di Mattia Basso, Tito Puglielli
«Bisognerebbe dunque tendere l’orecchio, chinarsi verso questo borbottio del mondo, cercare di scorgere tante immagini che non sono mai state poesia, tanti fantasmi che non hanno mai raggiunto i colori della veglia». Ci piace prendere le mosse da queste parole di Foucault, tratte dal suo imponente Storia della follia nell’età classica, per provare a tracciare un percorso, frammentato, che possa raccontare la nostra esperienza di persone e registi, nella realizzazione di Che ore sono.
Il film nasce dalle nostre ferite, dalle nostre esperienze personali con i disturbi mentali e la psichiatria. Siamo partiti da noi, dai nostri Sé, per volgere lo sguardo verso fuori, verso l’Altro, in una modalità il più orizzontale possibile. Il nostro tentativo è stato quello di raccontare persone, non pazienti; storie, non diagnosi. Distinzione che purtroppo appare doverosa, dal momento che la lettura sociale e culturale della malattia mentale è ancora molto rigida e stigmatizzata, e traccia confini invalicabili tra chi è sano e chi è malato. Eppure, come scrive Ferdinando Testa nel suo contributo, «in ognuno esiste una parte sana ed una malata, e il nostro compito è quello di negoziare tra queste due parti». I termini di questa negoziazione, chiaramente, non sono uguali per tutti: non tutti nasciamo, come le due persone che scrivono queste righe, con il privilegio di una famiglia che li sostenga; con una casa dove poter fare ritorno, una volta attraversata la fase critica della malattia; con la possibilità di accedere a percorsi terapeutici virtuosi, improntati sulla persona, sulla sua storia, sul suo universo simbolico. Basaglia stesso amava citare un proverbio calabrese, per sintetizzare la questione di classe a cui soggiaceva gran parte delle internate e degli internati nei manicomi: chi non ha, non è. Parole ancora terribilmente attuali: quello socioeconomico è un aspetto centrale nella riflessione sulla salute mentale e sull’accesso a percorsi terapeutici degni di questo nome da parte di cittadine e cittadini.
Al di là di ogni punto di partenza, teorico o militante, più di ogni altra cosa ha agito nel nostro percorso di creazione l’incontro. Conoscere Giuseppe, Bianca e Ursula è stato per noi un evento dirompente, che ci ha stregati e guidati, senza che potessimo valutare con lucidità i confini tra le nostre esistenze, una volta entrate in collisione. Amedeo Falci si interroga, opportunamente, sul tema dell’oggettività nel documentare: «Vi può essere una tabula rasa dell’intenzionalità rappresentativa dell’occhio? O dietro l’occhio vi sono sempre delle scelte?». Il puro e semplice atto di filmare, di scegliere una porzione del reale ed escludere il resto, è già di per sé un atto di rottura con la cosiddetta realtà: rappresentiamo il mondo per come lo vediamo, in quanto soggetti. Nel solco di una relazione poi, quale quella che si è andata instaurando coi nostri testimoni, si può dire che ogni pretesa di realismo sia del tutto svanita: da quando abbiamo incontrato le persone che hanno poi fatto parte del nostro film, ci siamo compromessi, immersi in una realtà fino a farne parte e, perché no, alterarla: è probabile, anzi certo, che alcune cose non sarebbero mai avvenute se non avessimo mai messo piede in comunità. Fare film con la realtà è sporcarsi, compromettersi, e accettare di dover fare i conti con sentimenti e domande che in alcuni casi non troveranno mai il sollievo di una risposta. Per certi versi, mentre giravamo, ci sembrava che si fosse creata una strana sinergia tra il nostro sguardo e i nostri protagonisti, come se il semplice fatto di lavorare insieme alla costruzione di un racconto, di una narrazione che avesse senso per loro e per noi, avesse dilatato e reso meno desolante quello spazio. È certamente solo un’impressione, ma può dare la misura di cosa significhi fare questo tipo di lavoro, quello di attraversare – ma soprattutto lasciarsi attraversare dalle storie.
Nella comunità al centro del nostro film, che abbiamo frequentato per circa un anno e mezzo, non si faceva terapia di parola. C’era una psicologa tirocinante, ma la sua presenza era irregolare e il suo lavoro considerato alla stregua di un’attività marginale, accessoria. L’unica terapia regolare era quella farmacologica, tre volte al giorno: alle 8; alle 14; alle 20, prima di coricarsi. Gocce e pillole. Stop. Da quando abbiamo messo piede in comunità per la prima volta, ci siamo immersi in un tempo inesorabilmente fermo, in cui le vite scivolano lentamente. Un tempo privo di progettualità, in cui gli unici appuntamenti fissi sono quelli, puntualissimi, con i farmaci e con i pasti: entrambe forme di somministrazione passiva, e di delega del controllo su di sé e sul proprio corpo.
Corpi spesso deformati e devastati proprio dai farmaci e dalla sedentarietà forzata. Come ha giustamente notato Salanitro, è proprio attraverso una riappropriazione del corpo che Bianca e Ursula, in due momenti molto diversi del film, esprimono la loro vitalità, il loro desiderio, il loro dolore: «il corpo di Ursula rivendica pace e identità attraverso la danza catartica. Con il ballo, la catarsi dell’anima è compiuta». Il discorso sui corpi è legato a quello dell’amore in comunità. Al nostro arrivo nella struttura, nell’inverno del 2021, erano presenti venti ospiti; tra di loro, otto formavano delle coppie, tutte nate in comunità. Nonostante questa evidenza, cioè quella di un bisogno di amare, costruire una relazione (una storia, appunto), avere una progettualità che passi dalla relazione con l’altro, e col proprio corpo, bisogni umani che ovviamente non si estinguono con l’ingresso nell’istituzione («Ci promettevano la felicità, la stabilizzazione degli istinti. Ma i nostri istinti erano quelli di tutti, solo deviati dalla mancanza d’amore» scrive Alda Merini ne L’altra verità) – nonostante questo, si diceva, l’amore e la sessualità in comunità sono trattati come un tabù. I dormitori erano separati in maschile e femminile, e le storie tra pazienti tollerate solo informalmente, “chiudendo un occhio”. Quello dell’amore in comunità è un tema enorme, che meriterebbe uno spazio a parte per essere affrontato, e chissà quanti possibili altri film. L’ambito della relazione con l’altro è un terreno fragile e fertile, in cui se è vero che la malattia può attecchire, è soprattutto vero che proprio da lì dovrebbe poter ripartire un percorso terapeutico.
Man mano che procedevamo nella nostra ricerca, fatta di relazioni e fiducia, negoziazioni sulla possibilità di raccontare e sul rispetto dei limiti tracciati dall’altro, si faceva strada in noi la frustrante presa di coscienza che la rivoluzione basagliana non si è mai realmente innestata nella nostra società, e che il diritto alla salute mentale non è reale, ma rimane solo una materia opaca che sembra viva solo in determinati contesti di lotta. Una lotta che avrebbe il dovere di farsi trasversale, e agire mettendo in discussione tutte le istituzioni totali ancora oggi esistenti, dalle psichiatrie alle carceri fino ai CPR, in cui chi non è produttivo o performante è automaticamente fallito, inutile, marginalizzato. Probabilmente la legge 180 del 1978 e il pensiero intorno a quel mondo possibile non si sono radicati perché il loro potere trasformativo era troppo visionario, obbligava a mettere in discussione paradigmi molto più ampi della materia di cui si occupavano in senso stretto.
Un ruolo fondamentale nel manifestarsi di queste dinamiche, più o meno evidenti, di annichilimento e de-responsabilizzazione delle persone istituzionalizzate, è quello ricoperto dal linguaggio. Persone adulte, con la propria storia, il proprio vissuto fatto di relazioni e progetti, traumi e sogni, vengono infantilizzate e trattate come ragazzini o adolescenti. “Tu sei birichino!” scherza un operatore sessantenne mentre fa la barba a un paziente a lui coetaneo. Scrive Antonucci, nel suo Critica al giudizio psichiatrico: «Togliendo il significato al pensiero la psichiatria toglie anche la responsabilità alle persone, annullandole. L’uomo privato della produzione di senso e dell’attribuzione di responsabilità non esiste più» [G. Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Edizioni Sensibili alle foglie, Dogliani (CN) 1993].
In questa sospensione, diventa fondamentale “inventarsi” il tempo: costruire degli appuntamenti minimi con la cura di sé e dello spazio circostante, con le sigarette e i caffè, con l’arrivo del postino da fuori. Giuseppe – che indossava dai due ai quattro orologi, alcuni dei quali fermi – era ossessionato dal tempo che non passa mai; come lui, tanti altri ospiti della comunità si chiedevano, con un’insistenza paradossale, “Che ore sono?”. Tornando a Dell’Orzo: «Se da una parte assistiamo a una realtà assistenziale capace di dare uno spazio di accudimento e di riformulazione delle relazioni affettive (…) dall’altra non possiamo non cogliere quanto la progettualità, troppe volte burocraticamente vincolata e ostacolata, risulti essere assente o socialmente carente tanto da annichilire quegli slanci propositivi e vitali, forieri di un nuovo impegno nel vivere. Lo stallo, l’attesa di un impiego esterno che non arriva, di una trasformazione del proprio quotidiano che, come un miraggio, appare e scompare ai loro occhi stanchi, non fa che esacerbare il percepito senso di inutilità sociale di uomini e donne dall’universo interno ricco, sensibile e martoriato». Come sostiene Ferdinando Testa è necessario un approccio non soltanto olistico, ma anche politico alla salute mentale, poiché essa riguarda la società nel suo insieme: «Nella misura in cui ci prendiamo cura in maniera scientifica, poetica, sociale e psicologica, della sofferenza psichica grave, stiamo contribuendo anche al nostro benessere individuale, spostando con responsabilità l’ago della bilancia verso un’adeguata dimensione sociale. Ha poco senso, pertanto, curare unicamente l’Anima individuale senza assistere anche l’Anima del mondo».
In comunità, il mondo esterno esiste solo attraverso le finestre, o la televisione: riquadri, porzioni di spazio, attraverso cui fanno breccia immagini e notizie, echi sbiaditi di un mondo lontano. Aspetto che ha colto perfettamente l’occhio di Dell’Orzo: «scena dopo scena, il mondo esterno continua ad apparire, allo spettatore come ai degenti, dietro una cancellata, dietro persiane lasciate appena a filtrare la luce, dietro i vetri di una finestra o quelli di una porta che si apre come una veranda sull’aria esterna, su una proiezione del reale vicino, quasi tangibile, eppure distante, scisso da un diaframma fittizio che segna il margine di un’esclusione incidente, ingombrante, ma iniziamo a vedere la sua evidenza di limite, la cecità del fuori verso il dentro (…)», arrivando poi a formulare un paragone col mito platoniano della caverna: «Superate le paure di un labile confine si riverseranno fuori dalla caverna che li accoglie per festeggiare, con quella comunità esterna e escludente, un momento collettivo di condivisione dell’entusiasmo, del senso di appartenenza racchiuso tra i colori della bandiera di una squadra di calcio cittadina. Nel farlo, fuori da quel cancello, si sporgeranno su una strada semideserta di periferia, ad ascoltare in lontananza l’esultanza della città distante che volge altrove il suo sguardo, che passa distrattamente di fronte a ciò che non ha compreso. Lo scorrere di Che ore sono lo mostra chiaramente: è la società dei sani che mantiene il volto verso la parete della grotta, vacuamente impegnata a dare una forma e un senso a quella realtà altra così complessa e intimamente risonante da non riuscire a essere colta, a essere catalogata, se non nella stilizzazione deformata di una sua ombra piatta. Eppure i due mondi continuano ad attraversarsi, a separarsi con diaframmi forati ma densi e intensi, a intrecciarsi e fuggirsi, vicendevolmente spaventati dall’alterità dei disturbi psichiatrici o dalla brutale repulsione del mondo».
Ed è proprio questa cecità che abbiamo tentato di superare nel nostro lavoro. Crediamo nella possibilità di attraversare i cancelli e le porte del mondo psichiatrico attraverso la relazione, il potere dell’autonarrazione e autodeterminazione: è nostro dovere mettere in discussione, disattendere quella distanza, non solo per cercare di decostruire una cultura che ci obbliga a stare in determinati vesti sociali, ma anche per collettivizzare dolori, sofferenze e incomprensioni che non possono essere relegati a pene personali e definizioni cliniche.
Dialoghi Mediterranei, n.69, settembre 2024
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Marta Basso, dopo aver studiato arti visive allo IUAV di Venezia, ha conseguito una laurea magistrale in cinema all’Università di Roma Tre, con una tesi sullo sguardo “altro” del cinema, dall’antropologia visuale ai progetti sociali di video partecipativo. Ha completato i suoi studi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo specializzandosi in regia di documentario; lavora tra Roma e Palermo, fa parte dell’associazione CORRENTE. Filmografia: Sotto lo stesso tempo (2021), Quello che le mie dita sapevano (2021), Che ore sono (2023).
Tito Puglielli, vive a Palermo, dove ha studiato e si occupa di cinema documentario. Dopo aver abbandonato gli studi in medicina e aver lavorato come libraio, si forma come fotografo di reportage e successivamente si laurea in regia del documentario presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 2023 è cofondatore di CORRENTE, un’associazione di giovani registi che si occupa di promuovere il cinema d’autore a Palermo, attraverso il recupero di una vecchia sala cinematografica dismessa nel quartiere di Ballarò. Filmografia: Sotto lo stesso tempo (2021), Acquasanta (2021), Che ore sono (2023).
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