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Pietà l’è morta! La speranza e il rigetto

ph. La presse

ph. La Presse

di Luigi M. Lombardi Satriani

La sfida del mondo contemporaneo, magma prismatico dalle innumerevoli sfaccettature, è data dalle migrazioni di massa. Intere popolazioni si spostano dai loro Paesi, devastati dalla guerra, dall’insopportabilità della esistenza, nel tentativo di raggiungere una diversa società, quasi sempre in Europa, alla ricerca di una vita più clemente, quando non della mera sopravvivenza. Viaggio che spesso si conclude tragicamente: il Mediterraneo, da mare nostrum – culla di antiche civiltà – a mare monstrum, gigantesca tomba d’acqua, per centinaia di migliaia di migranti – compresi vecchi, donne, bambini –, vittime innocenti (ma ogni vittima innocente lo è, direi per statuto ontologico) della logica della violenza, che ha ottenebrato le menti di governanti e mercanti, tacitando qualsiasi possibile ragione del cuore e soffocando qualsiasi sentimento di pietà.

Pietà l’è morta, recitava un antico canto partigiano; ancora oggi possiamo ripetere, angosciati e sgomenti, Pietà l’è morta, mentre assistiamo, relativamente indifferenti o soltanto genericamente turbati, a tanta gigantesca ecatombe. Papa Francesco ha innumeri volte richiamato questa povertà spirituale, che non ha niente a che fare con la povertà di spirito auspicata dai Vangeli, essendo la prima risultato di un percorso di santità, mentre questa è sinonimo di aridità.

Molte volte la temuta minaccia da parte dei migranti alle nostre esistenze e alle nostre pur precarie sicurezze induce a vere e proprie forme di razzismo, esplicito e, ancora più spesso, implicito. Significativa la ricorrente espressione: “io non sono razzista, ma…”, dove la prima frase funge da copertura di quella decisamente razzista che viene fatta seguire, “ma…”.

La cronaca quotidiana ci fornisce con tragica puntualità immagini di speranze naufragate sulle nostre sponde, che si popolano dei cadaveri di quanti hanno creduto di trovare nella nostra terra o attraverso essa una vita più sopportabile, meno intrisa di violenza e crudeltà. La realtà infrange tali speranze e a volte, quando le immagini di tali morti sono particolarmente toccanti – bambini i cui corpicini giacciono come stracci sulla battigia o vengono raccolti da adulti e portati con dignitosa disperazione dove poter essere sepolti –, anche noi siamo presi da indignazione per questa ecatombe ed esprimiamo fermamente la nostra volontà che essa si interrompa una buona volta e che tanti innocenti non siano più sterminati.

Ma la nostra indignazione, anche quando autenticamente avvertita, dura l’espace d’un matin; è troppo corta, come direbbe Madre Courage. Secondo quanto molti possono ricordare dell’omonimo testo brechtiano, al soldato che va dal suo superiore per lamentarsi di un sopruso da lui subito, Madre Courage dice che la sua è una rabbia troppo corta e che occorrerebbe che sia lunga per poterla coltivare e ottenerne frutti adeguati. Ma noi siamo troppo irretiti dalle nostre cure quotidiane, desiderosi di ritornare a esse e al loro potere rassicurante per coltivare adeguatamente la nostra indignazione. Come i migranti, anch’essa naufraga e tutto riprende come prima, come se nulla fosse accaduto.

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse  17-11-2016 - Pozzallo Sbarco nel porto di

Pozzallo, sbarco di migranti (ph. V. Livieri per LaPresse) 

D’altronde, noi stessi che scriviamo quest’ordine di considerazioni non dobbiamo immaginarci come “i buoni” che contrastano quasi tutti gli altri, confinati con sicurezza nella dimensione della “cattiveria”, senza sforzarci di intendere le altrui ragioni, da affiancare alle nostre, per comprendere cosa possa indurli alle loro posizioni. Dobbiamo pensare anche che avere accanto nuclei consistenti di altre etnie, con convinzioni, valori, modelli di comportamento molto diversi dai nostri, può indurre a una condizione di paura dell’altro, percepito tanto più minaccioso quanto più sconosciuto. Alcuni tragici episodi di violenza – stupri, altre aggressioni, omicidi – compiuti a opera di immigrati, particolarmente enfatizzati dalla stampa e dagli altri mezzi di comunicazione, alimentano e radicano i sentimenti di paura e i conseguenti atteggiamenti di ripulsa. É troppo facile condannare dall’esterno tali atteggiamenti, che non vanno certo condivisi, ma che occorre tentare di comprendere ripercorrendo dall’interno la loro genesi e le modalità del loro sviluppo.

La situazione, quale ho sinora delineato, sembra essere senza sbocchi, quasi ci rinchiudesse in una gabbia di impotenza e di radicali dubbi paralizzanti. In realtà non credo si debba restare inerti, anzi ritengo si possa intraprendere un itinerario più complesso e articolato.

Gli immigrati appartengono ovviamente a etnie diverse e giungendo in Italia, sia per dimorarvi che per raggiungere altri Paesi, portano con loro, inevitabilmente, le proprie concezioni del mondo e della vita, i propri valori, i propri modelli e a essi si rifanno nel quotidiano perché rappresentano il loro ancoraggio nella realtà. Noi, nel rapportarci a loro, ci rifacciamo inevitabilmente alle nostre concezioni del mondo e della vita, ai nostri valori, ai nostri modelli. Questi due blocchi sono fra loro incompatibili e il loro contatto non può che portare a scontri, conflitti, dagli esiti a volte tragici?

Sembra necessario, a questo punto, impegnarci, in un’operazione lunga e complessa. Le nostre Istituzioni – Ministeri competenti, altre Istituzioni quali la Commissione italiana Unesco, Regioni e Comuni particolarmente toccati dal fenomeno immigratorio – dovrebbero costituire delle commissioni scientifiche, composte da esperti delle diverse Scienze dell’uomo (storia, antropologia, sociologia dei processi culturali, etnolinguistica e così via) per procedere  a un’accurata ricognizione critica dei valori e modelli fondanti della nostra cultura. Contemporaneamente tale Commissione, con l’inclusione via via di esperti delle culture volta volta prese in esame, dovrebbe redigere un analogo protocollo dei valori e modelli fondanti della cultura esaminata. Dal confronto di tali due regesti la Commissione potrebbe individuare quali siano reciprocamente compatibili e quali confliggano radicalmente o meno. In quest’ultimo caso si dovrebbe procedere, avendone l’autorità, a individuare quali valori e modelli vadano modificati nella nostra e nelle altre culture, e quali possano permanere perché reciprocamente compatibili.

Si avrebbe così un minimo comune etico, nucleo cui rifarsi per chiedere alla nostra e alle culture altre le sostanziali modifiche in nome di una convivenza il più possibile armonica tra le diverse culture.

 Approdo, isola greca di Lesbo (foto di Sergey Ponomarev per il New York Times)

Approdo, isola greca di Lesbo (foto di Sergey Ponomarev per il New York Times)

Mi rendo perfettamente conto che tutto ciò può apparire farraginoso e di lunga durata, il che, in epoca di arrogante frettolosità e di doverosa corsa (ma per andare poi dove?) appaiono colpe di cui doversi vergognare; ma continuo ostinatamente a pensare, tanto per rifarci ai proverbi, oggi ritenuti obsoleti e arcaici, e quindi da rigettare che “la fretta è cattiva consigliera” e che “la gatta frettolosa fece i figli cechi”. Non mi sembra, d’altronde, che eventuali più rapide soluzioni, abbiano sortito effetti migliori. Quindi, se non altro per via sperimentale, varrebbe la pena procedere nella direzione qui indicata.

Un itinerario critico quale quello che ho delineato in questo scritto potrebbe essere sollecitato da università, associazioni scientifiche, fondazioni, riviste specializzate. Non è azzardato, quindi, pensare che Dialoghi mediterranei, diretta con rigore critico e forte impegno etico-politico da Antonino Cusumano o l’Università di Palermo, che tanto prestigio nei decenni trascorsi ha acquisito a livello internazionale, possano farsi promotrici di questa mia sommessa proposta. Con la speranza che questo invito possa essere accolto, esprimo ancora una volta – dopo averlo fatto oralmente – i miei più vivi rallegramenti al collega e amico Antonino Cusumano, per quanto va facendo con inesausta passione per i nostri disperati immigranti.

Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017

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Luigi M. Lombardi Satriani, docente emerito di Antropologia culturale presso l’Università La Sapienza di Roma, ha insegnato pure all’Università della Calabria, di cui è stato preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e Prorettore per le attività culturali. Ha ricoperto la carica di presidente dell’Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche (AISEA) ed è stato Senatore della Repubblica dal 1996 al 2001. Attualmente dirige Voci. Semestrale di Scienze Umane. È autore di numerosissime opere dedicate allo studio del folklore, della religiosità popolare e della cultura contadina. Tra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano: De sanguine (2001);  De Martino. Panorami e spedizioni (con L. Bindi, 2002), Carlo Levi, un dolente amore per la vita (2003) e Il sogno di uno spazio. Itinerari ideali e traiettorie simboliche nella società contemporanea (2004); Natuzza Evolo. Il dolore e la parola (2006), nonché  Potere, verità e violenza (2014) e Pulcinella con Domenico Scafoglio (2015).

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