di Maurizio Tosco
Nel mentre che principio a lavorare alla stesura di questo articolo, come ogni anno da parecchi anni, a Campobello di Mazara, la presenza dei migranti stagionali, mano d’opera indispensabile per tutti noi coltivatori olivicoli per la raccolta della Nocellara della Valle del Belìce DOP, non ha ancora una programmazione stabile. Come ogni anno da parecchi anni, il sindaco della cittadina assieme ai suoi collaboratori cerca di fronteggiare le mille difficoltà della situazione. Quest’anno i “migranti economici”, arrivati puntualmente nella seconda metà di settembre per l’inizio della raccolta delle olive, hanno manifestato pacificamente per le vie di Campobello di Mazara per chiedere che venga ri-allestito il campo migranti all’interno dell’ex oleificio “Fontane d’oro”, che l’anno scorso anno era stato diretto dal comitato della Croce Rossa Italiana di Castelvetrano, su incarico della Regione Siciliana.
Piccolo è bello è il titolo che Ernst F. Schumacher detto “Fritz”, un economista, filosofo e scrittore tedesco, diede nel 1973 a un saggio a cavallo tra l’economia e l’ecologia, oggi più che mai veritiero [1], nel quale tra le tantissime considerazioni egli affermava che: «Siamo in rotta di collisione con l’ambiente e la natura che sono il capitale naturale che stiamo imprudentemente dissipando perché lo trattiamo come rendita, come qualcosa da noi stessi prodotto e che si può facilmente rimpiazzare; rotta che potremo cambiare soltanto se metteremo in discussione i fondamenti stessi di una cultura che non vuole conseguire equilibri stabili». La sua tesi era che «il compito più importante di ognuno di noi, vecchio o giovane che sia, potente o senza potere, ricco o povero, influente o no, consiste nell’abbandonare l’attuale linea di collisione. Questo perché parlare del futuro è utile solo se ci porta ad agire nel presente».
Sull’importanza della scala (dimensione) sulla stabilità dei progetti, l’economista giurista e politologo statunitense Leopold Kohr proponitore tra l’altro del “federalismo proporzionale”, caratterizzato dal protagonismo delle piccole comunità, secondo lui «le uniche in grado di esercitare un controllo sociale effettivo»; scriveva che:
«[…] le operazioni su piccola scala, non conta quanto esse siano, hanno minori probabilità di danneggiare l’ambiente naturale, per la semplice ragione che la loro forza individuale è piccola in relazione alla capacità di recupero della natura. C’è saggezza nel piccolo, non foss’altro perché piccola e irregolare è la conoscenza umana che si basa molto più sulla sperimentazione che sulla comprensione. I maggiori pericoli nascono invariabilmente dalla inesorabile applicazione su grande scala di conoscenze parziali, perché significa cercare di risolvere un problema trasferendolo in un’altra sfera, creando cioè un problema infinitamente più grande».
Nel 2000 la Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e del lavoro, pubblicava Sviluppo Sostenibile. Iniziative pratiche per i responsabili decisionali e le parti sociali [2]. Al paragrafo riguardante le Piccole e medie imprese (PMI) e lo sviluppo sostenibile si legge:
«[…] Dal punto di vista delle PMI il concetto di sostenibilità produttiva, in fase di mutamento, è destinato ad includere la piena responsabilità dell’impresa. […] Le aziende che intendono promuovere l’opzione sostenibile devono adoperarsi per sviluppare o modificare i loro prodotti, servizi e processi produttivi al fine di soddisfare le esigenze dei lavoratori, della comunità locale, della popolazione mondiale, delle generazioni future e dell’habitat naturale. Il mondo deve cominciare a ridefinire e a ricostruire la propria base produttiva. […] Le aziende sostenibili costituiranno il modello per il futuro. Lo stile di vita, la cultura aziendale e i centri urbani devono cambiare, così come le infrastrutture che li collegano. Un nuovo orientamento verso una produzione e un consumo basati su risorse locali ed ecosistemi ha il potenziale di cambiare il mondo. […] Le PMI sostenibili sono impegnate in un utilizzo efficace delle risorse rinnovabili e promuovono la partecipazione dei loro dipendenti, clienti e consumatori, nonché la trasparenza dei loro obiettivi e prassi. Alcune di queste PMI hanno optato per una strategia di tipo olistico, hanno scelto una tattica sistematica che abbraccia obiettivi di ordine ambientale, sociale ed economico e riconoscono chiaramente l’importanza dell’aggregato sociale cui appartengono. Le PMI sostenibili sono caratterizzate non tanto da concetti tradizionali come l’impatto ambientale, l’ottimizzazione ambientale o addirittura l’eco-efficienza, ma piuttosto da ideali tra cui la qualità della vita e del lavoro, la democrazia, la partecipazione, la solidarietà, l’equità, l’uguaglianza e la reciprocità».
Nomen omen: “Il nome è un presagio”, dicevano i latini, è mai è più vero come nell’aggettivo pratiche nel titolo di questa pubblicazione. In linea per altro con una considerazione sempre contenuta nel libro di Schumacher: «Un grammo di pratica è in genere più importante di una tonnellata di teoria».
Nel 2004 il Centro di Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione (CRESM) ha pubblicato uno studio intitolato Trinacria sviluppo. Un contributo per un sistema siciliano di sviluppo rurale integrato e sostenibile, nell’ambito del Progetto “Trinacria” (Fasc.94) del PON FSE “Assistenza Tecnica e Azioni di Sistema”. Questo studio è frutto di una analisi approfondita del fabbisogno formativo in Sicilia, anche nella Valle del Belìce, e una proposta di formazione continua da applicare a quello che viene definito “Sviluppo locale integrato e sostenibile”. La ricerca è puntuale ma soprattutto utile e pratica, dunque in sintonia con le indicazioni della Fondazione Europea precedenti, perché nella premessa del capitolo “Come costruire i tre livelli dello Sviluppo rurale integrato e sostenibile” suggerisce di «[…] dare vita a un vero e proprio progetto regionale articolato in un cantiere regionale, nove cantieri provinciali, un cantiere per ogni comprensorio rurale».
Il caso di studio
Ci siamo imbattuti nell’azienda agricola ‘Capo Granitola di Salvatore Scibetta’ nella Contrada Pozzitello nel comune di Campobello di Mazara, condotta da Alessandro Salvatore Scibetta e sua moglie Laura Angileri. Li abbiamo incontrati e intervistati.
Qual è il vostro bagaglio culturale e personale?
«Sono un professore di latino e greco che insegna part-time proprio per dedicarsi alla attività aziendale. Il mio bagaglio culturale è umanistico: ho studiato letteratura classica e linguistica all’università di Palermo, ed ho una formazione da autodidatta nel campo agronomico, in particolare nell’agro-ecologia che è una inter-disciplina tra agronomia ed ecologia. Nel mio bagaglio personale c’è quello dell’esperienza nella Neo-ruralità legata ai movimenti di ritorno alla terra, caratterizzata dalle esperienze personali mie e di mia moglie Laura, di vita in campagna. Il suo bagaglio culturale è quello di una scienziata naturale che ha studiato a Palermo nel campo della botanica e dell’ecologia, e come esperienza personale condivide con me questo percorso di Neo-ruralità che è iniziato nel 2009 e che è suddiviso in una prima fase, dal 2009 al 2011, in cui siamo stati in stretto contatto con diverse realtà in Sicilia di esperienze di vita comunitaria in campagna; a cui segue nel 2011 un’esperienza familiare di auto-sostentamento in campagna sino alla decisione di avviare l’azienda agricola».
Cosa vi ha spinto ad avviare l’azienda agricola?
«La nostra azienda nasce nel 2013 in seguito all’intenzione di dare vita ad un progetto familiare e contadino, ispirato dal modello di vita rurale che si basa appunto su una etica legata principalmente ad uno stile rispettoso della sostenibilità ambientale e sociale. In partenza questi erano i presupposti: sganciarci da un modello di vita legato ai mestieri per i quali io e mia moglie ci eravamo formati, e provare a giustificare anche il nostro vivere in campagna. In realtà già qualche anno prima avevamo deciso di intraprendere il cosiddetto “Downshifting” ovvero il passaggio ad un regime di vita a basso consumo. In quegli anni abbiamo capito che era necessario fondare la nostra presenza in campagna su una base politica e non solo etica, dunque si trattava non soltanto di attuare una nostra scelta di una vita diversa più a contatto con la natura, ma anche di sperimentare un’incidenza sul contesto sociale, e in qualche maniera di rappresentare un modello di insediamento rurale fondato sul filone del pensiero Neo-rurale, senza perdere di vista l’aspetto imprenditoriale che è imprescindibile per qualsiasi forma di attività economicamente sostenibile.
Il passaggio determinante è stato quando abbiamo deciso di formalizzare un’azienda agricola, quindi di passare alla decisione che tutto ciò avrebbe avuto un senso se fossimo riusciti ad incidere alla custodia del territorio in modo significativo per estensione: oltre la dimensione del piccolo orto o del giardino di casa, e in termini di influenza rispetto al prodotto che volevamo immettere nel mercato con un metodo di vendita che andasse oltre la vendita diretta o i mercatini del contadino. Qualcosa che andasse a influenzare più profondamente nel tessuto rurale della Sicilia».
Quale tipo di coltivazione avete adottato?
«L’azienda nasce in biologico ma con un protocollo interno di produzione che va molto oltre quello ufficiale per essere riconosciuti “biologici”. Per questo noi operiamo due scelte: quella delle colture, che si basa sulla migliore corrispondenza agro-ecologica rispetto al contesto nel quale ci inseriamo. L’altra scelta riguarda le tecniche agronomiche che mirano a ottenere la produzione col minimo impatto possibile sull’ecosistema, inserendo la pratica agronomica nei meccanismi biologici di fertilità naturale del suolo mediante pratiche di osservazione che sono sia agronomiche sia empiriche, per verificare quella che meglio risponde alla finalità di coniugare la produzione aziendale ai meccanismi di mantenimento naturale della fertilità del suolo».
Come attuate queste scelte?
«Negli anni abbiamo individuato quelle colture che in regime di rotazione ci garantiscono la fertilità del suolo in modo “selvatico”, vale a dire lasciando la risposta naturale dei terreni aziendali senza effettuarvi lavorazioni. Questo perché il terreno esprime un certo tipo di vegetazione all’interno della quale noi inseriamo le colture che esso supporterà con il minimo input da parte del produttore, dunque impattando quel minimo che serva a garantire alla nostra coltura il vantaggio necessario perché vada in produzione. Questo orientamento ci ha portato a formulare il principio fondamentale che ispira le nostre pratiche agronomiche: far produrre ogni appezzamento una volta sola all’anno, dando al terreno almeno sei mesi nei quali riposare con inerbimento spontaneo. Infatti abbiamo osservato che all’inizio dell’inverno, tra le erbe spontanee cresciute dopo le piogge autunnali, si possono riconoscere tra le cinque e le dieci specie di leguminose selvatiche che sono quelle che garantiscono la fertilità del suolo senza che ci sia stato bisogno di seminare il misto di sulla o altre leguminose».
Dopo quanto tempo una coltura ritorna sullo stesso campo?
«Una coltura non ritorna sullo stesso appezzamento se non dopo tre anni. Abbiamo ormai maturato un’esperienza decennale su questo sistema di coltivazione, e ci siamo resi conto che ci attestiamo su una resa che rimane stabile nel corso del tempo; una resa che non è alta ma è quella che preferiamo perché ci garantisce una fertilità del terreno sul periodo lungo. Così facendo, il nostro intervento è davvero “Sostenibile” perché assicura la fertilità del suolo per le generazioni a venire. In più, la necessità di coltivare una volta sola l’anno negli appezzamenti è anche dettata dall’osservazione del microclima che caratterizza questo lembo estremo della Sicilia sud occidentale, per il quale le colture invernali sono molto più difficili che quelle primaverili estive, perché necessitano di una maggiore protezione nei confronti degli agenti atmosferici tra i quali il più temibile per noi è il vento di scirocco. Un vento che trasporta all’interno della costa, almeno sino al primo chilometro, una quantità di salsedine che esclude dalla scelta degli ortaggi da piantare un buon 80% tra quelli coltivati abitualmente in un’azienda agricola. Le colture estive sono la cipolla, l’aglio, il topinambur e la patata dolce».
Perché coltivate il sesamo?
«Il sesamo è una coltura che si inserisce perfettamente nella rotazione con esse. Lo abbiamo scelto non soltanto per la rispondenza agro-ecologica: infatti esso ha una rusticità tale che gli permette di essere coltivato in Sicilia pressoché ovunque, ma si aggiunge il fatto che esso rappresenta per noi un vantaggio doppio: uno di tipo colturale e l’altro di tipo agronomico. Quello agronomico dipende dalla sua caratteristica di essere una coltura da rinnovo che richiede poche cure. Infatti l’apparato radicale del sesamo gli permette di raggiungere le falde in profondità e la sua bassa esigenza in termini di asportazione di azoto dal terreno, è ideale in un sistema di rotazione prima di impiantare una coltura con maggiori esigenze nutritive. Dunque per noi rappresenta l’optimum perché dopo aver coltivato la cipolla, per poter ritornare sullo stesso appezzamento, con la patata, il topinambur o l’aglio, l’intervento del sesamo consente di rivitalizzare il terreno nel modo migliore. Di conseguenza offriamo e incidiamo in una piccolissima fetta di mercato producendo un prodotto di alta qualità ma con un approccio razionale quanto basta per garantire le quantità sufficienti al fabbisogno commerciale. Con questo approccio i terreni stanno bene, la fertilità è assicurata, quindi può rappresentare un modello che può essere riprodotto anche per la sua efficacia economica: infatti produce il reddito necessario per mantenere l’azienda».
Quali sono le fasi di coltivazione del sesamo?
«Il processo di coltivazione e produzione del sesamo inizia in primavera con un passaggio di Tiller per la preparazione del terreno. Poi lo si lascia riposare, e nella prima decade di giugno si semina direttamente su esso. Quindi si lascia germinare il sesamo dando acqua, e in ragione del tipo di semina si esegue eventualmente una sarchiatura per dare il vantaggio alla pianta sulle erbe infestanti. La fioritura avviene intorno a fine luglio; sta in fioritura tutto agosto, e a settembre va maturando: i fiori si auto-impollinano trasformandosi in baccelli. Tra la fine di settembre e i primi di ottobre la pianta inizia a seccare, quindi incomincia la raccolta. Viene tagliata in campo, disposta in andane sul terreno, se ne fanno covoni che vengono legati e portati in una serra d’essiccazione. Qui vengono appesi all’ingiù sopra una rete che serve per la raccolta dei semi rilasciati naturalmente dalla pianta mentre secca. Segue la lavorazione di battitura dei covoni che vengono rimossi dalla loro posizione, e li si batte con un bastone per far cadere il seme nelle reti. Il covone vene portato fuori dall’essiccatoio e si raccoglie il seme in mucchi per essere disposto su grandi setacci, con maglie della larghezza di due millimetri, per separarlo dalle foglie e dai baccelli secchi. Infine si procede con una ‘ventilata’, cioè si cerca di pulire il prodotto dalla polvere. Infine lo si insacca per spedirlo presso un pulitore, il quale con degli impianti di pulitura industriale lo porta ad un grado di pulizia del 99,9%».
Quali mezzi di produzione agricoli impiegate?
«In questo approccio è fondamentale impiegare una quantità maggiore di mano d’opera rispetto alla pratica aziendale nella quale si impiega quasi esclusivamente la meccanizzazione. Dal nostro punto di vista pur lavorando su una produzione di una certa quantità, la mano d’opera è un componente fondamentale per la tenuta dell’alta qualità del prodotto. Faccio un esempio: per garantirci la piena rispondenza agro-ecologica della coltura e un’integrazione della coltura con quello che i nostri terreni esprimono, abbiamo la necessità di far convivere le colture con le piante infestanti, dando ovviamente il vantaggio alla nostra coltura sulle infestanti nelle fasi appena successive al trapianto, in modo tale che sia curata la protezione sufficiente per il suo attecchimento. Per raggiungere questo scopo evitiamo sia di meccanizzare le fasi di piantumazione sia di stendere la pacciamatura che è una pratica agronomica adottata per non eseguire le lavorazioni manuali di sarchiatura e di zappa tra i filari. Noi, appunto, lo evitiamo perché vogliamo che la coltura competa con le erbe infestanti perché è in questa competizione che la pianta sviluppa delle resistenze come non farebbe se fosse protetta. Questo determina che quell’apporto di mano d’opera che serve per evitare la pacciamatura si integra con il nostro approccio agronomico ed agro-ecologico apportando un valore aggiunto sia in termini di qualità al nostro prodotto sia anche in termini sociali umani. Infatti noi non cerchiamo di abbattere il costo del lavoro umano, favorendo quell’apporto meccanizzato che la diminuirebbe, bensì cerchiamo di tenere il costo aziendale della mano d’opera più elevato evitando altri costi secondari, come anche quello della posa meccanica della pacciamatura. Tutto ciò per avvalorare la nostra filosofia aziendale che è in buona parte anche quella di offrire più lavoro alla mano d’opera».
Come si inseriscono i lavoratori migranti stranieri in questo processo produttivo e in che percentuale?
«In questo processo è nata l’esigenza di impiegare mano d’opera straniera, in particolare dei migranti nordafricani e asiatici rilevati presso i centri di accoglienza del luogo che vengono in questa zona ogni anno, data la difficoltà cronica di reperire mano d’opera locale; difficoltà che c’è sempre stata sin da quando noi lavoriamo qui, per i motivi generazionali e sociali ormai noti. La mano d’opera dei migranti è in primis una necessità ma diventa anche un valore aggiunto per noi: da un lato con i lavoratori si è entrati nella dimensione di uno scambio culturale significativo in una piccola realtà aziendale come la nostra in cui il rapporto tra il datore di lavoro e lavoratore è molto stretto e la relazione umana più profonda; dall’altro acquista più forza il nostro intento etico e politico nel senso che il processo di integrazione dei migranti all’interno della società viene favorito dal passaggio all’assunzione nell’azienda perché il contratto di lavoro e buste paga regolari consentono loro di entrare e stare meglio dentro il processo dell’accoglienza. Tutto ciò anche nell’ottica di garantirsi tramite le buste paga e il contratto di lavoro periodi di permanenza in Italia con permessi di soggiorno sempre più lunghi che possano consentire loro di inserirsi realmente nel tessuto sociale. Negli anni questa pratica ha funzionato sempre di più, con variazioni tra il 70 e l’80% di presenza tra i lavoratori migranti e quelli locali assunti».
Come avviene lo scambio dei “saperi” tra voi e i lavoratori stranieri?
«Quando un lavoratore straniero entra a far parte della nostra azienda, gli trasferiamo i concetti necessari per l’apprendimento delle nostre tecniche agronomiche. Capita però, soprattutto per la patata dolce e il sesamo, che le tecniche di coltivazione siano le stesse praticate dai lavoratori migranti nei loro Paesi d’origine. Infatti sono colture molto diffuse in Bangladesh, da dove provengono la maggior parte dei nostri lavoratori. La dinamica di questo scambio di conoscenze è interessante perché alcune tecniche di piantumazione e di cura delle piante sono state condivise in termini di apporto migliorativo da parte loro e per noi è stato importante anche nei termini di mutuo apprendimento delle tecniche di coltura più “contadine” che si praticano in quelle parti del pianeta. In questo confronto entrambi ci siamo arricchiti reciprocamente con l’apprendimento di saperi ed esperienze pratiche che in un rapporto di mera prestazione di mano d’opera subordinata sarebbero rimasti ignorati, se non avessimo coinvolto i lavoratori migranti nella nostra ottica e filosofia aziendale. Un modo di lavorare e di stare in campagna che offre loro anche la possibilità di avere una immagine dell’agricoltura siciliana diversa da quella che si erano fatta nelle loro esperienze precedenti, tant’è che molti di loro hanno affermato di aver appreso che si può praticare un’agricoltura diversa rispetto a quella che avevano conosciuto presso altre aziende locali. L’effetto interessante è stato osservare nel turn over naturale delle assunzioni in azienda, come questi lavoratori fossero in grado di istruire autonomamente i nuovi assunti trasferendo le tecniche e i contenuti specifici del nostro lavoro aziendale».
Non pensate che oggi, alle soglie della cosiddetta “agricoltura 4.0”, l’agricoltura che praticate possa sembrare anacronistica?
«In questo spartiacque tra l’agricoltura meccanizzata e quella “di precisione”, noi rischiamo, ragionando sul primato della mano d’opera sulla meccanizzazione, di essere additati come dei luddisti dell’agricoltura, tanto più che già la meccanizzazione è prossima a essere superata dall’automazione. Ma vorrei sottolineare il fatto che adesso non si tratta più di avere dei macchinari che facciano lavorare meno gli esseri umani. Si tratta di automatizzare tutto il processo produttivo agricolo anche con l’introduzione dell’intelligenza artificiale in campo agronomico. Noi restiamo saldi nel principio base: se è vero che agricoltura è cultura; se è vero che la cultura umana pone le sue radici nell’agricoltura, nel senso che le civiltà umane si sono sviluppate proprio perché sono delle civiltà agricole e rurali nella cui complessità entrano in gioco anche i legami ancestrali di appartenenza e di affezione a quel luogo, perdiamo quel legame tra uomo e suolo che ha fatto dell’uomo un uomo culturale originando la cultura che nasce proprio quando l’essere umano si è radicato con il territorio, entra in rapporto col suolo, entra in rapporto con i processi stagionali, con la fertilità del suolo, quindi comincia a creare sovrastrutture che gli permettano di vivere in quel suolo. Se mettiamo l’intelligenza artificiale tra l’essere umano e il suolo, forse rischiamo di perdere il valore precipuo ambientale dell’area geografica dove insiste quel suolo. L’intelligenza artificiale non potrà mai essere l’ecista che decideva dove collocare la città. Tutto ciò è un rischio. Potrebbe essere la premessa per traghettarci verso una nuova forma di transumanesimo, non più l’umanesimo per come lo abbiamo sempre vissuto, per andare verso una sorta di simbiosi con la macchina della quale non potremmo più fare a meno allo stesso modo di altre macchine che oggi ci sono indispensabili e nel frattempo continueremmo a creare disoccupazione quindi migrazione».
Come considerate la presenza dei lavoratori migranti nel vostro territorio e in quello italiano?
«Nell’ottica ora dell’accoglienza del fenomeno migratorio che non è un problema bensì un fenomeno che riguarda tutta l’umanità, ora in quella di presidiare il territorio che è sempre più abbandonato, soprattutto le cosiddette aree interne, con i conseguenti disastri sotto la pressione del cambiamento climatico, in questa prospettiva si risponde alla necessità di rivitalizzare grandi porzioni del territorio che per adesso versano nell’abbandono; di fronteggiare il fenomeno della desertificazione; di contribuire ad arginare l’inquinamento atmosferico; e di offrire orizzonti di vita e di dignità umana a questa massa di esseri umani costretti ad abbandonare le loro terre. La prospettiva di un’agricoltura diffusa costituita da piccoli appezzamenti e piccole aziende potrebbe essere una strada percorribile. Una strada che vale la pena di tentare di percorrere intanto anche a partire dalla piccola scala. Già riuscirci come azienda singola è un risultato. Riuscirci mettendo in rete più aziende che lavorano in questo modo sarebbe un risultato ottimale. Infine riuscire ad organizzare un comprensorio agrario minimo impostato su questa base, sarebbe ancora più proficuo. Devo dire che si tratterebbe di un esperimento che è in qualche modo in atto nelle nostre campagne, proprio perché la mano d’opera stagionale che impieghiamo in agricoltura nel territorio agricolo compreso tra Campobello di Mazara e Castelvetrano, è mano d’opera costituita da migranti. In qualche modo se pensiamo alla “Cementeria”, il ghetto dei migranti nel territorio tra Campobello di Mazara e Castelvetrano smantellato recentemente, non attuare questo esperimento è un’occasione mancata perché il tessuto aziendale del nostro territorio è già organizzato essendo costituito da aziende piccole. Questa è la direzione verso la quale si dovrebbe andare, almeno per l’agricoltura siciliana, fin quando si vorrà far vivere l’agricoltura italiana in questo regime di piccola e media impresa, sicuramente nel meridione d’Italia».
Com’è dunque la vostra esperienza?
«La nostra esperienza è stata sempre positiva. Ritengo che la piccola azienda e il piccolo contesto consentono questo rapporto più umano. Penso che l’ideale nel nostro territorio sarebbe quello di un’agricoltura più diffusa: tante piccole e medie aziende che in un’ottica di rete e di collaborazione possano arrivare ad offrire quei quantitativi di prodotto che servono anche per una distribuzione organizzata provenienti da un’agricoltura che tenga l’occhio sulla questione etica, sociale e culturale in generale perché se si fa agricoltura si fa cultura. L’importante sarebbe fornire un modello soprattutto ai giovani imprenditori; cioè fare in modo, e anche questo è un obiettivo che noi abbiamo avuto negli anni, che l’idea di gestire una piccola azienda agricola abbia un appeal per le nuove generazioni. Perché sino ad ora non è stato così e noi abbiamo un tessuto imprenditoriale agricolo in mano a una generazione che ormai sta per esaurire le sue energie e non è riuscita a mettere in moto quei processi di ricambio generazionale fondamentali per tenere n vita gli appezzamenti di terreno e quindi fronteggiare la tendenza al loro abbandono. Andrebbe dunque condotta questa sperimentazione ampliando il raggio anche al fare agricoltura. Penso che alla base di tutto ciò dovrebbe esserci un programma politico, fondamentale unitamente alla canalizzazione delle energie all’interno della società in modo tale da fare entrare in dialogo questo progetto di vita e di lavoro con le aspirazioni delle nuove generazioni».
Conclusione
Un’azione valida e fattibile proprio perché di scala piccola, potrebbe essere quella di intraprendere una sperimentazione territoriale, dunque “sul campo”, facendo di Campobello di Mazara il Primo Cantiere rurale comprensoriale permanente per l’integrazione e la formazione professionale agricola dei migranti lavoratori nella Valle del Belìce, per creare un sistema pratico, piccolo e bello, per organizzare la risposta alla necessità della mano d’opera dei migranti stagionali e alla loro ospitalità. Per il decisore politico questa sarebbe una azione di politica agricola territoriale “sostenibile” perché ri-userebbe studi e lavori già elaborati nel contesto regionale, nazionale e comunitario, ancora utilizzabili con gli opportuni aggiornamenti alle condizioni odierne nella Valle del Belìce. Un altro vantaggio sarebbe la sua “praticità” proprio per il fatto che essi esistono già, quindi non dovrebbero essere commissionati. Dunque comporterebbe tempi di attuazione molto brevi e un piccolo impiego di risorse per supportare gli enti, istituti ed uffici amministrativi già esistenti ed operativi quali tra i primi per il caso nostro: l’Ufficio Speciale regionale per l’Immigrazione, la Prefettura di Trapani, i Comuni di Campobello di Mazara, di Castelvetrano e di tutta la valle del Belìce; il CRESM, la Croce Rossa Italiana, la Fondazione San Vito della Caritas diocesana di Mazara del Vallo; in modo da unire tutte le loro notevoli competenze, energie ed esperienze, insieme a quelle delle tante associazioni che nel corso degli anni si sono impegnate attivamente per dare ospitalità dignitosa ai migranti lavoratori.
Negli anni a venire, dal frutto esperienziale che darebbe questo Cantiere rurale si potrebbe ricavare un modello sostenibile per il presidio ambientale ed il ri-lancio economico e sociale delle aree rurali del Sud Italia, soprattutto quelle cosiddette “interne” afflitte dallo spopolamento e dall’abbandono, la cui vocazione produttiva e ambientale è caratterizzata storicamente da aziende piccole che contraddistinguono la bellezza del paesaggio e la qualità del cibo italiani sempre più oggetto di interesse da parte degli operatori del settore alimentare di tutto il mondo.
Nello specifico, la conferma recentissima di questo interesse internazionale per il prodotto della Valle del Belìce, è stata la presentazione in agosto, a Castelvetrano, del “Club degli agricoltori della Valle del Belìce” alla presenza degli assessori regionali all’agricoltura e alla formazione, dei sindaci della Valle del Belìce, dei coltivatori e dei produttori locali ma anche internazionali quali Howard Schultz, il fondatore, presidente e amministratore delegato e Michelle Burns, vice presidente esecutivo Global coffee, social impact e sustainability di Starbucks, la catena mondiale di caffetterie, i quali guardano con attenzione alla Valle del Belìce per “importare” l’esperienza del Farmer Support Centers che Starbucks ha intrapreso nel 2004 in Costa Rica con i coltivatori di caffè. Una filosofia di economia “open source” che potrebbe aiutare gli agricoltori della Valle del Belìce a migliorare sia la qualità sia la redditività dei loro raccolti, e si attua lavorando con essi sul campo con metodi di coltivazione tradizionali, supportando anche le cooperative e i fornitori. Economia per la quale il contributo dei lavoratori migranti è vitale.
Post scriptum
Per dovere di cronaca (18 ottobre), va precisato che è stata diffusa la notizia che il dipartimento regionale di Protezione civile ha stanziato la somma di 60 mila euro al Comune di Campobello di Mazara per l’allestimento del campo per migranti all’interno dell’ex oleificio “Fontane d’oro”. Il termine per la presentazione delle offerte alla gara d’appalto scadrà il 21 ottobre. Dunque le somme stanziate saranno utilizzate quando la campagna olivicola sarà conclusa definitivamente e i migranti saranno andati altrove in cerca di altro lavoro.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] E.F. Schumacher, Piccolo è bello, 1978, Arnoldo Mondadori Milano.
[2] Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, Sviluppo Sostenibile, Iniziative pratiche per i responsabili decisionali e le parti sociali, 2000, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee Lussemburgo ISBN 92-828-6165-1.
[3] Centro di Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione (CRESM) a cura di Lorenzo Barbera, Trinacria sviluppo. Un contributo per un sistema siciliano di sviluppo rurale integrato e sostenibile, 2004, Fashion Graphic Gibellina.
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Maurizio Tosco è un architetto specializzato in urbanistica e pianificazione territoriale, e coltivatore olivicolo. Dopo la laurea ha conseguito il titolo di Tecnico del Territorio esperto di rilevamento e rappresentazione dell’ambiente e del territorio; con specifico riferimento alle tecniche e metodiche di interpretazione, restituzione, rappresentazione dei dati territoriali, e organizzazione dei Sistemi Informativi Territoriali. Alla Facoltà di architettura dell’Università di Palermo è stato assistente alla Cattedra di Sociologia urbana, e Cultore presso le Cattedre di Geografia urbana e Urbanistica I. Nella veste di borsista ha collaborato alla ricerca “Il problema del fronte a mare della città di Palermo” sul Waterfront della città. Per l’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) è stato componente della Commissione nazionale di studio sulle “Politiche Comunitarie Integrazione Europea”. Per il Comune di Palermo nella veste di consulente ha collaborato alla redazione del Piano urbano dei Servizi; inoltre ha condotto il primo studio sulla presenza dei migranti nella città di Palermo, La domanda marginale del mercato abitativo nel sistema residenziale di Palermo, per la Variante al Piano Regolatore Generale Comunale. Nella qualità di socio della Frank Lloyd Wright Foundation e dell’IFMA – International Forum Mensch und Architektur, ha condotto e partecipato a seminari sull’architettura organica vivente e sul pensiero dei gruppi Bioregionalisti statunitensi: Sonoran Permaculture Service Incorporated, Green City Program c/o Planet Drum, The Bioregional Project – New Life Farm; ed anche alla Prima Conferenza Mondiale sulla Scienza della Pianificazione. Nella veste di divulgatore e studioso ha scritto articoli e pubblicazioni sul tema degli Ecovillaggi, sul fenomeno migratorio africano, sulla Permacultura e la transizione ecologica, sui rifiuti e la bonifica dei siti contaminati. Insieme al dottor Bernardo Tosco ha elaborato Gocce dal Mediterraneo, Proposta di un Progetto per l’accoglienza e l’integrazione dei profughi migranti e la ripresa dell’economia e del territorio della Valle del Belìce. Svolge la libera professione occupandosi di consulenza e progettazione nei settori della diagnostica edile, manutenzione e restauro degli edifici, degrado e consolidamento delle strutture di cemento armato e muratura, della conduzione della commessa e del cantiere edilizi.
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