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Più di un manuale, uno splendido itinerario nelle rotte mediterranee della poesia araba

copertinadi Francesco Medici [*]

La bibliografia in italiano relativa alla manualistica riguardante la storia della letteratura araba risulta ad oggi, a conti fatti, alquanto esigua e in certi casi anche piuttosto datata. Si pensi ad esempio a titoli quali La letteratura araba di Francesco Gabrieli (Sansoni-Accademia) e Storia della letteratura araba di Paolo Minganti e Giovanna Ventrone Vassallo (Fabbri), risalenti rispettivamente al 1967 e al 1971, ormai sostituiti nei programmi universitari dal molto più recente La letteratura araba dello statunitense Roger Allen nella traduzione dall’inglese di Bruna Soravia (Il Mulino, 2006). Beninteso, si tratta di strumenti di consultazione imprescindibili, ma che peccano tuttavia della medesima ambizione di voler ripercorrere in qualche centinaio di pagine nientemeno che quindici secoli di una vicenda letteraria estremamente complessa e mutevole al variare di contesti, fermenti, forme, temi e toni.

Non sorprende dunque che l’orientamento progressivamente affermatosi tra gli arabisti del nostro Paese a partire dall’ultimo ventennio sia quello di circoscrivere il campo d’indagine ad epoche, luoghi o generi letterari specifici nell’intento di limitare al massimo l’ineludibile quanto ingrata operazione di un’arbitraria selezione di argomenti, autori e opere. Tra i volumi più significativi in tal senso figurano Letteratura araba contemporanea. Dalla nahḍah a oggi (Carocci, 1998, 2007) e Cento anni di cultura palestinese (Carocci, 2007) di Isabella Camera d’Afflitto, Storia della letteratura araba classica (Zanichelli, 2004) di Daniela Amaldi, Storia del teatro arabo. Dalla nahḍah a oggi (Carocci, 2010) di Monica Ruocco (l’elenco non è certamente esaustivo e non comprende peraltro le sempre più numerose raccolte antologiche di testi di poeti e narratori arabi disponibili in libreria). A questa nuova tendenza di pubblicazioni scientifiche è ascrivibile anche I Cavalieri, le dame e i deserti. Storia della poesia araba (Ipocan-Libreria Editrice Aseq, 2020), l’ultimo libro di Francesca Maria Corrao, professore ordinario di Lingua e Cultura Araba presso l’Università Luiss di Roma.

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al-Ḫansā’ Tumāḍir bint ‘Amr

Il manuale si presenta come un «veloce excursus», cionondimeno attento, ragionato e rigoroso, di un’imponente produzione poetica che va dal VI secolo all’età presente, spaziando in un’area storico-geografica che non si limita ai soli Mašriq (Vicino Oriente) e Maġrib (il Nordafrica occidentale), ma contempla anche l’Andalus e la Ṣiqilliyyah (cioè la Spagna e la Sicilia islamiche). Pur mancando di un apparato propriamente antologico, l’opera è altresì arricchita di citazioni, scelte (e in larga parte anche tradotte) dall’autrice in modo originale ed estremamente efficace, tratte dai versi dei poeti più illustri, senza trascurare figure forse meno note ma non meno rappresentative. L’utilizzo di tali contributi riportati intra-testo, dall’indubbio valore documentale ed esplicativo, persegue il duplice scopo di corroborare le argomentazioni sostenute e, al contempo, di offrire al lettore la possibilità di assaggiare i diversi stili, canoni e tòpoi. In appendice al volume sono collocati un agile glossario, un puntuale indice onomastico, una bibliografia e una sitografia essenziali.

Il proposito che la studiosa dichiara già nella premessa è quello di rileggere l’evolversi attraverso i secoli della poesia araba in una prospettiva segnatamente dialogica tra le due sponde del Mediterraneo. Lo sguardo analitico adottato si accosta prevalentemente, seppure con un certo margine di autonomia, a quello dei critici arabi più accreditati, tra cui spiccano i nomi dell’egiziano Šawqī Ḍayf (1910-2005) e del siriano Adonis (‘Alī Aḥmad Sa‘īd Isbir, 1930). Se la ricognizione dei fenomeni poetico-letterari segue un percorso necessariamente cronologico, il perno dell’esposizione ruota primariamente attorno all’eterna dicotomia tra tradizione e innovazione, adesione ai modelli del passato e sperimentazione, leitmotiv ricorrente pressoché in tutte le fasi della storia della letteratura araba e di conseguenza nelle dispute tra contrapposte scuole di pensiero, e che si tradurrà fin dalla metà del XIX secolo in accesi dibattiti sulle pagine delle riviste specializzate più autorevoli in Egitto e in Vicino Oriente.

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Qays Ibn al-Mulawwaḥ

Il primo dei quattro capitoli in cui è suddivisa l’opera introduce alla genesi e allo sviluppo della poesia classica. Il genere poetico arabo nasce in forma orale durante la ǧāhiliyyah, l’epoca preislamica cosiddetta ‘dell’ignoranza’. Esso si diffonde tanto tra le popolazioni nomadi quanto tra le tribù sedentarie attraverso le voci leggendarie di Imru’ al-Qays (m. 540), Ṭarafah Ibn al-‘Abd (543-569), al-Ḥāriṯ Ibn Ḥillizah (m. 580), ‘Amr Ibn Kulṯūm (m. 584), Zuhayr Ibn Abī Sulmà (520-609), ‘Antarah Ibn Šaddād (525-615), Labīd Ibn Rabī‘ah (m. 660) e altri. Il breve componimento d’occasione (qiṭ‘ah) cede gradualmente il passo alla monorima e politematica qaṣīdah, contraddistinta da un rigido schema strutturale che può contare fino a un centinaio di versi. Come noto, quello della qaṣīdah, pur subendo nel tempo rilevanti modifiche, resterà un paradigma (anche linguistico, poiché sacralizzato dall’idioma coranico) pressoché inossidabile nel corso dei secoli, e che condurrà a sua volta alla creazione di generi a sé stanti, quali ad esempio la poesia d’amore nelle sue diverse ramificazioni, dall’erotico al mistico, e l’elegia funebre, che vede primeggiare autrici del calibro di al-Ḫansā’ Tumāḍir bint ‘Amr (575-664).

Con il trasferimento della capitale a Damasco, ha inizio nel VII secolo la dinastia omayyade in cui la poesia di corte, che esalta la figura del califfo e le conquiste della comunità islamica, comincia a prendere le distanze da quella beduina, caratterizzata dal mito dell’eroe-cavaliere del deserto (contesto ambientale che conserva tuttavia il suo fascino in quanto simbolo di integrità e purezza). Anche i versi d’amore conoscono in questo periodo una notevole fortuna nelle forme del ġazal, poesia cortese ‘cittadina’, e nelle elegie ‘uḏrite, nel cui novero si inserisce il famoso poema che narra la struggente vicenda del giovane Qays Ibn al-Mulawwaḥ (645-688), meglio noto come il ‘Pazzo di Laylà’ (Maǧnūn Laylà), costretto dal proprio clan a rinunciare alla donna amata.

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Ibn al-Muqaffa‘

L’epoca abbaside, che si inaugura alla metà dell’VIII secolo, è caratterizzata da un vero e proprio culto del califfo, «ora considerato come l’ombra di Dio in terra», dall’affermarsi della corrente mu’tazilita (che promuove la razionalizzazione della fede) e dal fiorire di nuove forme poetiche introdotte dai muwalladūn (arabi per lingua ed educazione, ma di origine straniera), naturalmente giudicate inaccettabili dai puristi. La contaminazione con altre culture dà anche l’avvio a importanti traduzioni, come quella dal persiano della silloge di insegnamenti morali Kalīlah wa Dimnah ad opera di Ibn al-Muqaffa‘ (m. 756/759), considerata il primo capolavoro della letteratura araba in prosa. È un’età aurea, in cui i poeti si fanno animatori dei nuovi centri culturali che coincidono con le città di Baghdad, Kufa e Bassora. Tra di essi vi sono sia gli irriducibili imitatori dei modelli beduini sia i ‘moderni’, i quali, scomponendo e rimaneggiando la struttura della qaṣīdah e attraverso una lingua più fresca, mai retorica e ricca di neologismi, cantano, come il poeta bacchico Abū Nuwās (755-813), uno stile di vita più libertino e conviviale. Tra i bādi‘, ovvero i creatori-innovatori, meritano assoluto risalto Bašār Ibn Burd (714-784) e Abū Tammām (805-845), ma anche gli ambienti più defilati dai maggiori centri urbani e di potere sono crogiolo negli stessi anni di altre straordinarie esperienze poetiche, come quella di carattere filosofico di Ibn al-Rūmī (837-896) e quella ascetico-religiosa di Abū al-‘Atāhiyah (748-852).

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Abū Nuwās

La repressione del movimento mu‘tazilita (IX/X sec.) preannuncia il declino della dinastia abbaside e inaugura nella poesia una fase ‘neoclassica’ di recupero dei dettami della tradizione beduino-preislamica. Ne è massimo esponente al-Mutanabbī (905-965) che, grazie ai panegirici, le satire, le invettive, ben lungi dalla pedissequa imitazione dei modelli arcaici e dalla rivisitazione manieristica del mondo antico, ha saputo di fatto «creare un modello universale del valore arabo». Con Abū al-‘Alā’ al-Ma‘arrī (937-1058) le potenzialità di svecchiamento stimolate dalla corrente della ‘poesia nuova’ trovano ulteriore sviluppo. I versi dell’eminente poeta cieco, originario di un villaggio nei pressi di Aleppo, intrisi di intimi dissidi esistenziali, senso di caducità, sarcasmo, pessimismo cosmico ai limiti dell’eresia, brillano per raffinatezza linguistica e lucidità della riflessione filosofica. Secondo Corrao, questa straordinaria figura, la cui fama si diffuse presto anche in Europa, riveste un ruolo cruciale:

«Al-Ma‘arrī critica la tendenza maggioritaria della poesia araba tradizionale, ancorata al canone classico, che chiede coerenza tra l’atteggiamento corretto dell’uomo di religione nei confronti della fede e l’attività creativa del poeta. Per gli Arabi il modello ideale di purezza linguistica e di chiarezza è il Corano, e le regole e le forme poetiche stabilite servono pertanto ad aiutare a riprodurre il modello, e quindi il poeta può dunque imitare, ma non cambiare tali forme».
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al-Mutanabbī

Il capitolo sulla poesia classica si chiude con alcune pagine dedicate al misticismo, storicamente inquadrato dall’autrice, sulla scorta degli studi condotti da Giuseppe Scattolin, come una reazione all’approccio eccessivamente intellettualistico alla religione. Il ṣūfī rinviene nel Corano stesso significati nuovi e più profondi, invisibili ai più, e si pone in conversazione diretta con l’Assoluto, con l’essenza immateriale dell’esistenza. La poesia diviene il mezzo privilegiato per esprimere in versi il viaggio interiore di avvicinamento a Dio, l’unione con l’Amato. Tra le voci più sublimi che hanno celebrato l’amore divino, influenzando sia i circoli più elitari sia i ceti popolari, vi sono la poetessa-‘santa’ Rābi‘ah al-‘Adawiyyah (m. 801), il ‘Cristo dell’Islam’ al-Ḥallāǧ (859-922), lo šayḫ egiziano ‘Umar Ibn al-Fāriḍ (1181-1235), il cui Dīwān si colloca tra la fine dell’epoca fatimide e l’inizio di quella ayyubide, e l’andaluso Ibn al-‘Arabī (1165-1240).

Il secondo capitolo del manuale è incentrato sull’età mediana della poesia arabo-mediterranea. La produzione poetica dell’Andalus musulmano ricalca inizialmente i modelli classici del Vicino Oriente, ma inizia a svincolarsene già a cavallo tra il X e l’XI secolo. Attorno alla corte del sovrano-poeta e mecenate al-Mu‘tamid Ibn ‘Abbād (1039-1095) si sviluppa un intenso e fecondo fermento culturale che fa anche da sfondo alla vicenda sentimentale e letteraria del verseggiatore neoclassico Ibn Zaydūn (1003-1070) e della sua amata principessa-poetessa Wallādah bint al-Mustakfī, figlia del califfo di Cordova. Accanto alla poesia amorosa, che trova in Andalusia altri numerosi interpreti, si affermano anche nuovi temi, come la vita agiata in mezzo a una natura umanizzata e paradisiaca, e generi formali, quali la poesia strofica, detta muwaššaḥ (composta in lingua classica, ma con la strofa finale in volgare), e lo zaǧal, in dialetto arabo.

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Abū al-‘Alā’ al-Ma‘arrī

La storia della Sicilia islamica comincia nel IX secolo, un centinaio d’anni dopo quella dell’Andalus, con la conquista dell’Isola da parte di forze militari arabo-berbere. Se la poesia siculo-araba, così come era stato per quella andalusa, riprende inizialmente i modelli del Vicino Oriente, in particolare quelli della tradizione abbaside, l’XI e il XII secolo vedono la presenza di una nuova schiera di rimatori, la cui produzione spazia dai motivi bacchico-amorosi a quelli mistici (Ibn al-ṭūbī), dalla poesia strofica al ġazal ispirato allo stile di Abū Nuwās (‘Alī al-Billanūbī), dai panegirici rivolti ai principi di corte (al-Ḫayyāt e Muḥammad b. Qāsim b. Zayd) alle elegie dedicate alla terra perduta e ai compagni di un tempo ormai in esilio (al-Tamīmī). Tra i poeti costretti dagli invasori normanni ad emigrare in terra andalusa, il più famoso è senza dubbio Ibn ḥamdīs, nei cui versi traspaiono tutta la nostalgia per gli anni gioiosi trascorsi in Sicilia e l’amarezza della vita errabonda.

La studiosa approfondisce in questa sezione del volume la portata del fondamentale contributo offerto dagli autori menzionati alla nascita di quel movimento poetico, sorto in Sicilia nel XIII secolo presso la corte dell’imperatore Federico II, noto come ‘scuola siciliana’, cui si deve la prima produzione lirica in un volgare italiano di cui si abbia ampia attestazione nella nostra storia letteraria. A tal proposito, è doppiamente consigliata, anche agli italianisti, la lettura dell’antologia a cura della stessa Corrao Poeti arabi di Sicilia, uscita per i tipi di Mondadori nel 1987 e ristampata da Mesogea nel 2002, ove l’arabista ha affidato la riscrittura delle proprie traduzioni dei componimenti originali alla penna raffinata dei più importanti poeti italiani del Novecento (tra i quali Luzi, Magrelli, Sanguineti, Valduga, Cucchi, Raboni, Giudici, Pagliarani, Manganelli, Fortini, Zanzotto, per citarne alcuni) [1].

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al-Mu‘tamid Ibn ‘Abbād

Le ultime pagine del secondo capitolo sono dedicate alla poesia in epoca fatimide e ayyubide, fase temporale che a partire dal X secolo vede emergere in Nordafrica e Vicino Oriente brevi casate di stampo militare, le quali, anche per darsi lustro, si circondano spesso di rinomati verseggiatori. Le opere dei panegiristi, invero non sempre autenticamente sentite, assumono talvolta toni eccessivi e smaccatamente propagandistici, talaltra evidentemente formali, anche se non mancano componimenti venati di ironica comicità che aprono la strada, se non all’invettiva, quantomeno alla satira, intesa come genere di mero intrattenimento. Tra gli autori di versi umoristici merita di essere menzionato Ibn Wakī‘ al-Tinnīsī (m. 1003), mentre l’alessandrino Ibn Qalāqis (1137-1172), celebre per i versi descrittivi di gusto neoclassico, è l’ultimo grande esponente della poesia in età fatimide, che si conclude con la conquista dell’Egitto e della Siria da parte di Saladino (Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf Ibn Ayyūb, 1138-1193), iniziatore della dinastia ayyubide. Con il ritorno della supremazia sunnita, la produzione dei poeti vicini ai fatimidi, che erano di fede ismailita sciita, viene censurata. La produzione ayyubide non si discosta dalla tradizione della poesia abbaside, se non per «un lento declinare verso la melanconia». Parallelamente si assiste al primato della poesia popolare e dell’epopea dialettale (siyār), originariamente nate e trasmesse oralmente, sulla produzione scritta in lingua classica. Le gesta di ‘Antara e dei Banū Hilāl, ancora amatissime dal grande pubblico, vengono tutt’oggi declamate a memoria dai cantastorie nei caffè o in occasione di feste o manifestazioni.

Nella seconda metà del XIII secolo, a seguito dell’invasione mongola di Baghdad, molti poeti riparano in Siria e in Egitto, sotto la protezione del sultano mamelucco Baybars. I versi in arabo più ispirati, soprattutto a tema mistico-religioso, nascono tuttavia lontano dalla corte, anche perché i Mamelucchi erano turcofoni. Riscuotono invece maggior fortuna, nel corso degli anni, le epopee in lingua vernacolare. Tra gli autori più originali di epoca mamelucca emerge Šams al-Dīn Ibn Dāniyāl (m. 1307), noto soprattutto per il suo testo composto per il teatro delle ombre, che alterna la prosa ornata della narrazione ai dialoghi in dialetto o in lingua classica in rima baciata. L’opera è caratterizzata da irresistibile umorismo, sagace ironia, ricorso ad espressioni colorite e perfino scurrili del parlare quotidiano. Anche Abū al-Ḥusayn Yaḥyà Ibn ‘Abd al-‘Aẓīm al-Ǧazzār (1223-1301), spirito gaudente e passionale, nonostante le umili origini e lo stile semplice, riesce a guadagnarsi l’interesse delle personalità politiche e letterarie del tempo. Accanto alla retorica poesia d’amore, si sviluppa inoltre la poesia erotica, al cui filone appartiene, per esempio, Il giardino profumato di Muḥammad al-Nafzāwī, composto presumibilmente tra il 1410 e il 1434.

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Umar Ibn al-Fāriḍ

Dopo il crollo dell’Impero abbaside e la fine dell’epoca mamelucca, a partire dal XVI secolo ha inizio la lunga dominazione ottomana sul Mediterraneo meridionale, egemonia che si protrarrà per quattrocento anni, fino al primo conflitto mondiale. Corrao dissente da quei critici secondo cui, in questo lungo periodo storico di intensa produzione letteraria turco-persiana, la poesia araba si sarebbe ripiegata su sé stessa perché priva di qualsiasi slancio creativo: «In realtà esistono molte raccolte poetiche che includono non soltanto panegirici e poesie di occasione, ma anche resoconti storici e soprattutto tanta valida poesia mistica». La studiosa cita poi il caso del Marocco del verseggiatore classico Aḥmad Ibn al-Qādī (1553-1616), mai occupato dai Turchi, dove «non solo non si è verificato il degrado linguistico registrato altrove, ma la ricchezza commerciale ha mantenuto viva una feconda tradizione culturale», alimentata anche «dall’immigrazione degli esuli arabi cacciati dall’Andalusia ai tempi della Reconquista». È pur vero che una vasta mole di materiali inediti prodotti in quei quattro secoli, costituita soprattutto da encomi ed elegie, attende ancora di essere studiata e valutata con attenzione.

Tra le figure più rilevanti vissute in epoca ottomana, Francesca Corrao cita il giurista e poeta cairota Ǧalāl al-Dīn al-Suyūṭī (1445-1505), cui si devono una trentina di maqāmāt (prosa ornata e versi) di vario argomento, incluso il tema erotico, trattato con gustosa ironia. La diffusione del genere erotico, nel tempo e nelle diverse aree geografiche, è testimoniato anche dalle opere di altri poeti, quali l’ottomano-yemenita Ša‘bān b. Salīm b ‘Uṯmān (m. 1654) e l’algerino Muḥammad Ibn Aḥmad al-Tiǧānī (1737-1815). Per il XVII secolo vengono menzionati il poeta comico egiziano Yūsuf Ibn Muḥammad Ibn ‘Abd al-Ǧawād Ibn Ḫiḍr al-Širbinī (m. 1687) e l’iracheno Ma’tūq al-Mūsawī, il più emblematico esponente del Band, «poesia dalla struttura ritmica particolare». Tra i poeti più illustri del XVIII secolo si impongono invece ‘Abd Allāh Ibn Šaraf al-Dīn al-Širbāwī, con le sue liriche dedicate al Profeta Muḥammad; Aḥmad al-Kīwānī, autore di versi elegiaci e d’amore; il cristiano aleppino Makridāǧ al-Kasīḥ; i verseggiatori classici maghrebini ‘Abd al-Raḥmān al-Fāsī (m. 1712) e ‘Alī al-Ġurāb (m. 1811). Al termine di questa pur rapida rassegna, Corrao può così concludere:

«Nella fase del declino ottomano la produzione poetica araba mantiene un livello formale alto nel solco delle tendenze tradizionali sin qui delineate con le sue strutture classiche; i versi più sentiti e innovativi si trovano nella poesia dialettale ma anche in quella che canta l’amore spirituale e quella che esalta l’amore fisico. Le opere, anche se di diverso valore, mostrano la continuità di una produzione che costituisce il fertile humus da cui sbocciano i frutti della letteratura araba moderna. Nel XIX secolo i poeti neoclassici e i critici cercano i modelli estetici da emulare nella produzione poetica dell’epoca preislamica e dei califfati omayyade e abbaside, non certo tra i poeti dell’epoca ottomana giacché era considerata decadente. Alcuni poeti innovatori guarderanno invece alle creazioni stilistiche e tematiche della poesia dialettale […] per sperimentare le nuove forme ispirate dalla poesia occidentale».
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Faransīs Marrāš

Tali considerazioni introducono il lettore all’ultimo e più corposo capitolo del manuale, interamente dedicato alla poesia moderna e contemporanea. L’avvio della nahḍah, la rinascita socio-politico-economico-culturale araba, coincide con l’arrivo della campagna napoleonica in Egitto alla fine del XVIII secolo. Negli anni Venti dell’Ottocento l’elite egiziana invia a Parigi una missione di studenti tra cui il giovane intellettuale Rifā‘ah Rāfi‘al-Ṭahṭāwī (1801-1873) che, al rientro in patria, riforma il giornale «al-Waqā’i‘ al-Miṣriyyah» rendendolo un potente mezzo per la diffusione delle traduzioni delle opere francesi tra i lettori arabi e al contempo per un decisivo rilancio della lingua classica e della poesia strofica. Il ritrovato prestigio della lingua araba riporta in auge gli antichi e consolidati modelli del passato, mentre alcuni pionieri avviano piccoli ma importanti cambiamenti. Corrao, con il critico Shmuel Moreh (1932-2017), individua nel libanese Nāṣīf al-Yaziǧī (1800-1871), autore di maqāmāt che alternano le rime alla prosa ornata, l’iniziatore della corrente dei poeti neoclassici, che include anche il connazionale Ḫalīl Muṭrān (1871-1949) e l’egiziano Maḥmūd Sāmī al-Bārūdī (1839-1904). Tra i muḥāfiẓūn vissuti a cavallo tra Ottocento e Novecento si segnalano anche il poeta-medico siriano Faransīs Marrāš (1836-1873), uno dei primi sperimentatori della poesia in prosa, gli iracheni Ǧamīl Ṣidqī al-Zahāwī (1863-1936) e Ma‘rūf ‘Abd al-Ġanī al-Ruṣāfī (1875-1945), e soprattutto il ‘principe dei poeti’ cairota Aḥmad Šawqī (1868-1932), cui «va il merito di aver avviato il rinnovamento della poesia mantenendo il timbro e la purezza linguistica della tradizione».

Anche grazie alla fondazione di decine di giornali e riviste letterarie, la nahḍah si espande dall’Egitto e dalla regione siro-libanese in tutto il Vicino Oriente e in Nordafrica. Nell’area maghrebina la rinascita culturale ispira poeti come l’algerino Muḥammad Ṣāliḥ Ḫabšāš (1904), i libici Sulaymān al-Bārūnī (1870-1940) e Ibrāhīm al-Usṭà ʻUmar (1907-1950), il marocchino Muḥammad ‘Allāl al-Fāsī (1910-1974), i tunisini Muḥammad al-Šāḏilī Ḫaznahdār (1881-1954) e Abū al-Qāsim al-Šābbī (1909-1934). Corrao inserisce invero quest’ultimo nella corrente del romanticismo che, nella storia dell’ultimo secolo della letteratura araba, trae impulso principalmente dalle traduzioni di autori occidentali come Shelley, Byron, Whitman e Carlyle. Il cavaliere errante del deserto si tramuta ora nell’eroe che si ribella al giogo dell’usurpatore straniero, inoltre la lingua araba, per sua natura duttile e polisemica, ben si presta al rinnovamento, all’acquisizione di nuovi vocaboli e nuovi significati.

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Mayy Ziyādah

Libri e articoli incorrono sovente nella censura ottomana, ma all’inizio del XX secolo l’Egitto gode di una relativa indipendenza e di una maggiore libertà di espressione rispetto ad altri territori dominati dalla Sublime Porta. Il Cairo, dove risiedono molti intellettuali ed editori stranieri protetti dai rispettivi consolati, pullula di salotti letterari, aperti anche alle donne. Ed è proprio nella capitale cosmopolita che opera la femminista siro-libanese Mayy Ziyādah (1886-1941), la quale apre il proprio salotto a scrittori, poeti e attivisti politici. A sua volta scrittrice e poetessa poliglotta, sperimenta in arabo il nuovo genere della poesia in prosa e rielabora in chiave romantica il repertorio tradizionale. Egiziani sono anche altri romantici quali ‘Abbās Maḥmūd al-‘Aqqād (1889-1964) e Aḥmad Zakī Abū Šādī (1892-1955), che contestano la poesia neoclassica in nome del rinnovamento, della libertà formale e tematica, dell’apertura alla modernità. Le idee di questi intellettuali, molti dei quali orbitanti attorno a riviste come «Apollo», traggono ispirazione non soltanto dagli autori stranieri, ma anche dai muhāǧirūn, i letterati arabi dell’emigrazione, residenti nelle Americhe, che sono probabilmente i veri corifei della poesia in prosa, del verso libero e delle prose liriche. Tra le associazioni letterarie siro-americane, il posto d’onore spetta certamente alla newyorkese Lega della Penna (al-Rābiṭah al-Qalamiyyah) fondata nel 1920 dai libanesi Kahlil Gibran (Ğubrān Ḫalīl Ğubrān, 1883-1931), Mikhail Naimy (Mīḫā’īl Nu‘aymah, 1889-1988) e Ameen Rihani (Amīn al-Rīḥānī, 1876-1940).

L’esperienza dirompente del mahǧar, sebbene non apprezzata dall’Accademia, influenza profondamente la poesia araba del Novecento – secolo in cui il mondo arabo vive la delusione cagionata dall’accordo Sykes-Picot con i conseguenti mandati europei, la crisi israelo-palestinese, lo strazio dei conflitti etnico-religiosi, le derive dittatoriali. In Iraq aderiscono ai princìpi dell’innovazione poeti come la simbolista Nāzik al-Malā’īkah (1923-2010), che coniuga nei suoi versi liberi intime riflessioni esistenziali, denunce sociali (come la difficile condizione della donna nella società patriarcale), temi politici (la crisi del ‘48); il comunista Badr Šākir al-Sayyāb (1926-1964), animato dagli ideali di giustizia e libertà; ‘Abd al-Wahhāb al-Bayyātī (1926-1999), autore di versi privi di rima o in rima alternata (mursal) dai motivi romantico-simbolici, in cui il disastro della guerra dei Sei giorni si trasfigura in dramma interiore e l’esperienza dell’esilio in viaggio iniziatico alla riscoperta di sé e dell’altro.

Nel 1957 a Beirut Adonis e Yūsuf al-Ḫāl danno vita alla rivista «Ši‘r» (Poesia), «espressione di una ricerca poetica aperta a tutte le sperimentazioni» e alla «valorizzazione degli aspetti comuni della poesia araba con quella occidentale», cui aderisce anche il palestinese Ǧabrā Ibrāhīm Ǧabrā (1919-1996), fondatore del gruppo dei simbolisti Tammūz i quali, rievocando le metafore del rinnovamento presenti nell’antica tradizione araba, lontano dall’impegno politico, anelano a un mondo finalmente libero dall’incubo dei conflitti e della sofferenza. Nell’Egitto di fine anni Cinquanta, infiammato dal ‘sogno nasseriano’ e luogo di incontro degli intellettuali di tutto il mondo arabo, il poeta e drammaturgo Ṣalāḥ ‘Abd al-Ṣabūr (1931-1983) è in grado di comporre i suoi versi guardando sia alla tradizione classica araba sia alle correnti letterarie occidentali, ma anche sulla sua poetica la vittoria riportata da Israele sui Paesi arabi nel 1967 sortirà effetti determinanti: l’autore cercherà infatti rifugio nella fantasia e nel mito per distaccarsi da una realtà troppo dolorosa e frustrante. Le conseguenze politico-culturali di quella clamorosa disfatta si fanno sentire in tutto il Vicino Oriente:

«Il dramma dell’esilio e la repressione dei profughi palestinesi diventano il simbolo delle ferite mai sanate del colonialismo. Svanita la speranza del riscatto nazionalista promesso dai governi socialisti, nati nella fase post-coloniale, agli intellettuali non allineati con le politiche dei regimi rimane la scelta tra l’esilio e il silenzio. In seguito all’esodo palestinese esplodono altri conflitti regionali, Settembre nero (1970) in Giordania e la guerra civile in Libano (1975-1990) che, tra le tante conseguenze, vedrà un nuovo esodo dei profughi palestinesi».

E sono non a caso gli autori palestinesi, con il loro desiderio di riscatto e il loro messaggio di resilienza, a infondere ora un nuovo impulso alla poesia araba con Fadwā Ṭūqān (1917-2003), Tawfīq Ṣāyiġ (1923-1971), Maḥmūd Darwīš (1941-2008) e Samīḥ al-Qāsim (‎‎1939-2014) – anche il siriano Nizār Qabbānī (1923-1998), il ‘poeta della donna’, accantona i versi d’amore per dedicarsi adesso a componimenti di carattere politico. Questa ‘letteratura di giugno’ (così sarà definita in seguito), riletta da Corrao, come in un lungo periplo attraverso i secoli, riconduce alle forme e agli archetipi delle origini:

«Dopo la sconfitta di giugno il gruppo dei poeti della resistenza (muqawwāmah) si fa portavoce della comunità dei perdenti, delle vittime dei tragici eventi che travagliano il mondo arabo; i letterati impegnati prendono una ferma posizione di condanna dei responsabili della disfatta. In questo contesto il poeta, come nella tribù beduina della tradizione preislamica, torna ad essere il cantore degli eventi dolorosi, compone le elegie per i martiri e descrive la vita della diaspora raminga per porti inospitali, nuove metafore degli antichi percorsi nel deserto. La tenda dell’antico accampamento beduino ora è la tenda nella terra straniera dove il profugo vive da sfollato».
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Autoritratto di Kahlil Gibran (1905)

Alla fine degli anni Sessanta sono ancora le riviste letterarie, come la cairota Galleria ’68, a farsi cassa di risonanza delle nuove tendenze e veicolo di scambio culturale e interculturale. Tra i giovani poeti emergono gli egiziani Muḥammad ‘Afīfī Maṭar (1935-2010) e ‘Abd al-Mu‘ṭī al-Ḥiǧāzī (1935); i libanesi Ḫalīl Ḥawī (1919-1982), Unsī al-Ḥājj (1937-2014), Šawqī Abī Šaqrā (1935); i siriani Fuʼād Rifqah (1930-2011), Muḥammad al-Maġūṭ (1934-2006) e Ṣaniyyah Ṣāliḥ (1935-1986); i sudanesi Tāǧ al-Sīr Ḥasan (1930) e Muḥyī al-Dīn Fāris (1936-2008).

Nelle ultime pagine del manuale, alcune delle quali incentrate unicamente sulla produzione di Adonis, audace innovatore in ambito poetico e insigne studioso cui si deve «un’importante rivisitazione del grande corpus della letteratura araba», l’autrice traccia una panoramica di alcune esperienze poetiche trascurate dalla critica e dalle accademie poiché non aderenti al canone classico o perché contaminate da modelli esogeni: la poesia in lingua straniera, quella dialettale e quella della diaspora. Segue infine una breve ma densa carrellata di autori contemporanei dell’Occidente arabo, ove primeggia Muḥammad Bannīs (1948), massimo rappresentante dell’avanguardia artistica marocchina.

Il percorso tratteggiato nel volume, Francesca Corrao ne è ben consapevole, non può essere esaustivo, ma non importa. L’intento della studiosa è infatti tutt’altro: accompagnare il lettore fin dentro al cuore dell’humanitas araba, che è racchiusa soprattutto nella poesia (la nascita del romanzo in arabo costituisce un fatto ben più recente). La poesia è ricerca incessante della verità e i poeti arabi sono «nomadi dell’Universo» [2]: allora ciò che conta non è raggiungere una meta, l’importante è intraprendere il viaggio.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
 [*] L’apparato iconografico posto a corredo del presente articolo è costituito da ritratti immaginari di esponenti della poesia araba realizzati dallo scrittore-artista Kahlil Gibran intorno al 1910.
 Note
[1] Il materiale è poi confluito in Poesia straniera: Araba, una ponderosa antologia dei poeti arabi diretta da F.M. Corrao e pubblicata per “La Biblioteca di Repubblica” nel 2004.
[2] Cfr. Adonis, Sull’estetica della metamorfosi, in L’estetica nella poesia del Mediterraneo, a cura di F.M. Corrao, Quaderni del Liceo Ginnasio G. G. Adria, Mazara del Vallo 1999: 25.

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Francesco Medici, membro ufficiale dell’International Association for the Study of the Life and Work of Kahlil Gibran (University of Maryland), è tra i maggiori esperti e traduttori italiani dell’opera gibraniana, nonché autore di vari contributi critici su altri letterati arabi della diaspora tra cui Mikhail Naimy, Elia Abu Madi e Ameen Rihani. Si è inoltre occupato di letteratura italiana moderna e contemporanea, in particolare di Leopardi, Pirandello e Luzi. Docente di materie letterarie nella scuola secondaria, lavora attualmente in un CPIA di Bergamo come insegnante di italiano L2.

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