di Pietro Clemente
Pastori sardi in Toscana tra film mostre memorie
Antonio Chironi, ancora ragazzo, intraprende, insieme al suo gregge di pecore, e sotto la guida del padre pastore sardo, un viaggio prima in nave e poi in camion che dalla Sardegna lo porterà verso una terra di nuove speranze.
«E così quel venti giugno del 1961 siamo arrivati nel luogo a noi destinato, una casa colonica il cui nome gentile, Fior di Siena, nulla aveva a che vedere con la realtà. Era una casa abbandonata già da qualche anno, senza strade di collegamento, né luce elettrica, né acqua potabile. La cosa curiosa è stata quando quelle nostre povere pecore, così stressate dal viaggio da dimenticare anche la fame, sono rimaste come impietrite di fronte all’abbondanza del trifoglio e della sulla che, con la loro fioritura, coprivano il prato della collina che avevamo di fronte. Tanta era la differenza con l’infernale siccità dell’isola dove erano sopravvissute fino allora. Il cane Badoreddu fece invece due ruzzoloni liberatori in quel prato, come per mostrare la sua soddisfazione per la fine di quel lungo e faticoso viaggio; di tutti noi, lui fu il primo ad adattarsi alla nuova situazione» [1].
Chironi ha raccontato il suo viaggio individuale che può anche dirsi viaggio collettivo di molti pastori sardi. Infatti già dagli anni ‘50 molti pastori tentarono di sottrarsi alle difficoltà della società e del mercato sardo emigrando verso la Toscana ( e altri luoghi dell’Italia centrale) dove avevano identificato la possibilità di affittare o comprare terre che i contadini e i mezzadri avevano ormai abbandonato. Si stava verificando l’esodo verso le città: i territori vissuti dalla mezzadria classica toscana, considerata uno dei più lodati sistemi rurali d’Italia, si andavano svuotando. I pastori sardi occuparono così lo spazio lasciato vuoto dove fecero crescere le loro famiglie, allevarono e pascolarono le pecore e produssero latte e formaggio. Adattandosi alla particolarità del pecorino toscano trovarono un mercato stabile per la loro produzione casearia. Le comunità sarde si seppero adattare e nello stesso tempo le comunità toscane si adattarono alla loro organica presenza nello spazio agricolo della regione. Non solo la Toscana, ma anche l’Umbria, le Marche, l’Abruzzo e il Lazio furono oggetto di queste audaci colonizzazioni che, viste a distanza di tempo, ebbero successo e rappresentarono una forma di migrazione del tutto originale. Non erano alla ricerca di nuovo lavoro, ma alla ricerca di spazi adeguati per sviluppare la loro precedente attività: emigravano con il loro gregge. Nel racconto queste migrazioni fatte di pastori, vecchi, donne, bambini e animali assumono quasi un carattere epico. Da allora sono passati all’incirca sessanta anni.
Ho più volte seguito e condiviso le vicende degli emigrati sardi in Toscana. Questa nuova presenza non è passata inosservata, ha spesso creato tensioni e ostilità, ma è riuscita a farsi valere nonostante la corposa alterità dell’abbigliamento e degli stili di vita, la particolare confidenza nel trattare gli animali e le piante, l’inflessione sarda nel parlare l’italiano. Marcello Stefanini, fotografo senese con forte sensibilità antropologica, tra i primi raccontò la loro presenza allestendo una importante mostra fotografica nei primi anni ‘80. Nel 1981 si svolse a Siena la prima conferenza regionale sulla pastorizia sarda in Toscana. Si trattò di un evento importante perché i pastori non venivano più considerati con diffidenza ma come una forza di sviluppo nel settore agricolo e nell’allevamento. La Regione Toscana e la Provincia di Siena promossero poi una ricerca antropologica sui temi dell’emigrazione sarda con particolare riferimento alle famiglie, ai loro bisogni e ai cambiamenti che erano intercorsi. La ricerca era condotta da Pier Giorgio Solinas, anch’egli come me docente universitario sardo toscanizzato [2] .
L’innovazione principale dei sardi in Toscana fu la corresidenza familiare: le donne in Sardegna vivevano in paese mentre gli uomini stavano a lungo lontano per le attività pastorali, in Toscana invece il modello consisteva in una famiglia unita tutta concentrata sul podere. Ciò disorientava le donne sarde abituate alla vita in comunità. In Toscana però le donne poterono impegnarsi nell’attività pastorale tanto da conquistare nuove e rilevanti posizioni all’interno della famiglia stessa fino a diventare pastore talora contro la volontà di padri e di fratelli. Il Museo della Mezzadria di Buonconvento ospitò una mostra fotografica che aveva al centro il tema dell’emigrazione dei pastori di Austis [3]. Molti fotografi furono interessati al mondo dei pastori e visitarono le aziende pastorali (in passato si sarebbe detto gli ovili). Numerosi furono gli eventi aperti al pubblico che mettevano in scena la cucina, i balli e la musica sarda, eventi che hanno animato le belle stagioni toscane e hanno fatto da veicolo di una identità comune per il nuovo radicamento in questo mondo. È di recente pubblicazione un volume sul Circolo di Siena che ne ricorda la storia e i fondatori [4], entrambi ormai vivi solo nel ricordo: Luigi Berlinguer storico del diritto e Rettore dell’Università di Siena di profonde radici sarde (sassaresi) e Pietro Siotto, pastore orunese e poeta in lingua sarda.
Nell’ultimo decennio le intense esperienze di questa vicenda comune sono state oggetto di due film che trattano lo stesso tema ma da due strategie filmiche diverse. Lo scopo di questi film è quello di far circolare la storia delle esperienze dei pastori i sardi in Toscana. Il film è il mezzo migliore per raccontare storie di successi e di difficoltà, per far vedere tecniche moderne di mungitura e di caseificazione, per mostrare giovani sardi che parlano con accento toscano, il tutto in mezzo a schiere di formaggi e a belati di pecore,
Il mondo sardo insulare non ha mai riservato molta attenzione a queste migrazioni solide e ormai multigenerazionali. I sardi rimasti in Sardegna danno l’impressione di non volere ascoltare le esperienze dai loro compaesani emigrati soprattutto riguardo al cuore della identità pastorale sarda.
Troviamo in questi film tanti esempi significativi che possono essere riferimento per anche in Sardegna. Vediamo tante esperienze di trasformazione, di adattamento, di duttilità imprenditoriale dove il gruppo familiare resta il nucleo forte, anche se talora si registrano conflitti generazionali. Economicamente, sociologicamente, relazionalmente sono esperienze utili da incorporare e usare come stimolo alla immaginazione lavorativa.
Questi due film sono un buon repertorio di tutti i temi che caratterizzano lo scenario pastorale di oggi, non con le statistiche, ma con i racconti delle esperienze vissute. Risuonano soprattutto i nomi di tanti paesi della Sardegna centrale ma anche del sassarese, dell’oristanese e della parte più montana della provincia di Cagliari. Scorrono le esperienze di chi ha visto i figli voler cambiare lavoro, di chi invece li ha come nuovi dirigenti, di chi ha scelto il caseificio e non la produzione di latte. Ci sono i problemi e i disagi legati alla stagione dei sequestri di persona, cui si rispose con la nascita dei circoli per mostrare il cuore produttivo e adattativo ormai toscano dei pastori. Mi piace ricordare che nel marchio del pecorino toscano DOP vi è una pecora di razza sarda. Prima dell’arrivo in Toscana dei pastori sardi, la produzione del pecorino era molto limitata. I mezzadri toscani avevano piccole greggi.
Transumanze Oltre il mare
Due titoli che si completano a vicenda. Transumanze è il titolo del film di Andrea Mura del 2021 e Oltre il mare è il film di Irio Pusceddu del 2024. Entrambi i film hanno avuto il sostegno della Regione Sarda e della rete dei circoli. Entrambi sono frutto di ricerca, di interviste, di residenze sul campo. Presentano punti di intersezione perché vi troviamo gli stessi protagonisti, attori naturali negli spazi della loro vita, e a loro agio nel raccontarsi. E tuttavia non si escludono tra loro, anzi, vederli uno dopo l’altro dà l’impressione che quella storia comune si possa raccontare in tanti modi. Entrambi i film mostrano il valore umano di quelle storie migratorie, le generazioni che le hanno messo in atto, i luoghi e i vissuti sempre più adattati al territorio toscano.
Pur non essendo un critico cinematografico, i film mi hanno dato diverse emozioni che cerco di raccontare, anche perché mi sembra importante che abbiano risonanza e raccontino, suggeriscano, commuovano.
Il film mette al centro il lavoro dei pastori sardi nel territorio senese. Qui i nuovi spazi sembrano avere prodotto una dimensione molto più terrestre, ambientale, totale, legata non soltanto al mondo animale. Siamo nelle Crete senesi: dal drone abbiamo visioni di un mare verde d’erbe con pecore che pascolano in grandi spazi mentre in lontananza si intravede il profilo di Siena. E poi tramonti, albe caliginose, visioni notturne del lavoro con i trattori, interni di mungitrici meccaniche, immagini sempre accompagnate dai costanti belati delle pecore. È come raccontare il nuovo paesaggio sonoro e d’orizzonte che plasma la nuova vita di questi pastori intraprendenti e duttili ma sempre legati a una memoria profonda che portano in un nuovo spazio del quale diventano umanamente complementari.
Il paesaggio delle Crete, abbandonato a causa della fine della mezzadria, ha ripreso nuova vita grazie alla presenza dei pastori sardi. Mi piace segnalare per quanto riguarda i caratteri della biodiversità, le fioriture naturali, le articolazioni tra colli e inserti boscosi e di macchia, documentati nel pregevole lavoro fotografico di Marcello Stefanini dal titolo Le Crete senesi al tempo della semina [5]. Il paesaggio delle Crete è scabro ma unico ed è stato celebrato dal mondo dell’arte e della poesia.
Il regista Mura connette il nuovo mondo dei pastori con frammenti di vecchi film superotto del passato tradizionale sardo e con la messa in evidenza di vecchie foto dei nuovi protagonisti o dei loro cari. Le crete rappresentano la loro nuova patria in senso profondo e culturale ed evocano il sogno delle loro memorie profonde. Qui sono nati i loro figli che ormai hanno pronunce toscane e qui hanno prodotto agnelli di tipo nuovo sani e pasciuti. Il film di Mura mi fa pensare alle poesie di Mario Luzi su queste terre
Passata Siena, passato il ponte d’Arbia,
è lei, terra di luce
che sempre, anche lontano,
inseparabilmente mi accompagna.
– Grazie, matria,
per questi tuoi bruciati
saliscendi, per questi
aspri Celimonti
a cui, calati al fondo,
d’un balzo ci levi alti,
per questo nostro errare nel tuo grembo
sbattuti tra materia
e luce, tra natura e sogno,
La strada tortuosa che da Siena conduce all’Orcia
traverso il mare mosso
di crete dilavate
che mettono di marzo una peluria verde
è una strada fuori del tempo, una strada aperta
e punta con le sue giravolte al cuore dell’enigma.
La terra senza dolcezza d’alberi, la terra arida
che rompe sotto Siena il suo mareggiare morto
e incresta in lontananza
(inganno o verità,
miraggio o evidenza –
insidia a lungo la mente
una tortura di dilemma) sperdute torri, sperdute rocche
è un luogo non posseduto dal senso, una plaga diversa
che lascia transitare i pensieri
però non li trattiene, non opera come ricordo, ma come ansia.
È questo il messaggio che sento nel film. Le Crete sono ora diventate un luogo turistico altamente qualificato. I pastori ci devono fare i conti. Talora ricevono critiche riguardo ai loro capannoni che deturperebbero il paesaggio ‘artistico’ delle Crete. Ma il film racconta anche come i sardi sono stati all’altezza di un paesaggio così straordinario, perché lo hanno interpretato e reso meno solitario ed enigmatico. Anche loro se ne sono innamorati e mostrano con la loro dura vita quotidiana l’amore per il paesaggio che li ospita. Nella risistemazione delle case coloniche toscane sono stati coerenti per non stravolgerne l’architettura. Ma sono stati anche all’altezza della grande storia urbana della città di Siena il cui profilo vedono dai loro poderi.
Cosa sarebbe stato del pecorino senese senza i pastori sardi? Siena, schiva e raccolta, ha accettato loro – come noi docenti – venuti dalla Sardegna e come tanti venuti da diversi mondi, senza molto scomporsi o ringraziare, ma con la segreta consapevolezza che siamo stati utili. Nel film si trova il senso della bellezza non solo dell’antico ma anche del nuovo con la visione dei luoghi notturni del lavoro, delle tracce che i mezzi moderni lasciano sulla terra, del nitore dei caseifici, della mungitura automatica. Le poderose macchine che realizzano le grandi balle di fieno con l’intervento di una sola persona non sono solo macchine ma produttrici di nuove modalità sociali nel mondo pastorale. Le balle di fieno rotonde, prodotte meccanicamente, hanno mutato l’estetica del paesaggio affascinando pittori e scultori. E come nel racconto iniziale di Antonio Chironi, le immagini dall’alto mostrano le greggi che pascolano felici in questi ampi spazi verdeggianti di piano colle.
Poi ci sono i singoli racconti di partenza e di arrivo: il disagio iniziale, il lento ma progressivo successo, ma anche le ostilità dell’inizio che pian piano si risolvono in accoglienza, il cambio di generazione e i mutamenti delle ragioni aziendali per adattarsi alle circostanze. E ancora tanti agnelli, alcuni allattati col biberon, tante pecore che esibiscono le grandi mammelle negli incontri di selezione. Vi sono i racconti, come lunghe storie narrate al canto del focolare, delle greggi minacciate e sbranate dai lupi. Le pecore hanno una straordinaria capacità di adattamento alla quale gli uomini si sono appoggiati per millenni. Mi piace segnalare il film di Anna Kauber dal titolo In questo mondo che parla delle donne pastore. Questo film si affianca al racconto dei pastori sardi per la vicinanza che si instaura tra uomo e animale e per il forte rispetto verso l’animale e l’ambiente. Le Crete stesse sono legate alle erbe che le pecore consumano, se questo ciclo dovesse interrompersi il paesaggio ne sarebbe alterato. La forte presenza dei belati nel paesaggio sonoro del film ci dice che le protagoniste di un nucleo essenziale di storia umana che qui si è ripetuto sono le pecore.
Il regista Irio Usceddu organizza per temi il suo contributo filmico. Nelle immagini iniziali vediamo il mare, con i traghetti che dalla Sardegna portano al continente, e ascoltiamo contemporaneamente i racconti di sgomento, di paura, di speranza. Spesso chi racconta ha fatto il viaggio da bambino, strappato alla sua casa e alle sue amicizie, trauma ancora vivo nel lungo periodo.
II mare e quindi l’arrivo. Come nelle parole di Chironi, l’arrivo è stato disorientante: case abbondante, sentieri appena tracciati, mancanza di acqua e di luce. La precaria passata “gloria” della mezzadria toscana è ormai finita. Ci vorranno anni per risistemare le case, per avere la luce e l’acqua in casa. Alcuni parlano di un’attesa di cinque anni.
Il film indaga, oltre che sul senese, anche in altri mondi: in provincia di Arezzo, in Umbria, in Abruzzo, mostrando anche altri modelli familiari. Il modello più frequente è famiglio-centrico. I fondatori sono arrivati insieme e sono cresciuti insieme, e le generazioni si sono susseguite nello stesso spazio, Molti della prima generazione non ci sono più ma ci sono i figli, oggi padri, e i figli dei figli.
Viene poi presentato il caso di una coppia di sardi che si è stabilita sul territorio senza alcuna passata tradizione familiare. Si tratta di nuovi abitanti che hanno scelto di riabitare le zone interne. Vi è infine il caso di un sardo che ha sposato una donna nativa del territorio. Questi nuovi modelli sono destinati a crescere con le nuove generazioni e a costruire una nuova tradizione.
Il cuore del film di Pusceddu privilegia, al di là del lavoro di adattamento e di modernizzazione, gli spazi interni della casa dove avviene il racconto del ‘successo’ migratorio. Dominano le parole ’piano piano’. ‘Piano piano’ le case sono diventate abitabili, piano piano l’ostilità e il disagio dei bambini che a scuola venivano chiamati “sardegnoli” o “pecorai” si è attenuata e la meccanizzazione ha consentito lavori più agevoli. Nascono aziende moderne difficili da gestire ma capaci di restituire un certo successo sul piano economico in un contesto di riassetto ambientale e di biodiversità. La parte più intensa del film sta nel racconto di mogli e mariti, genitori e figli che descrivono la loro vita di imprenditrici e imprenditori, le attività delle loro aziende, le scelte compiute, a volte, i cambiamenti di conduzione (da pecore a suini e poi di nuovo a pecore) per cercare di adeguarsi al marcato. E poi la nascita di agriturismi e di ristoranti, le scissioni di nuclei parentali per creare nuove imprese. Tutto attraverso il passaggio delle generazioni con morti e nascite ma con la certezza dei figli che hanno investito il loro futuro in queste aziende di un possibile continuo sviluppo.
I giovani parlano in sardo (varianti locali) con i loro genitori, e si apprestano a continuare a ibridare la storia toscana. Sono talora laureati in Agraria che mettono a frutto le competenze acquisite per la crescita dell’azienda mentre altri hanno invece preferito rinunciare a studiare. Giovani ragazze parlano dell’azienda pastorale come parte della loro vita. Se la sono trovata da subito, fin da bambine, ma poi l’hanno scelta con convinzione. Mi pare significativo riportare la frase di una ragazza che dice: la pastorizia non è una attività produttiva ma uno stile di vita. Nel film ci sono molte interviste a giovani. Mi pare importante sottolineare che non viene usato in modo esclusivo il termine pastori perché in effetti le aziende si definiscono a completa conduzione agropastorale. E questa è la natura profonda della trasformazione avvenuta. I dialoghi familiari tra le diverse generazioni sono il punto di forza del film di Pusceddu.
Trauma e nostalgia
Quando si parlava di andare in continente, forse per scaramanzia, forse per paura, forse perché il Mare non esiste in Barbagia, non si diceva mai che dovevamo “attraversare il mare”. Ancora oggi la pronuncia di queste parole mi impressiona e mi sembra un’impresa rischiosa e dall’esito incerto.
Attraversare il mare è come nascere una seconda volta. Si strappa il cordone ombelicale con la madre. Manca all’improvviso il nutrimento e manca l’ossigeno. Manca la sicurezza della terra ferma, granitica. Il battito del cuore che aumenta, un groppo alla gola che ti impedisce di respirare e… Non sai se riuscirai a fare ancora un respiro o se morirai lì, nel mezzo del mare.
Forse in tanti siamo morti in mezzo al mare, senza connottos ne attittos, con ancora nelle narici il profumo de su mudecciu e de sa murta , e nelle orecchie sos cantos de bidda nostra. L’uomo, il bambino, che si stacca dalla terraferma, dalle rocce di granito, che trattiene il respiro perché non sa nuotare, perché gli manca l’ossigeno… Cullato e sospinto dalle onde del mare, riprende a respirare e rinasce… avviandosi verso una nuova vita con un senso di lutto nel cuore, ancora non consapevole di essere orfano. E tutte le volte che ritorni riallacci il cordone ombelicale respirando a pieni polmoni ubriacando tutti i sensi …Nasci una volta ancora incredulo di essere vivo
La sera a volte mi prendeva la nostalgia e fuori, nel silenzio della campagna Toscana, mi soffermavo a guardare le stelle e la luna. Sdraiato sopra un muretto di mattoni, guardando la stessa luna e le stesse stelle, mi sembrava di essere a Sarule, sopra le lastre di granito rimaste ancora calde dal sole del giorno, di fronte alla fontana che mi ha visto nascere e che mi ha raccontato con il suo gorgoglio, le storie di tutti quelli che sono passati a bere l’ultimo sorso prima di partire [6].
Questo frammento della straordinaria prosa poetica di Graziano Cheri [7], poi trasformato in un monologo teatrale di grande forza, ci aiuta a pensare al ‘travaglio’ delle migrazioni. Esso è sotteso in tutti i racconti e i ritorni. La forza dei due film sta in questo sotteso senso di un altrove che vive ancora nel qui ed ora e che compare spesso nei discorsi.
Ho visto i due film in famiglia con le mie figlie e i miei nipoti. Tutti hanno apprezzato e a volte si sono commossi. L’attenzione che hanno dimostrato, soprattutto i nipoti ventenni, mi ha colpito. Mi sono fatto l’idea che Transumanze e Oltre il mare, aderendo alle storie migratorie, hanno una struttura narrativa tra le più classiche ovvero quella della fiaba e del romanzo.
È come risentire la storia di Giovannino senza paura che va lontano da casa a conoscere il mondo, vive tante avventure, ma riesce sempre a cavarsela, e alla fine grazie al suo coraggio libera il paese di Vattelapesca (nella versione di Calvino) dai suoi incubi e si insedia nel castello.
È anche la forma del romanzo moderno dove il protagonista partendo da una situazione di disagio si muove per affrontare il suo destino, e può essere sconfitto o vincitore, ma il suo racconto è pur sempre ‘la vita’.
Ma sono anche racconti di viaggio alla scoperta di nuove terre, racconti di colonizzazione di nuovi mondi. Essi partono dalla fine delle storie vissute e cioè dall’oggi quando, ormai tranquilli e realizzati, i protagonisti ricordano il loro passato come una narrazione. Ed è per questo che commuovono. Affrontano temi attualissimi che sarebbe utile affrontare anche in Sardegna. I film sono fatti anche per dire ai sardi dell’isola: anche noi siamo sardi seppure in continente, abbiamo fatto tante esperienze, e, se possibile, vorremmo essere di aiuto nella grande crisi che state vivendo
Ho sempre pensato che l’esperienza nel mondo delle diverse generazioni di sardi e dei loro vissuti in giro per il mondo dovrebbe essere conosciuta dagli abitanti di quest’isola spopolata che abita i nostri cuori e le nostre memorie.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Sergio Picchi e Antonio Chironi, Dalla Barbagia alle crete senesi. Memorie di Antonio Chironi, Cantagalli, 2015
[2] Piergiorgio Solinas, direzione di, Pastori sardi in provincia di Siena, Laboratorio etno-antropologico Università di Siena, voll 1, 2, 3, 1989
[3] Benedetto Meloni, a cura di, Migrazioni sarde in provincia di Siena
[4] Massimo Granchi, a cura, A chent’annos! Quarant’anni di storia del Circolo culturale sardo Peppino Mereu di Siena, Circolo sardo, 2023
[5] Marcello Stefanini, Le crete senesi nel tempo della semina, Feltrinelli, 1988
[6] Graziano Cheri, Transumanza di uomini, inedito
[7] Cheri rappresenta bene gli aspetti imprevedibili del mondo, si è occupato di ristorazione, di allevamento di suini e di ovini senza mai trascurare la passione per il teatro e la regia, e anzi maturando una ottima capacità di esprimersi anche nelle forme della cultura popolare toscana.
____________________________________________________________
Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.
_____________________________________________________________
