τοῖα Διὸς θυγάτηρ ἔχε φάρμακα μητιόεντα, / ἐσθλὰ, τά οἱ Πολύδαμνα πόρεν, Θῶνος παράκοιτις,/ Αἰγυπτίη, τῇ πλεῖστα φέῤει ζείδωρος ἄρουρα/ φάρμακα, πολλὰ μὲν ἐσθλὰ μεμιγμένα, πολλὰ δὲ λυγρά [1]
«[R]icetta per la piccola Tryphera; benefica per emorroidi interne, dolori, debolezza di stomaco dovuta all’accumulo di umidità; preserva la salute ed è utilizzata per un gran numero di malattie. Prendere una parte ciascuno di corteccia di Mirabolano chebulico, o, se si vuole usare quello Indiano, Mirabolano belerico e emblico. Tagliare, stirare e aggiungere olio di rose; mescolare con miele scremato e riporre (la miscela) in un vaso di ceramica pregiata; il dosaggio è di due o tre hexagia [2] della miscela insieme ad acqua tiepida» [3].
Questo testo è contenuto in un codice manoscritto greco Ephodia tou apodēmountos (Disposizioni per chi è lontano da casa) del XII secolo proveniente dall’Italia meridionale o dalla Sicilia, a sua volta traduzione di un’opera medica araba del X secolo compilata da Ibn al-Jazzār: Zād al-musāfir wa-qūt al-ḥāḍir (Disposizioni per il viaggiatore e nutrimento per il sedentario) conosciuto in latino come Viaticum. Si tratta di una ricetta per una preparazione popolare nel medioevo dall’India a Costantinopoli, dal Cairo a Salerno e Parigi. La sua lettura offre una serie di dati (nome, indicazioni d’uso, ingredienti, preparazione e somministrazione) che si prestano ad una apertura e a un caleidoscopico intreccio intertestuale foriero di conseguenze analitiche. Questa apertura viene offerta da Petros Bouras-Vallianatos, docente di storia della scienza all’Università nazionale capodistriana di Atene, nell’introduzione alla raccolta di saggi contenuta nel volume Drugs in The Medieval Mediterranean: Transmission and Circulation of Pharmacological Knowledge, edito da Cambridge University Press. Un team internazionale di studiosi prende in esame il contesto, la trasmissione, la circolazione e il valore ermeneutico del sapere farmacologico nell’ambito culturale del Mediterraneo e delle sue culture. La miscellanea di testi si propone un’esplorazione delle conoscenze farmacologiche e del loro patrimonio testuale puntando ad una visione olistica del sapere e della sua circolazione.
Il testo di una ricetta, lungi dal presentarsi come la mera oggettività di un sapere e della sua pratica, offre agli interpreti una lettura stratificata che, come osserva Petros Bouras-Vallianatos [4], sovrappone tre aspetti distinti. I contesti geografici e transculturali: il Mirabolano, originario dell’India e della penisola indocinese viaggia verso ovest per mescolarsi con ingredienti mediterranei come il miele; una medicina indiana (triphalā) passa infatti al Mediterraneo attraverso la tradizione islamicata [5] (iṭrīfal) naturalizzandosi in ambienti che trascendono la sua origine fino a ritrovarsi tramite il sapere medico bizantino (tryphera) e i suoi adattamenti linguistici nell’ambiente multiculturale dell’Italia meridionale e della Sicilia. Contesti testuali e terapeutici; una ricetta attraversa un processo di editing e trasmissione (spesso attraverso la traduzione) che implicano pratiche scribali, scuole, esperimenti e pratiche in svariati contesti: ospedali, officine apotecarie, contesti domestici. In terza istanza in un contesto non medico una ricetta può contenere pratiche originate nell’arte culinaria o nell’alchimia e viceversa, mentre i farmaci sono spesso associati alle pratiche religiose, alla magia e anche alla diplomazia e al commercio laddove vengono usati come doni e merce di scambio offrendo prospettive inedite allo studio del contatto fra ambiti diversi e comunicanti.
Il termine Mediterraneo, così come rileva Petros Bouras-Vallianatos, «includes evidence from places across the Mediterranean, whether in Europe, The Middle East, or Africa, but it is not a merely geographical designation. It is something broader because, culturally speaking, even places that did not have access to the Mediterranean were informed by its cultures» [6]. Ne è un esempio il primo capitolo del libro ad opera di Fabian Käs [7], studioso dell’Università di Colonia ed esperto di medicina e mineralogia arabe, dove la Baghdad abbaside, situata nell’entroterra mesopotamico, diviene punto di osservazione dal quale valutare l’incontro delle culture del Mediterraneo. Nel primo capitolo viene analizzato un testo ancora inedito: il Kitāb quwā l-adwiyah (libro sulle proprietà dei medicamenti semplici), opera di Ibn al-Tilmīd (1073-1165), medico cristiano della corte califfale, prete e maggiorente della comunità nestoriana, direttore dell’ospedale ‘Aḍudī, grande viaggiatore, autore prolifico, commentatore di Galeno e Ippocrate.
Nel testo in questione viene offerta una lista alfabetica di 287 voci riguardanti piante medicinali, minerali e prodotti di derivazione animale in uso a Baghdad e dei quali l’autore riporta, oltre a caratteristiche e proprietà, i nomi, non limitandosi alla lezione araba, ma fornendo i corrispettivi siriaci, persiani e greci, testimoniando, specie nell’ambito botanico e mineralogico, un valore di scambio e comunicazione per la pratica medica e le relazioni commerciali nella Baghdad a lui coeva. Questo esempio palesa la necessità di promuovere uno studio che metta in relazione il dialogo avvenuto in passato fra gli studiosi di diverse tradizioni senza privilegiare sovrapposizioni, derivazioni o preminenze di una tradizione sull’altra.
Il volume curato da Petros Bouras-Vallianatos e Dionysos Stathakopoulos si divide in due parti. Una prima include studi sulla trasmissione del sapere farmacologico attraverso culture e spazi geografici, la seconda si concentra sull’interazione del sapere farmacologico con altri ambiti, segnatamente, religione alchimia, culinaria, magia, filosofia e diplomatica. Tredici capitoli percorrono sapere e pratiche delle tradizioni islamicata, bizantina, ebraica e latina. I curatori specificano come bizantino e latino vadano intesi in senso di patrimonio trasmesso attraverso le lingue greca e latina più che in senso strettamente geografico; islamicato fa riferimento, come già specificato, alla tradizione medica di Paesi a predominante cultura musulmana, mentre ebraico è da intendersi attribuito a persone di religione ebraica, ma capaci di utilizzare lingue diverse dall’ebraico, segnatamente l’arabo, in un contesto relativo ai Paesi del Mediterraneo.
Il punto di partenza della ricerca sulla trasmissione, circolazione e adattamento del sapere farmacologico nell’area mediterranea parte dalla ricezione del sapere medico classico e dall’apporto di conoscenze introdotte dal mondo islamicato. A partire dal IX secolo il patrimonio testuale greco era stato tradotto in arabo (con un non trascurabile apporto della tradizione siriaca) e le conoscenze farmacologiche greche, proprio nella Baghdad abbaside si erano fuse col patrimonio di provenienza indiana. Le conoscenze farmacologiche di Dioscoride e Galeno furono integrate con prodotti provenienti dall’Asia. Nuove teorie furono elaborate e saggiate attraverso una pratica sperimentale: Petros Bouras-Vallianatos cita espressamente il caso di Al-Kindī, promotore di una teoria per il calcolo delle qualità dei medicamenti composti.
Il passaggio dal mondo islamicato alle altre tradizioni richiese un periodo di qualche secolo attraverso complessi processi di ricezione, plasmazione e adattamento. Si osserva ad esempio l’introduzione graduale di ingredienti come canfora, zucchero e ambra che piano piano fanno la loro comparsa nella materia pharmacologica latina e bizantina. Mezzo essenziale per questo passaggio fu la traduzione sistematica di opere mediche arabe in latino ad opera di Costantino l’africano nel tardo XI secolo. Furono prodotti compendi latini come l’Articella, testo medico utilizzato ben oltre il medioevo e Antidotaria, raccolte di ricette per medicamenti composti che testimoniano l’introduzione di nuovi ingredienti.
La Scuola di Salerno dà prova dell’assimilazione di queste conoscenze e documenti commerciali ebraici, datati fra l’XI e XII secolo provenienti dalla celeberrima Genizah del Cairo, mostrano un attivo commercio di spezie fra India ed Egitto. L’Italia meridionale e la Sicilia, così come le comunità grecofone del Mediterraneo, giocarono un ruolo fondamentale nell’introduzione del sapere arabo in ambito bizantino. Petros Bouras-Vallianatos [8] cita il caso di Simeone Seth, studioso greco di Costantinopoli, conoscitore dell’arabo, autore di un Trattato sulle proprietà dei cibi dedicato all’imperatore Michele VII Dukas nel quale si tenta una sistematizzazione del sapere arabo così come recepito nei circoli medici greci. Iniziò una intensa attività di ricopiatura, trasmissione e circolazione di testi tradotti in greco e addirittura persiano, contribuendo alla diffusione di materia medica e nuove preparazioni e medicamenti nel Mediterraneo orientale. Anche la tradizione medica ebraica, che sovente si esprimeva in arabo almeno fino alla fine del XII secolo e anche in greco, offre esempi di ricezione ed elaborazione, ma fu soltanto nel mondo cristiano occidentale che comparvero le prime traduzioni in ebraico di testi arabi e latini creando una diffusione parallela del sapere arabo. I capitoli del volume si aprono a questa interpretazione olistica di un’area geografica che travalica linee di confine e mira a riconoscere testi e contesti lasciati fin ora in ombra.
Nel secondo capitolo Jeffrey Doolittle [9], studioso della cultura medica medievale, prende in considerazione le ricette come testimonianza di scambi e interessi culturali, prove intertestuali di un accrescimento del sapere farmacologico per assimilazione progressiva. Le ricette ad uso orale e odontoiatrico di compilazioni latine basate su Plinio e la sua opera trasmesse fino al XIV-XV secolo mostrano come la partenza da una base testuale comune contempli l’introduzione di ingredienti provenienti da aree esterne al Mediterraneo: mirra, pepe e chiodi di garofano a conferma della diffusione del sapere arabo e dell’apertura dei commerci verso l’Asia, specie a partire dall’unificazione dell’Impero mongolo.
Il terzo capitolo, scritto da Kathleen Walker-Meikle [10], specialista di storia della medicina premoderna, ripercorre il De sexaginta animalibus, traduzione latina di un testo medico arabo sulla materia medica animale: Manāfiʿ al-ḥayawān (proprietà degli animali). Il testo presenta un uso esteso di termini arabi riguardo alla nomenclatura zoologica e al computo delle unità di misura. Termini latini vengono associati al corrispettivo arabo (De Camelis de elgemel) o, a volte, il termine arabo viene reso senza equivalente latino (alfat da al-fahd per il ghepardo). Quello che colpisce è l’uso copioso di termini arabi per le unità di misura e la materia medica (alkitran da al-qaṭrān per bitume, ad esempio), così come i nomi degli uccelli vengono spesso lasciati in arabo. Questi esempi testuali testimoniano di un processo di assimilazione nella tradizione latina e di un travaso continuo di conoscenze specialistiche.
Nel quarto capitolo Maria Mavroudi [11], docente di storia bizantina all’università di Berkeley, prende in esame la questione finora poco esplorata del rapporto fra la scienza bizantina e i contatti con la produzione scientifica in altre lingue. La studiosa rileva che la globalizzazione offre esempi di comunicazione fruibili anche ad uno sguardo retrospettivo. I manoscritti bizantini venivano infatti utilizzati sinora in chiave diacronica per valutare il contributo della cultura classica e la sua conservazione. L’analisi degli erbari di tradizione dioscoridea e dei lessici farmacologici evidenza la presenza di termini arabi in originale e in translitterazione, dati documentali di una interazione fra le tradizioni e di una familiarità nella pratica dei termini inerenti la materia medica.
Zohar Amar, Yaron Sarri e Efraim Lev [12], studiosi israeliani di storia della medicina, nel quinto capitolo prendono in esame la produzione in area siro-palestinese di un particolare medicamento composto: la teriaca. Confezionato per l’imperatore Nerone dal medico personale Andromaco venne considerato un antidoto panacea contro il veleno animale diffondendosi nel Mediterraneo e guadagnando prestigio nel mondo islamicato. Gli autori dell’area siro-palestinese ne producevano tipologie differenti e le ricette mostrano una variazione in base ad ingredienti locali (asfalto del Mar Morto o veleno di animali autoctoni) a riprova di un prolifico incrocio e integrazione delle conoscenze.
Chiude la prima parte del volume un saggio di Sivan Gottlieb [13], ricercatrice a Granada, Harvard e Bar Ilan, che esplora un gruppo di testi definiti erbari alchemici, caratterizzati da ricche illustrazioni di piante e radici. In particolare, il codice Parisinus 1199, un manoscritto ebraico del XV secolo proveniente dall’Italia settentrionale propone una traduzione da fonti latine adattate alla sensibilità della religione ebraica con modifiche e omissioni di termini attinenti alla sfera religiosa. Vi si ritrovano illustrazioni con didascalie di nomi di piante in ebraico, latino e italiano traslitterato in caratteri ebraici o di didascalie latine lasciate in originale a ulteriore testimonianza del complesso intreccio intertestuale del sapere farmacologico attraverso le comunità linguistiche del Mediterraneo.
Petros Bouras-Vallianatos nella sua introduzione delinea alcune problematiche fondamentali che attraversano lo studio dei testi medici e farmacologici: la natura composita della testualità ad essi relativa che contempla l’aggiunta di parti, osservazioni e note relative all’uso pratico nei contesti di riferimento e la presenza di un apparato paratestuale (illustrazioni, diagrammi, glosse, note interlineari) come parti integranti del testo e del suo portato in termini di significato e importanza. In seconda istanza, seppure esista una classificazione delle tipologie per i testi latini in materia medica operata pionieristicamente da Henry Sigerist: testi su medicamenti semplici sovente illustrati, raccolte di ricette (antidotaria e receptaria), hermeneumata e trattati su pesi e misure, è soltanto in una visione olistica coadiuvata dall’esplorazione di testi ‘minori’ e poco noti che risulta possibile mettere in evidenza saperi derivanti dalla pratica e un ampliamento della manualistica stessa basata su riscontri quotidiani e testi legati all’attività di singoli praticanti e luoghi specifici come ospedali e apoteche.
La circolazione dei saperi inoltre rese necessaria la compilazione di glossari bilingui e multilingui che a una lettura analitica evidenziano elementi di rilievo perché attraverso l’analisi linguistica rilevano dati sulla disponibilità, la presenza e la conoscenza di prodotti e ingredienti in aree geografiche e contesti specifici. La pratica apotecaria tra il XII e il XII secolo assume una configurazione specialistica nell’area del Mediterraneo. Le gilde costituitesi per l’esercizio della professione evidenziano una dialettica fra la diagnosi, compito esclusivo del medico, e la preparazione coi conseguenti risvolti dottrinali, economici e giuridici regolati da codici e pratiche specifiche. Esiste uno studio embrionale dei materiali utilizzati dagli apotecari che consente analisi dettagliate delle pratiche di commercio dei manufatti ad uso specifico e delle sostanze contenute, dati che corroborano ipotesi su rotte di scambi e percorsi culturali.
Un ambito di particolare interesse è costituito dalle pratiche di auto trattamento che risalgono all’epoca greco-romana, ma in ambito islamicato hanno raggiunto apici di specializzazione e di trattazione testuale. Paulina Lewicka [14], arabista dell’università di Varsavia, esamina nel nono capitolo manuali di auto trattamento in lingua araba: Ghunyat al-labīb fī mā yusta ʼmal ‘inda ghaybat al-ṭabīb (Pletora di informazioni per l’uomo intelligente in assenza del medico) di Ibn al- Afkānī (m. 1349) e il Ghunyat al-labīb ḥaythu lā yūjad al-ṭabīb (La ricchezza di informazioni per l’uomo intelligente quando il medico non c’è) di al-Qurashī, testi che a partire dalla tradizione e autorità di al-Rāzī e Ibn Sīnā (Avicenna) propongono semplificazioni e rimedi pratici che sovrappongono la tradizione medica dotta a pratiche magiche e religiose. E proprio questo intreccio ispira la seconda parte del volume che parte dall’ipotesi che farmacologia e pratiche e saperi culinari, magici, religiosi, filosofici e alchemici offrano confini lungo i quali le prospettive degli intrecci culturali si fanno più perspicue.
Richard Greenfield [15], docente alla Queen’s University in Ontario, esperto di magia e occultismo nella cultura bizantina studia nell’ottavo capitolo l’utilizzo dell’asfodelo, espettorante e abortivo, associato al trattamento di infezioni renali e urinarie. È presente nel popolare Trattato magico di Salomone dove viene consigliato come analgesico, ma non in connessione con la teoria umorale, bensì con le influenze planetarie astrali dei cicli di Saturno, parallelamente alla raccolta della pianta, associata a preghiere e invocazioni magiche. Oltre a transiti astrali, gli effetti terapeutici nel mondo cristiano bizantino sono associati anche a olio sacro delle lampade, amuleti con immagini sacre, reliquie e cera di candele proveniente da santuari che si ritrovano anche come ingredienti di rimedi composti. Greenfield osserva come amuleti e oggetti magici vengano spesso a sostituire medicamenti e farmaci. Anche Galeno, del resto, suggeriva amuleti legati a sostanze vegetali per la cura dell’epilessia, a sottolineare come rimedi legati alla magia e alla religione costituissero particolari sezioni della trattatistica medica classica in una dialettica mai sopita fra religione pratica medica nel mondo antico e tardo antico che associa e adombra proprietà e connessioni mediche e magiche di piante, minerali e sostanze.
Phillip Liberman [16] classicista, ebraista e islamista dell’Università Vanderbilt offre una panoramica delle opinioni di Maimonide, medico e filosofo, sugli amuleti. Nel celeberrimo Dalālat al-ḥāʼirīn (La guida dei perplessi) accetta l’uso di amuleti di origine vegetale animale, minerale e persino umana in quanto l’efficacia, ancorché contraria alla ragione sarebbe testimoniata dalla pratica. Leigh Chipman [17] studiosa indipendente di storia intellettuale della medicina in ambito islamicato illustra nel decimo capitolo la presenza simultanea di ricette per rimedi composti in ambito farmacologico e culinario sottolineando come le ricette stesse assumano significato a partire dal contesto: nutrizionale nel caso culinario, curativo in quello farmacologico. Nel capitolo undicesimo Matteo Martelli [18], docente di storia della scienza all’Università di Bologna, indaga in manoscritti inediti campioni di ricette di farmaci mescolate a formule alchemiche. Ricette di medicamenti composti compaiono a fianco di procedimenti alchemici per la produzione dell’oro, la politura dell’argento con preparati attribuiti a figure di santi. Interessante è la preparazione di un sale per il miglioramento della vista, problema comune ad orafi e alchimisti.
Il dodicesimo capitolo a cura di Athanasios Rinotas [19], ricercatore dell’Università di Lovanio, esamina l’approccio alla mineralogia del filosofo Alberto Magno. Pur non essendo praticante dell’arte medica ne scrisse trattando le proprietà curative delle pietre contro epilessia e melanconia. Basandosi sull’auctoritas di Plinio e Dioscoride intreccia i commentari medievali con la traduzione latina del Canone di Ibn Sīnā. Rinotas rileva come il pensatore domenicano approcci la materia medica attraverso la filosofia, interpolando inoltre la teoria umorale con la teoria dei colori e le loro proprietà. Il tredicesimo e ultimo capitolo a firma di Kolay Durak [20], esperto di storia culturale dell’Università di Istanbul, osserva la materia farmacologica da una prospettiva inedita: gli scambi diplomatici sotto forma di doni. Farmaci, medicine e ingredienti si situano in una rete di collegamenti che coinvolgono la corte bizantina e le sue relazioni. Una serie di documenti medici e non medici mostrano come questi prodotti potevano supportare gli scambi diplomatici offrendo allo studioso moderno dati fondamentali sull’economia medievale, i suoi istituti e le sue rotte. I prodotti riguardano ambiti differenti quali rimedi destinati alla corte, ma anche ad animali della dotazione reale come, ad esempio, falchi e falconi da caccia. I doni diplomatici mostrano percorsi in più direzioni e lo scambio di sostanze rare come tramite della comunicazione fra mondi culturali e ambiti geografici. Proprio lo scambio fra la corte di Bisanzio, gli Stati islamici e l’Egitto mamelucco testimoniano una comunanza di pratiche e scambi simbolici che coinvolgevano l’intero Mediterraneo.
Il libro mostra nella sua complessa architettura e nel suo approccio olistico interdisciplinare e sperimentale l’intreccio delle tradizioni bizantina, latina, islamicata ed ebraica. Ne affiora un quadro nel quale i legami si intrecciano attraverso traduzioni, scambi, imprestiti e adattamenti a partire dalla tradizione medica e farmaceutica islamicata la cui matrice fondatoria, pur innegabile, non si presenta come una direttrice a senso unico, ma sensibile all’ibridazione e alla ricezione. La materia medica e farmacologica in ogni ambito non stabilisce una gerarchia, ma una circolazione dei saperi e una comunicazione creativa senza che altri ambiti del sapere medievale: teologia, alchimia, culinaria, filosofia e magia, le siano estranei o sovraordinati. Il volume offre un approccio innovativo alla testualità intesa come tessuto creativo di dialoghi e discorsi delle culture del Mediterraneo e della sua vocazione al viaggio e all’incontro.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Tali rimedi sapienti aveva la figlia di Zeus, efficaci, che Polidamna le diede, la sposa di Tone, l’egizia: la terra dono di biade là produce moltissimi farmachi, molti buoni, e misti con quelli molti mortali. Odissea IV, vv. 227-230. (trad. Rosa Calzecchi Onesti).
[2] Un hexagion corrispone a 4.444 gr.
[3] P. Bouras-Vallianatos, Dionysios Stathakopoulos (ed.) Drugs in the Medieval Mediterranean, Cambridge University Press, Cambridge 2024: 1.
[4] Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 2-3.
[5] L’aggettivo islamicato qui utilizzato e mutuato dall’inglese islamicate così come utilizzato nel volume in questione, fu introdotto dallo storico dell’Islām Marshall Hodgson e si riferisce a prodotti culturali e fenomeni culturali di regioni dove l’Islām è prevalente, ma non sono legati alla religione islamica in sé.
[6] «comprende testimonianze provenienti da luoghi del Mediterraneo, sia in Europa che in Medio Oriente o Africa, ma non si tratta di una designazione meramente geografica. È qualcosa di più ampio perché, culturalmente parlando, anche i luoghi che non avevano accesso al Mediterraneo erano prevalentemente informati dalle sue culture». Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 3-4. Sulla nozione di Mediterraneo si può consultare P. Horden, N. Purcell, The Corrupting Sea: A Study of Mediterranean History, Blackwell, Oxford 2000.
[7] F. Käs, Ibn al-Tilmīd’s Book on Simple Drugs. A Christian Physician in Baghdad on the Arabic, Greek, Syriac, and Persian Nomenclature of Plants and Minerals in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 37-57.
[8] Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 7.
[9] J. Doolittle, Drugs, Provenance, and Efficacy in Early Medieval Latin Medical Recipes in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 58-103.
[10] K. Walker-Meikle, De sexaginta animalibus. A Latin Translation pf an Arabic Manāfiʿ al-ḥayawān Text on the Pharmaceutical Properties of Animals in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 104-129.
[11] M. Mavroudi, Arabic Terms in Byzantine Materia Medica, Oral and Textual Transmission in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 130-183.
[12] Z. Amar, Y. Serri, E. Lev, The Theriac of Medieval al-Shām in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 184-203.
[13] S. Gottlieb, ‘Already Verifiedʼ. A Hebrew Herbal between Text and Illustration in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 204-242.
[14] P. Lewicka, When the Doctor is not around. Arabic-Islamic Self-Treatment Manuals As Cultured People’s Guides to Medico-pharmacological Knowledge. The Mamluk Period (1250-1517) in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 291-319.
[15] R. Greenfield, Making Magic Happen. Understanding Drugs As Therapeutic Substances in Later Byzantine Sorcery and Beyond in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 245-276.
[16] P. Lieberman, Remedies or Superstitions. Maimonides on Mishnah Shabbat 6:10 in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 277-290.
[17] L. Chipman, Digestive Syrups and After-Dinner Drinks. Food or Medicine? in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 320-335.
[18] M. Martelli, Late Byzantine Alchemical Recipe Books. Metallurgy, Pharmacology, and Cuisine in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 336-365.
[19] A. Rinotas, Making Connections between the Medical Properties of Stones and Philosophy in the Work of Albertus Magnus in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 366-387.
[20] K. Durak, Healing Gifts. The Role of Diplomatic Gift Exchange in the Movement of Materia Medica between the Byzantine and Islamicate Worlds in Drugs in the Medieval Mediterranean, cit.: 388-415.
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Alessandro Perduca è un anglista e germanista di formazione, con esperienza universitaria di insegnamento e ricerca. Si è occupato di letteratura inglese premoderna, moderna e contemporanea in diversi interventi e articoli. Si interessa di storia delle idee in chiave comparatistica e interculturale. Ha all’attivo contributi e studi su Shakespeare, la poesia romantica, Conrad, Auden e Heaney, oltre a numerose traduzioni. Ha tradotto Le ali spezzate di Kahlil Gibran per le Edizioni San Paolo e pubblicistica in lingua tedesca nel campo della teologia e delle scienze dell’antichità. Docente di lingua e cultura inglese nella scuola secondaria, lavora attualmente presso il liceo classico statale “Salvatore Quasimodo” di Magenta (MI).
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