bioetica e femminismo. Rivisitazione dell’etica dei principi e sviluppo della competenza dell’autonomia (Stamen, 2016).

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