di Sarah Dierna
Un pensatore poliedrico
Nel n. 62 di Dialoghi Mediterranei [1] ho tentato di presentare l’Antinatalismo contemporaneo e di chiarire il suo rapporto con il Proto-Antinatalismo antico; in quell’occasione ho insistito sul significato dannoso ma anche salvifico della conoscenza quale punto di incontro tra il pensiero antico e il pensiero contemporaneo. Il trait d’union tra queste due ampie prospettive teoretiche, soltanto apparentemente distanti, ritengo vada individuato nel filosofo norvegese Peter Wessel Zapffe, uno scrittore davvero curioso e affascinante, dalla penna niente affatto semplice ma dalle posizioni teoretiche profonde e originali. Purtroppo, gran parte del lavoro filosofico dell’autore si trova soltanto in norvegese; pochi saggi sono stati tradotti in inglese e resi quindi disponibili a un pubblico più ampio di lettori. È su questi saggi che mi soffermerò nel presente lavoro nel tentativo di far conoscere un pensatore davvero poliedrico e particolare non soltanto per il suo Antinatalismo ma anche per la sua sensibilità ecologica e la sua autentica passione filosofica [2].
Nel presente lavoro mi concentrerò soprattutto sul racconto arcaico L’ultimo Messia [3] in cui, attraverso la vicenda di una scena di caccia e l’incontro con l’animale non umano, Zapffe riesce a descrivere in poche pagine la natura della nostra specie, le ragioni della sua difficoltà, i suoi meccanismi di difesa, l’unica speranza possibile per salvarsi.
Attingerò però anche ad altri testi; fra questi Farewell, Norway, un dialogo fittizio tra Jørgen, un uomo di montagna, e il direttore di una rivista che si confronta con le posizioni radicali, spietate ma sincere dell’intervistato, un dialogo a due voci che esalta la necessità, l’urgenza e le ragioni di sostenere una campagna antinatalista. Sono significativi anche i versi delle poesie Lullaby e Epilogue?; in essi c’è la compassione per la vita giovane che deve ancora intraprendere il suo viaggio di affermazione nel mondo ma anche la lucidità della fine, degli anni maturi. La verità tragica dell’esistere.
Anche se questi scritti rappresentano soltanto una parte della produzione zapffiana [4], spero che essi riescano a restituire la tonalità filosofica del pensatore norvegese. Sia le poesie che l’intervista immaginaria, insieme al racconto del 1933 sono fruibili nella traduzione inglese curata da Peter Reed e David Rothenberg. La scrittura di Zapffe come si è detto è molto complessa – «[it] is heavy reading even for learned Norwgians!» [5] commentano Dell e Schytte Blix – ma anche per questo ricca di significati e aperta alle diverse interpretazioni che da essa si possono trarre.
Den sidste Messias (The last Messiah) è un breve racconto del 1933 nel quale l’autore descrive la condizione umana mettendone a nudo la natura, i comportamenti, le menzogne, la fine e l’unica speranza possibile di salvezza. Il racconto, scritto in un norvegese arcaico, è diviso in cinque brevi sezioni. Prima di approfondire il contenuto di ciascuna sezione vorrei ripercorrerne sinteticamente la vicenda.
Il testo si apre con il risveglio di un cacciatore che vede per la prima volta se stesso, intuisce la sua vera natura ma tale esperienza esaspera il contrasto interiore tra la propria percezione del mondo e la realtà che non corrisponde affatto a tale percezione. Il contrasto si manifesta nella scena di caccia nella quale questo individuo è impegnato; gli animali non umani sono prede ma sono anche fratelli che come lui soffrono. Nella seconda parte Zapffe denuncia l’errore commesso dalla natura la quale ha puntato troppo in alto e ha generato una specie molto pericolosa mettendo nella sua mano un’arma potente, la coscienza, che ha reso Homo sapiens padrone del cosmo e di tutto ciò che esiste; uno strumento dalla doppia lama che colpisce il mondo esterno ma anche l’esserci di cui è attributo e manifestazione. L’umano rimane un ospite della creazione, un’entità fragile che avverte su di sé l’inconsistenza del tutto, sente l’angoscia per la vita e permette alla nostra specie di conoscere la verità del cosmo, la sua mancanza di scopo e di giustizia, l’inevitabile fine di tutte le cose, la pena dell’esistere a danno di qualcos’altro, l’insensatezza del mondo che è in se stesso pura energia. Una condizione di lucidità e di dolore che avrebbe dovuto portare una specie come la nostra a estinguersi come è accaduto ad altri animali a causa di un eccessivo sviluppo dei loro organi.
Nella terza parte l’autore spiega perché l’animale umano non si è ancora estinto. Zapffe introduce quindi i quattro meccanismi mediante i quali egli ha ridotto a se stesso il contenuto della coscienza e ha dimidiato l’impatto del vero nella sua vita. Lo studio di questi meccanismi prende in considerazione anche alcuni dei saperi della contemporaneità, quali la psicoanalisi, e considera nella prassi alcuni elementi della vita quotidiana che sono nati per rimuovere certi tipi di verità. La quarta parte ritorna a considerare alcuni aspetti discussi nella seconda sezione e si avvia alle conclusioni. Qui Zapffe, pur escludendo che ci sia stata un’epoca della storia dell’uomo priva di angoscia, riconosce tuttavia che i popoli primitivi sono rimasti assai più vicini all’unità biologica mentre la modernità ha trascurato questi elementi e ha favorito lo sviluppo di dispositivi tecnologici, i quali hanno però separato l’umano dalla sua casa e lo hanno reso un inquilino piuttosto difficile.
L’autore insiste inoltre sulla parzialità dei meccanismi di difesa per la sopravvivenza della specie; la soppressione deliberata della coscienza potrà infatti salvare la razza umana per un certo periodo e ritardarne l’estinzione ma mai escluderla del tutto; l’umano non può sfuggire al suo destino. La quinta sezione prepara quindi l’arrivo dell’ultimo Messia la cui venuta viene profetizzata da quell’individuo che sarà riuscito a cogliere il significato cosmico del mondo, la trama di dolore che lo sostiene e a seguirne i fili fino ai margini della vita. Questi porta infine la lieta novella dell’annientamento e un messaggio di salvezza per l’umanità che tuttavia non è ancora pronta ad accogliere tutto ciò e a salvarsi, e risponde quindi aggredendo il profeta dell’avvenire e lasciando così l’umanità inchiodata alla sua croce.
La peculiarità del racconto consiste nel narrare una storia evoluzionistico-biologica dell’organismo umano in cui la tragedia esistenziale viene concepita come proprietà peculiare della sua natura. La nozione di tragico si avvicina infatti molto all’assurdo di Camus ma i due concetti rimangono distinti e non sovrapponibili perché mentre l’assurdo non è nel mondo e non è nell’io bensì nella co-occorrenza dell’uno e dell’altro, il tragico è biologicamente iscritto nell’io che abita il mondo, si manifesta dunque nella dinamica di co-occorrenza ma la causa motrice di tale sentimento appartiene alla natura umana.
Come si è detto il racconto, che è ambientato in un tempo molto lontano, inizia con la curiosa vicenda di un uomo che si sveglia: «One night in times long since vanished, man awoke and saw himself». Nell’istante in cui il cacciatore apre gli occhi vede se stesso «naked under the cosmos, homeless in his own body»; in quel momento «everything opened up before his searching thoughts, wonder upon wonder, terror upon terror, all blossomed in his mind» [6].
Il risveglio e la capacità di vedere se stessi incedono dunque e creano uno spazio di rivelazione. Il risveglio accade nell’essere e il sonno esistenziale nel quale l’umanità si trova evidentemente sopita è esso stesso uno stato interno all’essere; ma il risveglio accade anche e in modo veramente originario al confine con il non-essere dove il sonno è il luogo del niente dal quale l’umano è tirato fuori nel venire al mondo. Il primo è un risveglio gnoseologico, il secondo un risveglio ontologico.
Come risveglio ontologico aprire gli occhi non è che l’atto di venire al mondo di un nuovo essere che è portato alla luce nudo (naked), senza più la casa del ventre materno, solo con il proprio corpo e le proprie sensazioni. Questa genesi originaria si comprende meglio in uno scritto del 1983. In esso Zapffe affronta, nella scrittura sintetica e asciutta dei versi, i temi centrali del racconto del 1933. In tale componimento l’umanità nasce dalla materia, viene generata dalle fiamme (il principio eracliteo):
In the heart’s hollow, in the mind’s bitter order,
in secret closets and the shelter of night
is the incomprehensible world of All,
and the mistgloom dawn of time—
billions of years pressed together
to one second of mutatoric light,
where mankind sprang out of smelting flames
and saw itself as an appalling sight [7].
Dal Tutto incomprensibile – nel senso letterale di ciò che è non-compreso –, dall’incedere del tempo, dalla luce che è massa ed è energia, l’umanità salta fuori (sprang out) e ripete la stessa scena con cui si apre il racconto: essa vede se stessa (mankind saw itself). Tale esperienza visiva e teoretica è quindi immediatamente successiva al raffreddarsi delle fiamme, appartiene originariamente alla nostra specie che viene plasmata come materia cosciente. L’autore sta in altri termini sottolineando la dimensione naturale, biologica e costitutiva della coscienza; il risveglio è un evento embrionale.
La stessa dicotomia sonno e risveglio, essere e non-essere, costituisce il cuore di Lullaby, pubblicata per la prima volta in Zapffe: Utvalg og innledning (Selections and introduction) (Pax Forlag, Oslo 1969). Si tratta di una ninna nanna (Lullaby, appunto), un canto intonato affinché un bambino possa rimanere a dormire ancora un poco prima di scivolare nelle fauci dell’esistenza. Il fanciullo è presentato come un piccolo ospite che proviene da coste straniere e viene richiamato dall’amore a diventare seme, bambino, adulto, materia consapevole. Reed e Kvaløy leggono questa poesia come un augurio o una speranza che il bambino possa conservarsi quanto più a lungo possibile nell’età puerile e ignara della tragedia dell’esistere, nell’età che Leopardi ha voluto definire dell’immaginazione.
Nel racconto come nella ninna nanna il tragitto esistenziale lungo il fiume della vita inizia da bambini: «From the moment the child embarks on his journey down the river of life, the roar of death’s waterfall fills the valley, always nearer and nearer; it gnaws, gnaws at the child’s happiness» (LM, §2: 42); «Go then in the mighty stream/ here my eyes are plunging» [8]. Il bambino che riposa sotto le coperte è quindi una creatura embrionale, a «little seed» (LU: 63). Zapffe scrive infatti: «still you are not ours/ – you belong to them out there –», un’espressione che ammette entrambe le interpretazioni sopra enunciate a proposito del risveglio. Un atto ontologico e un atto gnoseologico. L’immaturità degli anni rappresenta in questo caso una purezza esistenziale; la purezza dei primi popoli e delle prime epoche della storia nelle quali, nonostante l’ineluttabile condizione della propria natura, l’umano non aveva rotto i legami con la materia. Nella quarta parte del racconto Zapffe constata infatti che i popoli primitivi, benché siano stati travolti dagli stessi spasmi esistenziali che hanno reso la loro vita difficile e tragica, non si sono tuttavia allontanati troppo dall’unità biologica rispetto alle popolazioni moderne e innaturali le quali, al contrario, hanno creato una frattura e hanno accresciuto tale distanza. Mentre i tratti che hanno garantito la sopravvivenza delle prime popolazioni consistevano in «the proper use of our bodies’ strengths and the biologically useful part of our souls. And these traits must operate under stringent conditions – the limitations of our senses, the frailty of our bodies, and the energy-demanding task of keeping our bodies in one piece and our need for affection satisfied», lo sviluppo delle civiltà moderne ha trascurato [the] «conditions, the narrow range of possibilities forhappiness, […] growing civilization, its technology, and its standardization».
La conseguenza di tale distanza ha reso «[the] large part of our best biological talents […] superfluous in the modern, complicated technological game we play with the environment, we are victims of increasing spiritual unemployment» (LM, §4: 50). Il culmine di un simile sviluppo tecnologico e di un simile eccesso di spirito (‘unemployment’ perché ci si riferisce all’inutilizzo delle proprie facoltà intellettive e consapevoli; nella terza parte del racconto, lo ricordo, Zapffe ha parlato dei meccanismi di soppressione della coscienza) ha portato una separazione tra l’umano e l’intero, ha fratturato l’unità biologica di partenza con il risultato di non riconoscere più tale unità con la natura che tuttavia rimane sempre «[what] gives us the opportunity to practice these activities» (LM, §4: 50).
Per ritornare alla scena di apertura de L’Ultimo Messia, anche la vicenda immediatamente successiva supporta l’ipotesi di un risveglio duplice, il primo dei quali è di tipo generativo. Subito dopo avere visto se stesso compare un altro personaggio, una donna, che pure si sveglia e si rivolge al cacciatore dicendogli che è giunto il momento di andare a caccia. La ricerca del nutrimento come bisogno biologico, come necessità naturale del soma; l’animale non umano concepito e pensato dall’animale umano come preda, come ciò che la natura ha reso disponibile per un’altra specie e ha teleologicamente predisposto affinché potesse essere cacciata. Tale scenario si scontra però non con la differenza dell’altro da sé ma con l’identità di un essere simile a sé, di un fratello che condivide con l’umano la sofferenza, cosicché la realtà si rivela diversa da come è stata maturata e immaginata. L’esperienza umana quindi si eventua nel mondo già da subito in modo tragico. Da un lato c’è il proprio bisogno metafisico di dare un significato al mondo, un ordine al reale, un principio di giustizia e uno scopo, dall’altro c’è la coscienza che in quanto conoscenza della natura e delle sue leggi relega l’umano a un appetito mai soddisfatto.
La donna sollecita il compagno all’attività di caccia la quale ricade non soltanto in un sogno puerile e ingenuo ma anche sotto l’ombra antropocentrica che schiaccia la natura e subordina gli altri animali ai bisogni di Homo sapiens. L’umanità si è così resa «a mighty Bomb is he/ of chromosomic-isotopic strength,/ and the fuse fizzles the whole time he/ in play and love, in war and work,/ will always be tilling his own soul going from gnome to dizzy phantom/ He draws himself up and bears his head high,/ and claims all wins as his own,/ believing all his profits are pure» (EP: 60).
L’umano sarebbe infatti riuscito a imporre all’interno del suo regno una gerarchia mediante la disponibilità tecnica che la natura gli ha concesso; il cacciatore prende l’arco che Zapffe descrive come «fruit of the union between the soul and the hand» (LM, §1: 40) per colpire le prede del suo pasto. La tecnica rappresenta quindi un dispositivo ‘naturale’ che scaturisce come prodotto di due capacità, lo spirito (la conoscenza) e la mano, del tutto biologiche che rendono anche il risultato della loro commistione, la tecnica appunto, altrettanto naturale. L’esperienza rivelante che il cacciatore compie lo porta a concepire «the globe’s burly belly/ is a pregnant mother from/ which trees and birds, fish and seals come/ and He with them» (EP: 60). Quando infatti si reca presso la consueta pozza d’acqua, lo ripeto, il cacciatore non vede più davanti ai suoi occhi la preda, ma un organismo simile a lui: «When the animals came to their waterhole, where he out of habit waited for them, he no longer knew the spring of the tiger in his blood, but a great psalm to the brotherhood of suffering shared by all that lives» (LM, §1: 41).
L’operazione di disvelamento lascia allora il cacciatore senza dimora (homeless) e senza il luogo confortevole delle proprie verità («from land where wonder lies») anche in un altro senso; essa sottrae e non aggiunge, infatti il cacciatore si ritrova nudo (naked) esattamente come è stato generato, esattamente come all’inizio della sua storia.
Il racconto di Zapffe prosegue e approfondisce l’ontologia materialista, antropodecentrica e tragica dell’autore. In se stesso considerato «the universe we find ourselves in is purely material – matter and energy petering out into oblivion by the ticking of the entropic clock» [9]. Esclusa quindi l’ipotesi di un dio creatore ed esterno rispetto al creato – che tuttavia l’umano rivendicherà – la realtà si riduce a pura materia nel divenire della quale è arrivato anche Homo sapiens. La sua presenza segna tuttavia «a break in the very unity of life, a biological paradox, a monstrosity, an absurdity, a hypertrophy of the most catastrophic kind» (LM, §2: 41). Mentre la natura indifferente di Leopardi o la φύσις dei Greci annovera semplicemente tra i suoi enti l’umano, Zapffe ha una visione diversa nella quale l’errore iniziale lo ha commesso proprio la natura che è ‘responsabile’ di avere armato una specie rendendola onnipotente e pericolosa non soltanto per il mondo esterno ma anche per se stessa [10].
Il primo elemento sul quale si dovrebbe insistere è proprio questo. Per i pensatori pagani l’umano non è un errore ma un ente come gli altri che l’intero riesce a tollerare; indipendentemente dall’atteggiamento dell’umano rispetto all’intero, egli rimane in se stesso qualcosa che esiste come gli altri, non il fine della creazione ma nemmeno un errore della natura appunto. Nella filosofia di Zapffe invece la natura ha commesso un errore quando ha generato la specie umana: «Nature had aimed too high, and outdone itself. A species had been too heavily armed» (LM, §2: 41). Essa le ha concesso come strumento di difesa e di sopravvivenza la coscienza, la consapevolezza su se stessa e sul mondo della quale la filosofia moderna si è servita per rivendicare il primato dell’animale umano sugli altri, nonché il trionfo del soggettivismo che ha raggiunto poi il culmine con l’idealismo. La tragicità non dipende dalla coscienza, che di per sé è un dispositivo funzionale, ma dal bisogno mai soddisfatto di trovare un senso e un significato alla realtà soffocato proprio dalla coscienza che gli mostra invece il reale in tutta la sua durezza e verità. Vediamo pertanto in cosa consiste la funzionalità della coscienza e perché rende Homo sapiens un animale tragico.
L’umano, in quanto organismo, condivide con gli altri animali degli interessi biologici, sociali e autotelici. L’interesse biologico è legato al bisogno di cibo e di nutrimento, l’interesse sociale alla necessità di stringere delle relazioni, l’interesse autotelico riguarda invece le attività che vengono svolte per il piacere di svolgerle, pur non avendo alcuna utilità. L’umano possiede però un quarto interesse. Un interesse metafisico che richiama al nostro bisogno di giustizia, di moralità, di attribuzione di un significato alle cose che accadono e alla vita nel suo complesso. Zapffe spiega la natura quadruplice di questi bisogni prendendo come esempio il vino: il vino è una bevanda e dunque una fonte di nutrimento in qualche modo, ma è anche un elemento di convivialità, il suo valore autotelico dipende dal gusto come piacere intrinseco alla sua consumazione; nel Cristianesimo però il vino ha anche un significato simbolico, nel momento dell’eucaristia diventa infatti il sangue di Cristo. L’interesse metafisico è un interesse eteronomo che si sforza di guardare la vita dall’esterno per darle un senso, per capire quale sia il suo scopo, la sua meta ultima.
Nonostante l’esigenza di soddisfare tale interesse, l’umano è prima di tutto un organismo biologico; per quanto abbia voluto raccontarsi delle storie e abbia fantasticato sul proprio avvenire, egli rimane soggetto alle inoltrepassabili leggi della natura. Al trionfo del tempo. La conoscenza manifesta a una ‘coscienza metafisica’ che oltre ogni significato non c’è alcun significato, oltre ogni giustizia il mondo è profondamente ingiusto, oltre ogni moralità la realtà non contempla nessun ordine morale. Esiste soltanto la materia e la sua entropia. Zapffe paragona il movimento di questa materia alle due fasi della respirazione polmonare: «When it exhales, delicate and graceful life teems out of its pores, and all the creatures stretch out their arms to the sun; but when it takes in its breath, a rustle of fragile spirits breaking sweeps through the multitudes, and their corpses lash the ground like showers of hail» (LM, §2: 42). Il movimento di ispirazione ed espirazione non riguarda soltanto il presente ma tutte le epoche della storia dell’uomo e del mondo. La coscienza rende quindi manifesto non solo il movimento ma anche la sua ripetizione che torna continuamente a riempire la terra di nuovi viventi e a rendere il grembo delle madri sempre gravido. In questo continuo gioco, valgono le stesse identiche leggi degli antichi: la venuta di ogni nuovo organismo e la sua dipartita non è che materia che diviene e si trasforma. Nel racconto si legge:
«He carries a meal inside himself, yesterday it was an animal running freely about by its own will, now he is absorbing it, making it a part of himself; where does he begin and where does he end? Things blend into each other in sequences of cause and effect, and everything he tries to seize and hold dissolves before his probing thoughts. Soon he sees mechanics behind everything, even behind that which he used to hold dear» (LM, §2: 42).
È soprattutto l’esperienza del morire che porta l’umano a intuire l’assenza di qualsiasi significato. La morte interrompe infatti in modo brutale e arbitrario l’esistenza sottraendo qualsiasi senso e qualsiasi scopo alla vita.
La prima parte del racconto termina in modo sorprendente. Gli animali tornano alla pozza d’acqua ma «when they found him again by the rising of the new moon, he sat dead by the waterhole» (LM, §1: 41). Il cacciatore muore e lo fa prima delle sue prede. Vedere se stessi, capire i princìpi della natura e subirli significa essere destinati, come qualsiasi altro organismo alla legge del tempo, all’ineluttabile fine che spetta a tutto ciò che esiste. La luna, che pure sembra soltanto una nozione accessoria, detiene un significato importante. Zapffe annuncia l’incedere della morte riferendosi alla luna anche nella poesia del 1983. Qui l’autore contrappone alla conoscenza del cosmo che l’umano pretende di avere raggiunto la pochezza del suo sapere («he knows hardly a thing», EP: 60). Il ritorno trionfante dalla luna è anche la verità della fine: «though your machine was/ impressive, / that Someone awaited you back home» (EP: 60). Ad attenderlo è la morte.
Anche la propria finitudine rientra nel disegno cosmico del mondo, ciò che l’organismo umano ha preferito rimuovere e di cui non vuole parlare. Quand’anche la ammettesse, ogni singolo individuo la attribuisce sempre ad altri e mai a se stesso: «I protest with a veritable NO!» ma «yet time races on and the day shall come when no one who knows them recalls me» (EP: 61-62). Il tempo/la natura trionfa sempre.
Per placare questa irrisolvibile lotta dell’io con se stesso e il mondo che altrimenti porterebbe l’umanità a estinguersi, Homo sapiens ha deciso di rinunciare a uno dei due elementi che caratterizzano la sua esistenza; ha rinunciato non all’interesse metafisico che invece mantiene e alla luce del quale soltanto egli può continuare a osservare il tempo che abita bensì al portato della coscienza.
Dovrebbe risultare evidente che in una materia priva di senso il tragico non esiste; la dissonanza con il reale dipende dal tipo di ordine e di giustizia che del mondo la specie umana è disposta ad accettare. L’unica forma di moralità e di giustizia che il mondo possiede è l’equità con cui concede la fine a tutto ciò che prima è iniziato a esistere. Se si accetta che la vita e la morte siano soltanto due processi naturali, allora l’orrore metafisico si dissolverà e ciò che abbiamo chiamato tragico «would then be simplified, reduced, to nothing more than the physical end of existence, making the phenomenon of tragedy extensively extrapolable to all forms of life on Earth» [11]. Il tragico diventa allora l’attrito dell’uomo nel cosmo, ciò che lo rende inadatto all’ambiente che pure vuole abitare e nel tempo più lungo possibile. Zapffe rende tale divario con una immagine: è come se l’umanità fosse un vaso nel quale però è stata piantata una quercia. Come ho anticipato gli umani sono riusciti tuttavia a resistere alle radici possenti di un albero secolare come la quercia e quindi a sopravvivere. Lo hanno fatto a discapito della conoscenza. In questo modo si rendono a volte, e per qualche istante, felici ma a costo di ignorare la implacabile verità del mondo.
La coscienza in bilico tra perdizione e salvezza
Dopo avere messo in evidenza la natura tragica della condizione umana la quale vive al confine tra la conoscenza della natura, l’appartenenza a essa e l’interesse metafisico continuamente soffocato dalla durezza del reale, si è detto che l’umanità ha preso posizione risolvendo tuttavia la dissonanza cognitiva e rinunciando più o meno volontariamente e artificiosamente al portato della conoscenza anziché alle sue aspettative. Per capire in che modo ciò accade bisogna seguire la sequenza narrativa del racconto. Zapffe insiste meglio sulla natura della coscienza che finora ho presentato soltanto rispetto alla attività contrastiva e tragica con la quale spezza il sogno metafisico di ordine, di senso e di giustizia che dà forma al mondo e lo plasma per renderlo abitabile e confortevole.
Sempre nella seconda parte del testo, dopo avere discusso dei caratteri della natura in generale e della natura umana in particolare, Zapffe chiarisce meglio la funzionalità della coscienza. Essa viene paragonata a una spada dalla doppia lama molto affilata e senza impugnatura: «Its weapon was like a sword without hilt or cross guard, a two-edged blade that could cleave through anything; but whoever used the sword had to grip it by its blade and turn one of its edges against himself»; un’arma che tuttavia «made it not only omnipotent over the outer world, but equally dangerous for itself» (LM, §2: 41). Rivolta all’esterno la spada è un utile ed efficace strumento di difesa concesso dalla natura affinché l’umano possa adattarsi e sopravvivere; si tratta di uno strumento di conoscenza che ha permesso all’uomo di servirsi della sua intelligenza per garantire uno sviluppo tecnico e scientifico che ha migliorato le sue condizioni di vita. Ma rimane una spada e come tale aiuta da una parte a difendersi ma dall’altro lato colpisce. Diventa così uno strumento di violenza e la natura subisce infatti un danno consistente a causa sua. L’umano ha fatto del cogito un elemento di gerarchia e di superiorità, e di se stesso un pioniere – per dirla con Zapffe – dello spirito. Egli ha sottomesso la natura ai suoi scopi, ha privilegiato lo spirito a scapito dell’unità biologica e si è elevato sopra tutti gli organismi. La sua azione sta distruggendo il pianeta e in esso la Norvegia.
Farewell, Norway, si presenta nel titolo come un saluto a una terra che non gli appartiene più, la quale è stata ospitale con la nostra specie ma è stata sfigurata. L’umano che la calpesta – e non vive al suo fianco, per richiamare al verso citato prima – la riconosce soltanto come mezzo e come risorsa che gli fornisce e gli garantisce uno sviluppo stabile, una risposta efficace alla domanda di una popolazione smisuratamente in crescita.
Rivolta verso l’interno, tale spada ferisce però gli stessi organismi coscienti. Reggere una spada senza impugnatura significa difendersi ma inevitabilmente anche farsi del male tenendola in mano. La coscienza è infatti rivelatrice del vero; è il luogo in cui la natura comunica la sua essenza, le sue leggi, la sua necessità. Lo spazio in cui ciò che accade imprime uno stimolo, un eccitamento e diventa un accadere cosciente. Da un punto di vista biologico ed evolutivo le facoltà intellettive e rammemoranti hanno favorito la sopravvivenza di Homo sapiens.
La riflessione di Zapffe risente a mio avviso dell’eco nietzscheana e in particolare di quel breve ma significativo libro che è Su verità e menzogna in senso extramorale. Qui Nietzsche affranca l’umano dal trono dell’idealismo e della scienza e lo fa sottraendo all’animale intelligente la convinzione di possedere il vero, privando di tale statuto anche il sapere che più di ogni altro ritiene di elaborare verità: il sapere scientifico. L’animale umano è un animale dotato di conoscenza ma tale requisito non gli attribuisce nessun privilegio; si tratta di una ‘funzione’ – esattamente come per il filosofo norvegese – concessa all’essere umano e orientata al ‘successo vitale’.
Mentre Nietzsche mette tuttavia in risalto la natura antropomorfica della verità che descrive infatti come illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria; menzogne sulle quali ci si è accordati; finzioni che alludono non alla percezione obiettiva della cosa ma alla loro funzione rispetto al soggetto che su di essa si interroga, Zapffe attribuisce lo stesso carattere finzionale, funzionale e veritativo non al portato della coscienza, bensì alla sua soppressione. Ciò che il primo descrive, sarebbe insomma per Zapffe il contenuto di una coscienza che ha rinunciato a se stessa, il che presuppone una coscienza conoscitrice della realtà delle cose. Se la verità di Nietzsche, in breve, è una menzogna condivisa, la verità di Zapffe è la conoscenza autentica del mondo annichilita, rimossa e obliata da una conoscenza inautentica e fittizia la quale garantisce però la sopravvivenza degli animali umani.
Nel vedere se stesso senza lenti di protezione l’umano cade in un sentimento panico (cosmic panic):
«The species, in this light, seems predestined to destruction, since any effort to preserve and continue life is crippled when one’s undivided attention and energy is required to stave off the catastrophic pressure of one’s inner being. That a species thus becomes unfit for life by reason of an overdevelopment of a single faculty is a tragedy that has befallen not only man. Some contend, for example, that a certain species of deer once walked the earth but was rendered extinct by a set of antlers that had become far too large. Mutations, after all, are blind, thrown into life without a thought to their viability in the environment. When one is depressed and anxious, the human mind is like such antlers, which in all their magnificent glory, crush their bearer slowly to the ground» (LM, §2: 43).
Il verso è più efficace nel dire che «the Throne is transformed to Scaffold» (EP: 61). In questa insenatura sottile risiede l’ulteriore elemento tragico dell’esistenza. Per sopravvivere bisogna rinunciare alla propria essenza; perseguirla significa invece condurre la propria esistenza alla fine. Significa che lo scopo ultimo della vita è l’annichilimento della vita stessa in una lotta tra due opposti: l’istinto di vita e l’istinto di morte. Una sorte simile a quella umana è toccata al Cervus Giganticus che a causa dell’ampiezza eccessiva delle sue corna, che in zoologia si chiamano appunto ‘impalcatura’, si estinse presto; avrebbe potuto eliminare i rami più esterni così da sopravvivere un poco più a lungo ma nel fare questo avrebbe però rinunciato alla sua essenza: «what it won in continued existence it would have lost in meaning, in existential pride» (LM, §3: 43). A differenza dei cervi l’animale umano non si è ancora estinto. «Why», si domanda Zapffe, «are there so few individuals who succumb to the pressure of life because their acuity reveals to them more than they can bear?» (LM, §3: 43). La risposta del filosofo è la stessa che si è data nella prima parte del lavoro: il gioco di coscienza e incoscienza, la riduzione artificiale (artificially) della conoscenza veritiera del mondo; «Man saves himself, and continues. Ironically, man’s survival is made possible by a more or less conscious suppression of his hazardous surplus of consciousness» (LM, §3: 43-44). E tutto ciò non allo scopo di realizzare qualche speranza ma di rinnovare e reiterare lo stesso cammino di dolore, di sofferenza e di perdizione.
L’umano, che pure come il cervo è stato armato oltre misura, non ha inseguito invece la propria essenza fino alla fine. Ha preferito ridurre il portato della coscienza per salvarsi così da non estinguersi e continuare a esistere ancora. La coscienza assume pertanto un carattere finzionale e menzognero proprio come aveva stabilito il filosofo di Röcken [12]. «This suppression is, for all intents and purposes, continuous; it goes on as long as we are awake and active and becomes a condition for social adjustment and what is popularly called “healthy” and “normal” behavior» (LM, §3: 44).
Per rispondere, reggere e resistere all’abbaglio del reale, qualsiasi aspetto della nostra vita è filtrato da dei meccanismi di soppressione. Tali meccanismi sono molto diversi tra di loro e appartengono in modo così costitutivo a Homo sapiens che essi sono diventati inconsci e ciò che essi filtrano appare per questo naturale e non deformato, ciò che si vuole che sia e non ciò che veramente è. Benché essi siano innumerevoli, Zapffe li raggruppa in quattro tipi diversi: isolamento (isolation), ancoraggio (attachment), distrazione (diversion) e sublimazione (sublimation). La restante parte della terza sezione del racconto è dedicata a un’analisi accurata di ciascuno di questi modi di annebbiare la coscienza.
Questi quattro meccanismi sono semplici e perlopiù inconsci ormai, agiscono nel quotidiano e permettono alla vita di navigare su acque meno increspate. Essi, è vero, sopprimono dalla coscienza la vista di un uomo che piange per strada, la sensazione finzionale che le norme, i valori o la fede hanno (per citare solo alcuni degli esempi che Zapffe propone). Ciò su cui tuttavia il loro intervento è più essenziale e drastico è proprio la rimozione del pensiero che se venisse alla luce porterebbe l’umano a cogliere l’insensatezza e la mancanza di significato della vita. Mi riferisco al pensiero della morte. Gli studi dell’antropologo canadese Ernest Becker, la cui intuizione sull’umanità e il ruolo della coscienza si muove in continuità con le tesi di Zapffe e della Terror Management Theory, dimostrano come la paura di morire condiziona in modo determinante la vita degli esseri umani. Che avvenga tramite la fede religiosa o tramite la fede laica e transumanista poco importa: l’importante è non morire, continuare, esserci e mantenersi nell’esistenza il più a lungo possibile.
La paura di morire si conferma sempre e in ogni tempo – anche nelle vicende della nostra contemporaneità – a partire dal momento in cui dalla materia inorganica è scaturita la materia organica e, all’interno della materia organica, ha fatto la sua comparsa una forma consapevole di sé che ha iniziato a separarsi dalla natura e a pensarsi un’entità a parte, con leggi di crescita e di sviluppo autonome e distinte rispetto a quelle che valgono per qualsiasi altro organismo. E invece la finitudine è inscritta nella natura stessa delle cose, dove
«tutto concorre a creare una confusa fantasia di carneficina. Tutto si strappa via tutto… sempre. Eppure, questo trambusto nel nulla viene ignorato da quasi tutti quelli che vi sono coinvolti. Nel mondo naturale, per esempio, niente è consapevole del proprio tumulto nella sagra dei massacri. Soltanto l’autocosciente nullità […] può rendersi conto di cosa succede ed essere scossa dai tremori del caos al banchetto» [13].
E tuttavia pur sapendo la morte all’essere umano non è dato sapere né Come né Quando della propria. Il dono di Prometeo è l’unica condizione che ha reso possibile alla nostra specie di non spegnersi subito e di riuscire a proseguire il suo percorso verso una fine, comunque, già scritta. C’è poco da fare, «l’inganno sarà sempre in noi, il dolore, la paura e la negazione saranno sempre il modo di vivere che preferiamo e che trasmetteremo a innumerevoli generazioni» [14].
Dopo avere descritto nelle sue manifestazioni principali il funzionamento dei meccanismi di difesa, Zapffe riflette sulla morte. Nonostante tutto «death always offers a way out» (LM, §3: 48). Essa si presenta come una via d’uscita, una fuga dall’esistenza e non semplicemente la sua fine. La chiusa dell’epilogo è veramente potente nel comunicare tale forma di libertà:
And painmarkers flame to the pyre
when, spit living to the needle of Now,
he casts his wisdom’s fraying net—
and all he finds on its empty bottom
is, in the final stand of the spirit,
the single Gnosis as borne by the Dead,
that only the embracing of NOTHINGNESS frees us.
And we are afraid that our children shall suffer
so we cease our propagation in time.
It is the last solid counsel we know
against Heaven’s faithless love (EP: 62).
La Gnosi che sopraggiunge dai morti, la conoscenza che la vera libertà si conquista alla fine mentre tutto ciò in cui l’umano si affaccenda è soltanto un palliativo, un antidolorifico (painmarkers) che non guarisce la ferita e non la ripara. Se così è, allora l’organismo umano più che avere subìto la ferita da parte della natura è la ferita della natura. Soltanto la sua scomparsa la rimarginerà. Si è già anticipato infatti che la quarta e la quinta parte del racconto offrono una ricognizione generale di questa specie che si è resa pioniera dello spirito e si ritrova così a sconquassare il mondo e a conservare se stessa e, insieme a se stessa, l’angoscia per la vita.
«If we follow this train of thought through to the bitter end, the conclusion is inescapable: As long as humankind blunders along under the dire misconception that we are biologically preordained to conquer the earth, no alleviation of our angst for life is possible. As the number of people on the earth grows, the spiritual atmosphere will become tighter, and defense mechanisms will have to become ever more brutal. And we will continue to dream of salvation, redemption, and a new Messiah» (LM, §5: 51).
L’illusione, l’inganno, la soppressione aiutano l’organismo biologico a sopravvivere, a salvarsi a ritardare la sua estinzione ma mai a evitarla. L’illusione, l’inganno e la soppressione reiterano la vita umana poiché, incapace di conoscere davvero, l’umano rimane un dormiente, un sognatore (dreamer) dinnanzi al quale si apre «a world which is of joy unfolds, / Spring comes into meadows» e la cui visione diventa generativa: «Little seed in dreamers’ mold» (LU: 63).
La soppressione della coscienza garantisce quindi la vita ma ha portato Homo sapiens a favoleggiare sulla propria natura, a ritenersi il centro della creazione, a sentirsi predestinato a dominare la terra. L’Antropocentrismo scaturisce dall’ignoranza della propria reale natura, dalla separazione che l’umano ha rivendicato rispetto alle sue origini, alla sua essenza biologica, organica e finita. La coscienza che l’umanità ha dimidiato preferendo soddisfare il proprio interesse metafisico fa soffrire, sottrae l’umano dalla fermezza delle sue posizioni e lo precipita per questo in uno stato di perdizione e di esilio esistenziale ma nello stesso istante lo riscatta perché gli offre una possibilità di salvezza.
Nella quarta parte de L’ultimo Messia, l’autore riflette sulle popolazioni cosiddette primitive – nel senso letterale del termine, cioè coloro che sono venuti prima – per fare notare che pur nella comune sorte di esistere questi popoli hanno abitato il pianeta in modo molto diverso rispetto a come lo hanno fatto le popolazioni moderne. Mentre infatti i primi sono rimasti pionieri del tragico, i secondi si sono allontanati e si sono illusi così tanto da arrivare a eludere la possibilità stessa del tragico dalle proprie vite o a ritenerlo superabile. L’unità biologica alla quale gli uomini primitivi rimangono più prossimi non è da intendere alla stregua di un comportamento tipicamente ‘animale’ e poco sviluppato; la cultura rimane sempre un’espressione della natura umana. Rimangono dunque naturali anche i meccanismi prima considerati in quanto sono essi stessi forme naturali, strategie cognitive e comportamentali. L’innaturalità dei moderni non deriva dall’avere ingaggiato questi meccanismi ma dall’averli piuttosto trascurati (flouted) a favore di nuove e più violente strategie – l’eccesso di cultura, lo sviluppo tecnologico, la standardizzazione – distruttive per l’umanità che ne è l’artefice e per l’intero pianeta.
Il soggettivismo, nelle forme del razionalismo e dell’idealismo, è il trionfo dello spirito che ha rinunciato alla natura senza la quale non si dà nemmeno la possibilità stessa del cogito. La cultura è infatti prima di tutto la natura specifica dell’umano ma affinché si mantenga tale, e cioè qualcosa di naturale, essa deve agire entro i limiti e nel rispetto dell’intero. Il razionalismo come l’idealismo, la corsa sfrenata allo sviluppo tecnologico sono solo alcuni dei sintomi di questa «global fever of life» (LM, §4: 51). Tale febbre non è orientata solo al successo vitale di una generazione ma anche alla continuazione biologica nel tempo della specie. Il numero degli abitanti che invadono il pianeta è disperatamente in crescita ma tale aumento esponenziale non segna affatto la vittoria dello spirito bensì renderà di nuovo manifeste le prime leggi, vale a dire le leggi di natura per garantirsi la sopravvivenza ricorrendo così anche a comportamenti brutali per assicurarsi qualche risorsa; il Pianeta diventerà inospitale come lo era all’inizio quando l’uomo ha fatto il suo ingresso in esso: «now in vain he extends his arms and prays to be united with that which created him. Nature no longer answers, it made a miracle with man but has refused to acknowledge him since» (LM, §2: 41).
Nell’intervista fittizia e originale del 1958 (Farewell, Norway), l’interlocutore pone a Jørgen una serie di questioni che vorrebbero giustificare l’agire umano anche quando le conseguenze dei suoi atti sono spiacevoli ma a nessuna di queste giustificazioni è disposto a cedere l’intervistato Jørgen, il quale piuttosto scopre l’inganno del progresso e dello sviluppo definendo la corsa del primo e la promessa del secondo come «pure panic, an itching of the soul that has to be scratched and clawed at until every stone and every little hill in the country is covered with incurable eczema» [15]. Dietro la parvenza di volere rispondere ai bisogni e alle esigenze della crescita della popolazione c’è, in verità, il bisogno e l’esigenza da parte di alcuni di volere aumentare il proprio guadagno, il proprio prestigio e potere, in un’espressione di volere accrescere e potenziare quella febbre di vita. Non si risponde al fabbisogno crescente migliorando il sistema di produzione e di investimento; né l’ipotesi di colonizzare nuovi pianeti si presenta appetibile poiché si tratterebbe soltanto di ripetere gli stessi problemi e di reiterare gli stessi meccanismi di risposta altrove; che sia sulla Terra o su Marte, «we will continue to dream of salvation, redemption, and a new Messiah». Solo dopo che «many saviors have been nailed to trees and stoned to death in the marketplace, then the last Messiah will appear» (LM, §5: 51). Qui il richiamo di Zapffe all’atteso Messia è sottile nel confermare la sua concezione a proposito del fenomeno religioso quale fenomeno del tutto umano, come tale finzionale e consolatorio, di cui l’umanità ha bisogno per escludere se stessa dalla Natura che rimane la madre, il grembo, la culla, la tomba.
La conclusione del racconto è veramente affascinante. Essa annuncia la venuta di un uomo che prima di tutti gli altri avrà avuto la forza e il coraggio di mettere allo scoperto la propria anima, di osservare dunque se stesso nella propria nudità vale a dire nella sua dimensione naturale; un uomo che «has grasped life in its cosmic context, and whose agony is the agony of the world» (LM, §5: 51). La sua voce spiega un sudario (shroud) sul mondo, rivela loro un messaggio di salvezza:
«The life on many worlds is like a rushing river, but the life on this world is like a stagnant puddle and a backwater. The mark of annihilation is written on thy brow. How long will ye mill about on the edge? But there is one victory and one crown, and one salvation and one answer: Know thy selves; be unfruitful and let there be peace on Earth after thy passing» (LM, §5: 52).
Tale messaggio non viene tuttavia accolto dalla popolazione la quale risponde aggredendo quest’uomo, quest’ultimo Messia, disceso dal padre lì vicino quella pozza d’acqua; la stessa dove il cacciatore incontra gli altri animali e li riconosce come fratelli, la stessa in cui al sorgere della nuova luna incontra la morte. Si potrebbe pensare che il cacciatore, che infatti si ritrova nudo nel cosmo, sia lo stesso Messia mandato dal padre a morire per noi. Ad aggredire il salvatore sono soprattutto le levatrici e le ostetriche; una presenza significativa per esprimere l’attaccamento alla vita dell’umanità.
Le parole dell’ultimo Messia portano un messaggio di salvezza. Se la vita è stata prima descritta come lo scorrere di un fiume impetuoso, adesso il Messia ne annuncia invece la pochezza poiché essa non è che una pozzanghera, un ristagno d’acqua. In essa è inscritta la sua fine e il corso che a essa conduce non è l’itinerario scorrevole di un fiume che arriva al suo delta o al suo estuario bensì acqua sporca che rimane lì a emanare il suo cattivo odore.
Il racconto di Zapffe ha però un lieto fine. C’è una vittoria, una salvezza e una risposta. E la risposta è la stessa che si trova in Genesi ma capovolta: siate sterili (non siate fecondi). Essa è in verità più precisa e più completa e va assunta nella sua interezza. Il primo messaggio del Messia, la sua prima raccomandazione è un’altra: «Know thy selves». Si tratta di un insegnamento davvero originario: conoscete voi stessi e quindi siate sterili.
Dopo la nota prescrittiva, il Messia continua e conclude affermando: «Let there be peace on Earth after thy passing; lasciate che la Terra ritrovi la pace dopo il vostro passaggio». È importante questa chiusa perché lascia intendere come l’Antinatalismo di Zapffe non sia soltanto antropocentrico nel senso letterale del termine di mettere al centro e di avere l’interesse di preservare l’umano dall’inestirpabile dolore di esistere ma piuttosto, e in modo più decisivo, antropodecentrico. L’interesse di Zapffe è preservare la Terra, la sua Norvegia e le sue montagne. L’intero e non una sua parte. Ciò che non soffre – o che soffre soltanto a causa di Homo sapiens – e non colui che soffre. Una simile posizione emerge in modo più esplicito nell’intervista fittizia alla quale ho già accennato.
Nello scambio di battute, Jørgen risponde al direttore, che gli domanda quale sia un modo per rendere accessibili le montagne norvegesi al maggiore numero di persone possibile, che l’obiettivo deve essere esattamente l’opposto e cioè di chiudere e di non lasciare accedere queste persone ai pochi spazi montuosi ancora incontaminati da elementi antropici.
La sua disamina prende di mira ciò che si vuole far passare per crescita, sviluppo o progresso mostrando il vero volto del progresso: la distruzione. Ciò che più desta la rabbia di Jørgen è che «nobody complains. Nobody wants to be a wet blanket at the celebration of Progress» (FN: 54) poiché spera che dell’onda travolgente del progresso faccia parte non soltanto la possibilità di vivere meglio e di potere tenere lontano il dolore – dimenticando che il dolore è come una sequenza nucleotidica, qualcosa che è inscritto al bìos – ma di raggiungere e realizzare la propria immortalità. Zapffe considera una serie di esempi particolari allo scopo di dimostrare come ciò che si vuole presentare come un progresso o come degli aiuti per la crescita dei villaggi meno sviluppati sia in realtà un progetto finalizzato ad arricchire le tasche di alcuni soggetti soltanto. Al di là di questi esempi ciò che davvero preoccupa l’autore è che tutto ciò che nuoce anche all’umanità è voluto dall’umanità stessa: «We are in the grip of development Neanderthals. It is embarrassing they are descended from humans, these lummoxes with blunt, sterile minds. They are not really alive, they can only keep going on economic stimulants. We’re being replaced by people who don’t deserve a healthy Earth. People for whom the only important thing is how big their paychecks are» (FN: 54-55).
Dopo avere svelato il rovescio della medaglia del progresso e avere definito la sua vera natura, dopo avere stabilito in che cosa consiste la felicità per gli umani e avere chiarito invece come la gioia autentica sopraggiunga attraverso il pieno possesso di sé, come capacità, sforzo e impegno «to be happy in themselves» (FN: 55), Zapffe manifesta l’urgenza di una prassi antinatalista. La felicità che passa da se stessi si raccorda con il monito del Messia a conoscere se stessi. Soltanto in questo spazio è possibile sapere ciò che si è e vivere nella quiete di colui il quale accetta la propria natura e i propri limiti senza contrastarli in tutti i modi. Invece il progresso ha sostituito a questa stabilità interiore una costante tensione e proiezione verso il futuro, ha rimandato a domani l’approdo a una terra promessa – per richiamare la metafora del racconto – invece di comprendere di essere nomade, di accettare e di benedire questo nomadismo.
Le parole di Zapffe lasciano supporre che il suo Antinatalismo abbia fonti molteplici ma non escludenti. Da una parte c’è la cura nei confronti dell’animale umano e del suo mondo di dolore, dall’altra parte c’è però la cura per la Norvegia, la casa, la natura, l’Essere. Se l’umano fosse stato in grado di convivere con gli altri enti e insieme a loro nell’intero la sua natura sarebbe stata ancora dolorosa e difficile, consapevole ma nonostante tutto – proprio perché consapevole – serena. Dovrebbe essere chiaro che l’Antinatalismo del pensatore norvegese diventa necessario per salvare la natura e, in essa e con essa, l’umanità che già esiste. Se prima era un’ipotesi adesso è imminente il giorno in cui bisogna smettere di riprodursi in modo incontrollato. Se prima era un’ipotesi adesso è imminente il giorno in cui bisogna smettere di fare figli. Se prima era un’ipotesi misantropica adesso è imminente il giorno in cui essa deve essere accolta come una strategia filantropica. L’Antinatalismo di Zapffe, nelle parole dell’ultimo Messia come in quelle di Jørgen, è l’unica salvezza possibile per l’umanità, per l’animalità non umana e per l’intero. Il suo accadere anticipa soltanto una fine comunque certa.
La prospettiva del filosofo norvegese si colloca al confine tra la Grecità e la contemporaneità. Della prima condivide il portato gnoseologico, della seconda la prassi antigenerativa. Tale prassi antigenerativa rende l’Antinatalismo attivo. Esso è votato all’azione, tuttavia, in quanto è consapevole di se stesso e del proprio attrito nel mondo e con il mondo, e soltanto perché è tale è capace di diventare una scelta pratica, una condotta esistenziale matura e filtropica. L’ermeneutica del racconto di Zapffe permette di avvicinare quindi l’Antinatalismo attivo al coro passivo che lo precede e lo fonda. Di ricollocare, infine, l’umano, nell’universale biologico al quale appartiene. Alla natura in quanto utero che lo genera, in quanto tomba che lo riaddormenta nella culla del niente.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] S. Dierna, «Antinatalismo contemporaneo», in Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio-agosto 2023: 473-383. Sul profilo storico dell’Antinatalismo si veda anche A.G. Biuso (- S. Dierna), «Antinatalismo: storia e significato di una filosofia radicale», in Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre-dicembre 2023: 56-75.
[2] Zapffe non studiò subito filosofia. Per volere del padre dovette infatti intraprendere gli studi forensi. Un aneddoto racconta che quando dovette discutere la sua tesi di laurea in Giurisprudenza si espresse in versi e in rima.
[3] Si veda P. Wessel Zapffe, The Last Messiah, in Aa. Vv., Wisdom in the Open Air: The Norwegian Roots of Deep Ecology, edited by P. Reed and D. Rothenberg, translated by S. Kvaløy with P. Reed, University of Minnesota Press, Minnesota 1992.
[4] Sono disponibili in lingua inglese anche altri due brevi contributi dell’autore: il primo è «Parting with Gausta», uno scritto in cui al centro c’è la necessità di preservare la natura da qualsiasi forma di cultura e di lasciarla indisturbata. Gausta sarebbe una montagna violata dall’umano che in essa ha costruito città, strade, elementi antropici che fanno sfiorire la sua bellezza; riporto a tal proposito le ultime parole di questa preghiera laica/saluto: «Because you were beautiful, you had to die». Si veda P. Wessel Zapffe, «Parting with Gausta», in Open Air Philosophy: 1-2.
Il secondo contributo riporta invece la traduzione commentata del §106 di Om det Tragiske, nel quale il filosofo discute del Libro di Giobbe presentando Dio come un traditore e Giobbe come il vittorioso. Si veda K.J. Dell and A. Schytte Blix, «The Norwegian Philosopher Peter Wessel Zapffe (1899-1990) and the Book of Job», in The Royal Norwegian Society of Sciences and Letters, Skrifter nr. 1-2022: 5-25.
[5] K.J. Dell and A. Schytte Blix, «The Norwegian Philosopher Peter Wessel Zapffe (1899-1990) and the Book of Job», cit.: 7.
[6] P. Wessel Zapffe, The last Messiah, §1 in Aa. Vv., Wisdom in the Open Air, cit.: 41. Le prossime citazioni tratte dal racconto saranno indicate nel testo con la sigla LM, il numero del paragrafo e della pagina.
[7] Id., Epilogue?, in Aa. Vv., Wisdom in the Open Air, cit.: 59. Le successive citazioni tratte dalla stessa poesia saranno indicate nel testo con la sigla EP e il numero di pagina.
[8] Id., Lullaby, in Aa. Vv., Wisdom in the Open Air, cit.: 63. Le citazioni successive tratte dalla stessa poesia saranno indicate nel testo con la sigla LU e il numero di pagina.
[9] S. Kvaløy, in P. Reed (with D. Rothenberg), «Peter Wessell Zapffe», in Aa. Vv. Wisdom in the Open Air, cit.: 38.
[10] Non a caso, ne La cospirazione contro la razza umana, che si ispira infatti alla filosofia di Zapffe, in questo passaggio si insinua la presenza di uno spirito esterno per rimandare a qualcosa che ricade fuori dalla responsabilità umana. La concezione dell’errore della materia è molto simile alla visione di Cioran che si è esposta nella prima parte del presente lavoro. Dire che la responsabilità è della natura non significa riconoscere alla natura una sembianza antropomorfica. Piuttosto attribuisce alla casualità biologica la natura di un errore simile. La specie che detiene inoltre una simile arma non è affatto privilegiata ma anzi è quella che consumerà con maggiore difficoltà e fatica la sua permanenza nel mondo.
[11] A.M. A.M. Proszewska , «Investigating the origins of Peter Wessel Zapffe’s notion of tragedy in Aristotle’s Poetics: the case of mimesis», in European Journal of Scandinavian Studies, 50(2), 2020: 290.
[12] Riporto qui le parole con cui Nietzsche descrisse il carattere finzionale e funzionale della coscienza: «È degno di nota che tutto ciò che sia prodotto dall’intelletto, il quale è concesso – unicamente come aiuto – agli esseri più sfortunati, più delicati e più transitori allo scopo di trattenerli per un minuto nell’esistenza, […] quell’alterigia connessa col conoscere e col sentire, sospesa come nebbia accecante dinanzi agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell’esistenza, portano in sé la più lusinghevole valutazione riguardo al conoscere. Il suo effetto più universale è l’inganno, ma anche gli effetti più particolari portano in sé qualcosa del medesimo carattere. L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione» (Su verità e menzogna in senso extramorale, (Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinne, 1873), trad. di G. Colli, Adelphi, Milano 2015: 12.
[13] T. Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, (The Conspiracy Against The Human Race, 2010), trad. di L. Fusari, Il Saggiatore, Milano 2016: 13-14.
[14] Ivi: 73.
[15] P. Wessel Zapffe, Farewell, Norway, cit: 55. Le citazioni successive tratte da questo scritto saranno indicate direttamente nel testo con la sigla FN e il numero di pagina.
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