di Sebastiano Burgaretta
Il 12 aprile del 2017, mercoledì santo, alle ore 14:00 alla Puerta de la Carne di Siviglia, là dove l’avenida Menedez y Pelayo s’incrocia con calle Demetrios de los Rios si registravano 39 gradi all’ombra degli alberi che ornano i marciapiedi. Sotto quel caldo eccezionale avanzava, prove- niente dall’avenida Eduardo Dato e in lontananza annunciato dal caratteristico, cadenzato battere dei tamburi, il paso del Cristo de la Sed, che era uscito intorno alle 12:00 dalla chiesa parrocchiale della Inmaculada de la Concepción sita nel quartiere Nervión. A mano a mano che si avvicinava, preceduto da migliaia di cofrades, i cosiddetti nazarenos [1], il suono dei tamburi veniva sopraffatto da quello stridente, toccante della banda musicale del Rosario di Cadice, che, quel giorno al suo debutto, «impressionò dietro il Cristo de la Sed e che, evidenziò la stampa, non è da meno nella sua qualità musicale rispetto alle grandi formazioni che suonano a Siviglia…Il sole era proprio in alto e faceva brillare il fercolo del paso, ma soprattutto il palio di María Santísima de la Consolación, un gioiello di ricamo che era una brace quando si vedeva illuminato dai raggi del sole» [2].
Un fercolo neobarocco, quello del Cristo de la Sed, con una storia recente nella pur antica storia della Semana Santa di Siviglia. Opera di Luis Álvarez Duarte, è stato inaugurato nel 1970 e presenta una serie di alti candelabri attorcigliati che fanno corona al Crocifisso, quasi a evidenziare di giorno e a manifestare di sera la selva di fiamme e la potenza del calore che caratterizzano simbolicamente il paso. Ho sete, è la parola del Crocifisso, ho sete è la parola che molti delle migliaia di nazarenos, a quell’ora, sembrano silenziosamente ma eloquentemente pronunciare con gli occhi che, quali spilli infuocati, sbucano dai cappucci neri dello stesso colore delle tuniche sovrastate da cappe e cingoli bianchi. Abbiamo sete sembrano dire, a immagine del Cristo cui sono devoti e che accompagnano alla estación de penitencia in cattedrale, là dove si dirigono tutte le decine di processioni che, con calendario preciso e generalmente puntuale, sfilano notte e giorno per le vie della città. Mentre le persone del pubblico che assiste possono entrare nei bar, a dissetarsi quando vogliono, gli incappucciati non possono lasciare il corteo solenne e devono aspettare che alcuni confratelli si accostino a loro portando da bere, cosa che mi è capitato di osservare più volte. Ricevono maggiore attenzione, tra i nazarenos, le persone con problemi renali, e «allora si compie il prodigio, l’essenza del cristianesimo, l’incarnazione del Cristo in coloro che più hanno bisogno di lui. Allora il Crocifisso di Álvarez Duarte, ha scritto, tra retorica e aura misticheggiante, un cronista, cambia la storia dell’umanità, dando un giro di vite alla sintassi. Abbiamo sete, abbiamo il Cristo della Sete» [3].
La sete e la sensazione del caldo straordinario sembrano acutizzarsi per effetto del suono stridente della marcia funebre e soprattutto di quello marziale dei tamburi, i quali, oltre a rendere l’atmosfera solenne e toccante propria della processione, segnano, accompagnandolo in tutta evidenza, il passo militare dei gendarmi che in divisa color grigio crema, con i fucili in spall’arm, seguono immediatamente il paso del Cristo. Segno, questo, oltre che di omaggio solenne al redentore, anche del ruolo che l’autorità, politica, militare e religiosa, riveste nella strutturazione e nella configurazione della Semana Santa sivigliana, come si avrà modo di verificare più avanti. E non potrebbe essere diversamente, sia per evidenti motivi storici antichi e recenti sia per la complessità di questa specie di kermesse collettiva, che, preparata nell’arco dell’anno, coinvolge a Pasqua l’intera città in una sorta di totalizzante autorappresentazione nella quale finisce per riconoscersi e identificarsi e quindi presentarsi orgogliosamente al mondo intero. La partecipazione della polizia che sfilava in processione a Granada colpì Leonardo Sciascia, il quale scrisse: «Tra il fercolo del Cristo confortato dall’Angelo e quello della Madonna – un cono di spumeggiante ricamo bianco ed oro con al vertice una testa di bambina – la polizia sfila interminabilmente, generale e ufficiali che aprono la sfilata, ciascuno portando quella specie di alabarda che in Sicilia è delle confraternite artigiane. I lunghi fucili, nuovi o ben lubrificati, inclinati sulla spalla destra, la canna verso l’alto; le mitragliette corte e leggere impugnate invece dalle donne poliziotto, il dito sul grilletto. E sono tante le donne in divisa e mitraglietta» [4].
In effetti bellezza, esibizione di sfarzo e di potenza, sensualità e modernità, con intrinseci pro e contro, si fondono e si condensano negli eventi della Semana Santa di Siviglia. È una festa, «una festa, a seconda dei casi, afferma il poeta Gonzalo Gragera, più umana che divina [5], fatta più di uomini che di santi. «La Semana Santa, festa per eccellenza delle città spagnole, unisce non soltanto una manifestazione esterna di fede e religiosità, ma anche un insieme vistoso nel quale l’uomo manifesta il meglio dei postulati estetici al servizio di Dio. Le arti sono rappresentate praticamente nella loro totalità, con la presenza della musica, della scultura, della sontuosità etc.» [6]. Un ruolo fondamentale, sotto questo profilo, riveste l’arte effimera dell’ornamento floreale dei pasos, al punto che oggi i fiori, profusi in sovrabbondanza e con razionale e simbolica scelta di specie, di forme e di colori, sono divenuti «un elemento indispensabile che contribuisce alla bellezza e alla vistosità nella processione dei pasos lungo le vie» [7]. Per non dire dei broccati e dei ricami in oro e argento dei vestimenti del Cristo e soprattutto delle tante statue della Vergine nei suoi vari titoli, con i lunghissimi mantelli che si lasciano ammirare nella loro bellezza e sontuosità. Ed è significativo che, mentre i visi di queste Madonne piangenti sono difficili da osservare, perché, con indotta discrezione umana, sono coperti dalla selva sapientemente ondeggiante di candele, non importa se accese o no, i mantelli sono totalmente visibili e ammirabili in tutta la loro dimensione ed estensione, a conferma del decoro ricercatissimo e, al tempo stesso, del valore altamente simbolico che, sul piano devozionale, ad essi si attribuisce e ai quali le confraternite non intendono venir meno, incrementando anzi di anno in anno restauri e miglioramenti, come nel caso, proprio quest’anno, del mantello della Virgen de los Ángeles appena restaurato e offerto all’ammirazione del popolo. La gente ha aspettato con curiosità il passaggio del suo palio, e ne è rimasta abbagliata, tanto che un cronista ha scritto: «Dicono che osservare da dietro un palio andare via è un’immagine tra le più radicate nell’immaginario collettivo dei nostri cofrades. Ma guardare questo è un’altra cosa. Se prima del restauro del mantello catturava già la sua contemplazione, ora con i ricami luccicanti e gli avori perfetti, osservare da dietro questo paso è una vera delizia» [8].
Sfarzo, eleganza, sensualità caratterizzano altri aspetti e usanze della Semana sivigliana. Basti pensare ai vestiti neri e alle mantillas rigorosamente nere e ornate di pizzo e merletto, con cui molte donne, nei giorni di giovedì e venerdì, vanno in giro, tra gli sguardi ammirati della gente, a visitare i vari pasos e palios, già pronti in chiese e cappelle delle confraternite, o semplicemente a passeggiare in gruppi per le vie di Siviglia. Saltano subito, agli occhi di chi osserva, la ricercatezza e la raffinatezza sensuale e a volte civettuola di alcune donne così agghindate − col velo di chantilly o tulle nero che scende dall’alto del robusto pettine sovrastante lo chignon in cima al capo − le quali, con sospetta se non finta noncuranza, si muovono tra la folla, ben consapevoli di essere osservate, anche perché la foggia degli abiti contrasta chiaramente con quanto ci si aspetterebbe nell’atmosfera triste che dovrebbe generare la pietas della Semana Santa, la quale ruota attorno alla passione e alla morte di Gesù. Ma a Siviglia la tristezza della circostanza sembra appartenere solo agli occhi che versano lacrime delle varie Madonne e ai visi dei tanti Cristi miti e silenziosi che sfilano nell’arco della settimana. E del resto le stesse lacrime delle Madonne sono in alcuni casi fatte di preziose perle vere o, come nel caso della Macarena, di diamanti, e i mantelli sono coloratissimi oltre che riccamente ornati.
A Siviglia nella Semana Santa è festa tout court, con tutto ciò che il clima festivo comporta, a differenza di quanto avviene invece nelle regioni del nord della Spagna. In Andalusia, ha dichiarato Isidoro Moreno, «le processioni sono la grande festa dello sfarzo e della passionalità. Nell’ambiente c’è luce, colore, movimento, e il rapporto del pubblico con le immagini è molto umanizzato. Si canta, si fanno complimenti alle statue» [9]. Si esalta la bellezza della Madonna, le cui immagini sono in maggioranza giovani, piene di vita e di fascino. Le espressioni di ammirazione raggiungono il culmine nel Guapa! Guapa! che in particolare i gitani, ripetutamente e rincorrendosi con le voci quasi in controcanto, gridano, come ho visto e sentito, alla Macarena, quando questa esce, alle ore due, nella madrugá del venerdì santo. In giro si percepiscono una carica emozionante che toglie il respiro e una vivacità scoppiettante che caratterizza le processioni.«Dopo la fine del franchismo, ha scritto Giorgio Montefoschi, ogni sospetto di reazionarismo, liberando gli spagnoli più caldi, più legati alla tradizione, dal peso di insopportabili connivenze, restituisce al rispetto della tradizione e della festa, a Siviglia e in Andalusia, una pienezza gioiosa che lascia letteralmente di stucco. A ogni ora del giorno e della notte, nel profumo intenso dei fiori d’arancio e degli incensi, lo spettacolo non è costituito tanto dalle processioni degli incappucciati, dal fasto degli addobbi floreali, dalla magnificenza delle statue del Cristo e della Madonna, quanto dal tripudio dei partecipanti: qui carrozze che depositano donne ingioiellate, mantiglie, splendide trine; qui doppipetti, brillantine» [10]. Per significare sinteticamente la complessità e la polivalenza del fenomeno, a Siviglia si suole dire comunemente:
Semana Santa en España:
claveles, peines, mantillas,
lácrimas de laspestañas,
de la Giralda, de Sevilla.
(Settimana Santa in Spagna:/ garofani, pettini, mantiglie,/ lacrime delle ciglia,/ della Giralda, di Siviglia).
Sfarzo e divertimento, insomma, la fanno da padroni, a dispetto delle marce funebri dai suoni striduli e oggettivamente toccanti, che notte e giorno si rincorrono e si rimpiazzano una dopo l’altra nel reticolo viario della città. «Statue troppo ingioiellate, ha scritto Valentina Insinna, riti semipagani, che uniscono risate all’odore d’incenso, santini e semi di girasole – venduti, mangiati e sputacchiati in strada, non per malcreanza, ma solo perché è festa – silenzi come baratri e chiacchiere di chi balla e si bacia, tenendo la famigliola per mano [11]. Lo scrittore francese Dominique Fernandez nel 1992 si domandava quale fosse l’interesse della Semana Santa: «Perché affascina essa? La religione, ancora una volta, non è in gran conto in questa festa, tutta di affabilità e convivialità» [12]. Io stesso ho potuto ampiamente constatare come l’atmosfera di festa finisce, a tratti e a momenti, per prendere il sopravvento sull’aura di pietas religiosa che dovrebbe avere e assumere costantemente l’evento corale di questa che è chiamata la Semana Mayor, con la stessa valenza, cioè, che gli ortodossi, il cui rigore ieratico e liturgico è universalmente noto, attribuiscono alla loro Megàli Evdomàda, Settimana Grande appunto.
A Siviglia crociferi, nazarenos, Cristi, Madonne e Santi avanzano, assai spesso, specialmente nelle vie strette, tra ali di folla, particolarmente costituita da giovani, che, ridendo e chiacchierando anche ad alta voce, consumano tapas, churros con chocolate, bevono di tutto e mangiano panini sui marciapiedi, allegramente motteggiando e sospingendosi per divertimento l’un l’altro, come se accanto a loro non ci fossero persone accalcate a vedere sfilare i pasos e gli stessi nazarenos incappucciati, costretti al rigore formale imposto dalla circostanza. Nei momenti di sosta e di cambio dei costaleros, cioè i portatori dei pesanti pasos, si possono vedere alcuni di costoro che sui marciapiedi, tenendolo ancora sulle spalle o reggendo in mano il costal, un cuscinetto foderato di mussola marrone modellato sugli omeri attorno al collo, che serve a proteggere le loro spalle e i colli spesso sanguinanti nonostante tale precauzione, mangiano avidamente e bevono da lattine e bottiglie, ridendo e scherzando, a qualche metro dal paso di loro pertinenza temporaneamente in sosta. Ma dove si raggiungono vette di vera propria teatralità, in virtù del contesto programmaticamente organizzato, guidato e controllato, è nell’ultimo tratto percorso dalle processioni, quello comunemente detto della carrera oficial, quando, lasciata la calle Sierpes, le processioni avanzano lungo la piazza San Francisco, davanti al grandioso palazzo dell’Ayuntamiento, cioè del Comune, e subito dopo lungo l’Avenida de la Constitución, per entrare in cattedrale e qui effettuare la rituale estación de penitencia, con il passaggio davanti al gigantesco ostensorio d’oro e d’argento che chiamano monumento de la catedral. In quest’area, praticamente off limits per chi non ha prenotato anzitempo a pagamento, si raggiunge il culmine della mondanità che l’evento religioso si porta dietro. La zona è accuratamente delimitata da transenne e paratie che non lasciano vedere nulla di quanto avviene all’interno di essa. Guardiani solerti e rigorosi stanno agli ingressi, a disciplinare il passaggio di quanti hanno pagato per entrare e prendere posto in una delle sedie predisposte, a migliaia e in molteplici file, ai due lati del tragitto. Chi ha pagato può andare e venire a seconda delle sue esigenze e degli orari in cui transitano i pasos che preferisce vedere. Sempre Fernandez ha scritto [13] che egli riuscì a prendere posto in una di quelle sedie lasciate temporaneamente libere. A me invece è capitato di trovare in piazza San Francisco un guardiano assai ligio al suo dovere, che, nonostante io volessi pagare per entrare e prendere posto là dove tanti lasciavano libere le sedie per andare via, si è fermamente rifiutato di farmi passare.
Ho potuto comunque osservare da altri luoghi quanto avviene all’interno della zona recintata e protetta. Qui gli spettatori, nel mare di quindici e persino venti file di sedie, in attesa del transito dei pasos, si deliziano in conversazioni ad alta voce e in risate fragorose, mentre consumano tapas e bevande, dopo aver disposto le sedie a cerchio, in modo da favorire le chiacchiere. Nei pressi della cattedrale ho visto persino alcuni giocare a carte. Molti si alzano, vanno e vengono dai bar vicini compresi nell’area recintata. Salvo poi bloccare ogni divertimento all’arrivo di un paso. Di fatto si aprono e si chiudono, quasi come con degli interruttori, i momenti diversi e tra loro contrastanti di quella che viene vissuta come una kermesse. E della kermesse mantiene le regole e i divieti. Sempre in quella zona, recintata per chi paga come al teatro, i guardiani esercitano il loro ufficio in modo davvero esoso. Nei momenti in cui non transitano dei pasos viene consentito ai pedoni di attraversare l’Avenida de la Constitución, perché possano andare verso la cattedrale o, in senso contrario, verso il Guadalquivir. Ebbene, per impedire che le persone possano vedere i pasos avvicinarsi, le tengono lontane, anche con spintoni, dalla linea d’angolo dei palazzi, costringendole a una ressa all’interno degli stretti passaggi transennati predisposti per l’attraversamento dell’Avenida. Uno spettacolo davvero deprimente vedere persone adulte, turisti soprattutto, che, in attesa di attraversare la via, senz’alcun valido motivo, sotto gli occhi di tutti, venivano ripetutamente spintonate all’indietro, nella calca che occupava quell’imbuto in cui di fatto veniva trasformato lo stretto passaggio. Questo è quanto ho visto, essendone stato imprevedibilmente coinvolto di persona, all’incrocio tra l’Avenida de la Constitución con calle Alemanes da un lato e calle García de Vinuesa dall’altro.
Impressioni simili ne ricavò anche il già citato Fernandez, che scrisse d’aver udito «solamente il brusio continuo della folla, interrotto qua e là per salutare con un silenzio più curioso che devoto il passaggio dei Cristi e delle Madonne. Un po’ come all’opera italiana del passato, quando il pubblico che riempiva la sala non interrompeva le sue chiacchiere se non per i momenti forti, l’apparizione del protagonista, uomo o donna. Il resto del tempo, durante i cori o l’esibizione delle comparse, si chiacchierava, si gustavano gelati, si chiudeva la tendina del proprio palco perché fosse più confortevole; qui, ci si siede sulle terrazze dei caffè, aperti tutta la notte, si trinca una birra o un bicchiere di camomilla, si manda giù un bocadillo al prosciutto crudo… veloce, ci si mette a proprio agio, fino al successivo rullo di tamburi e al successivo giungere di un paso, annunciato dall’oscillazione delle candele al di sopra della lunga onda dei cappucci, dai vapori dell’incenso che fanno oscillare i turiferari e che si mescola al profumo degli aranci [14].
Il rigore organizzativo messo in moto dalle autorità, pur in un quadro, come s’è visto, dai molti chiaroscuri e da tante ambiguità, è la conferma del ruolo che i poteri politico, militare e religioso, nel contesto della macchina anche economica messa in moto nell’arco della Semana, rivestono, ciascuno con la propria competenza e autorità, in una sorta di collaborazione fattuale che salta agli occhi dell’osservatore.
Il giovedì santo accanto al sindaco della città, Juan Espadas Cejas, ben due ministri, quello della Giustizia, Rafael Català, e quello dell’Interno, Juan Ignacio Zoido, sono stati presenti, sul palco appositamente predisposto all’altezza di quel tratto cittadino detto della Campana, al passaggio del palio de las Cigarreras con la Virgen de la Victoria. In quella circostanza il ministro Zoido, parlando alla stampa accreditata e rivolto ai cittadini, ha ricordato loro la necessità «di seguire le raccomandazioni delle forze di sicurezza: “Bisogna ubbidire in ogni momento”» [15]. Una cosa che forse pochi sivigliani sanno è che esiste da secoli una Ronda, formata da un picchetto della Guardia Civil in arma larga e da un rappresentante del Governo, la quale nella notte del giovedì santo, «si è posizionata tra il palio della Virgen del Valle e la Croce di Guida della Pasión da calle Sierpes fino alla Cattedrale. Giunta al controllo della Porta di San Miguel, come di rito, ha declamato la frase “la città è tranquilla e calma” davanti all’arcivescovo Juan José Asenjo Pelegrina. Come autorità del Governo nella Ronda del 2017 c’era Antonio Sanz, il quale ha evidenziato il “buon funzionamento” dei dispositivi di sicurezza. Siviglia si perfeziona ogni anno, ha precisato, per esibirsi davanti al mondo con questa celebrazione religiosa. I sivigliani e le migliaia di visitatori che affollano le nostre strade si stanno godendo la Semana santa con tutte le garanzie. Ogni anno di più i cittadini dimostrano di possedere un’autentica maestria nel sapere convivere in strada» [16]. Nella tarda mattinata del giovedì io stesso casualmente m’ero trovato a vedere da vicino l’arcivescovo, che, girando per le varie chiese in cui c’erano pasos predisposti per le processioni, era venuto nella piccola cappella di San Andrés, nella centralissima calle Orfila, a parlare ai cofrades della Hemandad de los Panaderos, che si apprestavano da lì a poco a uscire col paso del Padre Jesús del Soberano Poder en su Prendimiento e col palio della Virgen María Santísima de la Regla. Fatto un breve discorso, col quale esaltava il ruolo delle confraternite nel buon andamento della Semana e raccomandava ordine e disciplina, l’alto prelato aveva benedetto tutti i presenti me compreso ovviamente. Quello stesso giorno altrove fece un discorso critico sul valore della estación de penitencia, calcolandone il beneficio in termini di percentuale: «Se tutto si riduce alla bellezza dei pasos, alla sfilata col vestito da nazareno, al folklore, la percentuale si ridurrà al 20%. O, per meglio dire, precisò, il beneficio personale di questo tempo che in solitudine trascorrono nazarenos, accoliti, ausiliari e altri servitori si perderà per strada nell’80%. Questa è la realtà» [17]. E il cronista non mancava di sottolinearne la schiettezza: «Solo un prelato può azzardarsi ad applicare i numeri all’esperienza di fare il nazareno. E proprio, poi, un Giovedì Santo, quando le chiese traboccano di persone, con code di attesa nei paraggi, quando un altoparlante appena appena può far fronte al rumore, quando la confusione che c’è dentro le chiese a stento permette di prestare attenzione a un discorso sull’eucaristia» [18].
Il giorno dopo, ch’era venerdì santo, sul “Diario de Sevilla” l’Arcivescovo esaltava quanto avveniva allora per le vie della città con le seguenti parole: «Le manifestazioni pubbliche della pietà popolare sono state e continuano ad essere fonte inesauribile di evangelizzazione e di educazione alla fede, “il vangelo nella strada”, il mistero pasquale di Cristo morto e risuscitato, che la pietà popolare esprime con suprema bellezza e plasticità» [19]. L’alto prelato prendeva però le distanze dal rischio della secolarizzazione delle manifestazioni di pietà popolare, ben consapevole della complessità e delle contraddizioni in esse massicciamente presenti e articolate, precisando subito: «Logicamente, dobbiamo fare in modo che i valori culturali e la bellezza che contengono le manifestazioni della pietà popolare non occultino, secolarizzino o svuotino di contenuto la dimensione religiosa che le è consustanziale, poiché tali manifestazioni sono innanzitutto atti di pietà e di penitenza, di catechesi ed evangelizzazione e anche chiamata alla conversione, in quanto la contemplazione di un Cristo barocco, lacerato, disarticolato ed esangue, nel silenzio della notte di Venerdì Santo rotto solamente dalle marce processionali o dal lamento compassionevole delle saetas, ci interpella, commuove e suscita in noi la compunzione del cuore» [20]
È sempre incombente il rischio di degenerazione delle manifestazioni della pietà popolare nell’ambito della Semana Santa di Siviglia. Su di essa dovette intervenire, già negli anni della guerra civile, l’arcivescovo della città, cardinale Pedro Segura y Sáenz, il quale pubblicò, nel marzo del 1938, una Declaración sobre las Procesiones de Semana Santa de Sevilla, con la quale ricacciava i sospetti di leggenda nera che gravavano sulle manifestazioni religiose della Semana Sivigliana e confutava le dichiarazioni pubblicate due mesi prima nella rivista “Lumen”, dal vescovo portoghese di Lamego, Agostino de Jesus e Souza. Questi, infatti, riportando il pensiero di uno scrittore portoghese il quale in anonimato sulla rivista “Renacimiento” aveva bollato di “paganesimo” la Semana Santa, aveva scritto: «Molte persone hanno accompagnato scalze le processioni. Davanti alla processione ci si soffermava molte volte, affinché i devoti potessero con balli che qua e là si organizzavano, quando meno ce lo si aspettava. Una ballerina famosa che stesse lì a vedere sfilare il paso della processione veniva coinvolta nell’azione del ballo, senza farsi invitare. E c’è da credere che apparisse lì precisamente per le sue abilità nella danza» [21]. Il vescovo portoghese si spinse fino a vedere nella guerra civile spagnola «un evidente castigo di Dio per simili balli davanti ai pasos della confraternite della Semana santa di Siviglia» [22]. A lui così rispondeva Segura, sulla linea comune alle dichiarazioni di ogni alto prelato in ogni epoca: «Insinuare, in modo tanto inopportuno, che la causa della grande disgrazia spagnola siano state le belle processioni della Semana Santa di Siviglia è essenzialmente inqualificabile… Le antichissime processioni della Semana Santa di Siviglia con le loro file interminabili di hermanos, con la loro immensa moltitudine di compunti ammiratori, con le loro immagini venerande che ordinatamente sfilano giorno e notte per tutte le strade, sono un’opera eccelsa della quale esse legittimamente si gloriano e che forse non ha simili in tutta la Cristianità» [23].
Questione antica e sempre nuova, il rischio della secolarizzazione. Basti pensare che negli anni Settanta del secolo scorso, per effetto del vento che soffiava nella chiesa con la primavera annunciata dal Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, quello stesso che anche in Italia indusse i vescovi a sopprimere gran parte delle processioni sacre [24], «le gerarchie ecclesiastiche si opposero direttamente al fenomeno della Semana Santa e delle confraternite e a mala pena lo tennero in conto, perché lo consideravano sorpassato o persino “dubbiosamente cristiano”» [25]. Oggi invece le gerarchie ecclesiastiche «insistono in un maggiore protagonismo e in un più stretto controllo delle confraternite» [26], anche se continuano ad esistere «un certo nuovo clericalismo e alcune tendenze integriste difficilmente compatibili con le caratteristiche del modello sivigliano di Semana Santa» [27].
Il problema sussiste realmente, come dimostrano le parole prudentemente altalenanti dell’arcivescovo, e non è di facile soluzione, legato com’è ai tempi che continuamente cambiano e al conseguente mutamento di costumi e abitudini della gente, nonché al rinnovamento e alla evoluzione delle idee e dei riferimenti socio-antropologici, cui non possono sottrarsi nemmeno le persone meglio equipaggiate sul piano culturale, comprese quelle che, in virtù del loro ruolo ministeriale, sono preposte a discernere nei cosiddetti segni dei tempi e a guidare rettamente quanti sono loro spiritualmente affidati. Oggi, purtroppo, gli aspetti della spettacolarizzazione, del divertimento, e l’occhio rivolto alla risonanza che i mezzi di comunicazione della società globalizzata assicurano alla kermesse sivigliana, sono parte fondante e, temo irrinunciabile, di tutto il contesto, per certi aspetti rutilante, in cui si sviluppa la Semana. «Se si accentua, è stato scritto, il suo adattamento alla logica globalizzatrice del mercato, la Semana Santa potrebbe rimanere, forse, in molti dei suoi elementi formali, ma perderebbe molte delle sue funzioni e dei suoi valori culturali più significativi. Dall’essere un rituale in cui si festeggia il rinnovamento della vita … si trasformerebbe in un ulteriore indice della mercantilizzata società dello spettacolo» [28]. Sotto questo profilo sono interessanti le osservazioni fatte dal teologo Pablo Tirado Marro, quando ha scritto che «c’è una caratteristica essenziale di questa religiosità che confluisce nella logica del neopaganesimo attuale. È certo che si dà una pietà popolare in molti casi, ma, con frequenza, con grandi dosi di profano-magico» [29].
In questa direzione i segni sussistono tutti. Basta solamente osservare quanto avviene nella notte tra il giovedì e il venerdì, nella cosiddetta madrugá, attorno a quella che è considerata la regina di tutte le Madonne venerate a Siviglia, cioè la celeberrima Virgen María Santísima de la Esperanza Macarena, alla quale una miriade di poeti, scrittori, drammaturghi, artisti d’ogni specie e d’ogni dove ha dedicato poemi, saetas, pregones e opere artistiche di varia natura. È lei, la Macarena, la sintesi alta e, per questo, oggetto di attesa speciale, di tutta la Semana Santa. Su di lei esiste una letteratura sterminata, a lei sono state dedicate riviste, bollettini periodici e da decenni, la sera della vigilia, i cosiddetti pregones, sorta di panegirico-relazione, affidata di anno in anno a scrittori, giornalisti e studiosi vari, la cui serie dedicata direttamente alla Macarena ebbe inizio nel 1973. Così, tanto per citare un esempio, già il 23 marzo del 1969, lo scrittore e giornalista Domingo Manfredi Cano all’interno del suo pregón, per così dire generale, aveva dedicato un paragrafo alla Macarena nel quale tra l’altro diceva:
Nuestra Esperanza,
la reina de Sevilla,
la rosa más bonita del rosal de Sevilla,
el arcoiris de las tormentas de Sevilla,
la novia de los poetas,
la musa de los artistas,
la Esperanza entreñable,
para la que yo he arrancado de mi corazón esta saeta:
Bonita como ninguna;
sobre tu cara morena,
la blancura de la luna
pone color de aceituna,
Esperanza Macarena! [30]
(Nostra Esperanza,/ la regina di Siviglia,/ la rosa più graziosa del roseto di Siviglia,/ l’arcobaleno delle tempeste di Siviglia,/ la sposa dei poeti,/ la musa degli artisti,/ la Speranza profonda, per al quale ho tratto dal mio cuore questa saeta: Bella come nessuna;/ sul tuo viso bruno,/ il candore della luna/ dà il colore dell’oliva,/ Esperanza Macarena!).
Il poeta Fernando Villalón alla Macarena dedicò i seguenti versi:
Madre mia de la Esperanza,
Novia de los macarenos!
La de la noche en los ojos!
La de la gracia en el cuerpo,
bordado de lentejuelas
como el cuerpo de un torero!
La más bonita del barrio!
Llévame contigo al cielo
y enseñame aquella cosas
a mí, que soy macareno [31].
(Madre mia della Speranza,/ Sposa dei macareni!/ Quella della notte negli occhi!/ Quella della grazia nel corpo,/ ricamato di lustrini/ come il corpo di un torero!/ La più bella del quartiere!/ Portami con te in cielo/ e insegnami quelle cose/, a me, che sono macareno). Anche i fratelli Machado contribuirono con i loro versi agli omaggi alla Semana Santa, sia pure con sfumature diverse. Manuel, infatti, coerente con le sue scelte politico-ideologiche, alla Macarena declinò versi, conformandoli al sentire tradizionale della mentalità corrente nel pieno clima della guerra civile, che lo vide schierato con i nazionalisti. Nel marzo del 1937 pubblicò il seguente sonetto, che si presenta con i connotati di una saeta e nel quale sono evidenti i segni dell’indirizzo religioso che prese la sua poesia negli ultimi anni di vita del poeta:
Virgen de la Esperanza! Macarena!
Y una explosión de sol y armonía,
y un fluir generoso de alegría…
y un sentir que está el alma todallena!
Virgen de la Esperanza..! En tu morena
cara divina, el sevillano día
toma toda la luz de su poesía…
Mañana de cristal, tarde serena.
Ay, de no amar, de no creer no hay modo
cuando tu imagen célica aparece
mecida entre el incienso en lontananza..!
Ay, mi Sevilla, que lo tiene todo
cuando el Señor del Gran Poder le ofrece
la Fe y la Caridad… Tú, la Esperanza! [32].
(Vergine della Speranza! Macarena!/ E un’esplosione di sole e armonia,/ e un fluire generoso di allegria…/ e un sentir che il cuor n’è tutto pieno!// Vergine della Speranza..! Dal bruno volto/tuo divino, il giorno di Siviglia/ prende la luce tutta della sua poesia…/ Mattina di cristallo, sera serena.// Ahi, non c’è modo di non credere e amare/ quando appare la tua immagine celeste/ cullata nella nuvola d’incenso in lontananza..!// Ahi, Siviglia mia, che ce l’ha tutto/ quando il Signor del Gran Poder le offre/ la Fede e la Carità… Tu, la Speranza!).
Ben altra disposizione d’animo e visione critica, invece, rivelò il fratello Antonio nei riguardi delle manifestazioni di pietà popolare della Semana Santa. Con riferimento ai versi di una notissima saeta popular, che dice:
Quién me presta una escalera,
para subir al madero,
para quitarle los clavos
a Jesús el Nazareno? [33].
(Chi mi porge una scala,/ per montare sul palo,/ per togliere i chiodi/ a Gesù Nazareno?) [34], Antonio Machado, nel suo sentire, che definirei evangelicamente laico, così intimamente protesta:
Oh, la saeta, el cantar
al Cristo de los gitanos,
siempre con sangre en las manos,
siempre por desenclavar!
Cantar del pueblo andaluz,
que to das las primaveras
anda pidiendo escaleras
para subir a la cruz!
Cantar de la tierra mía,
que echa flores
al Jesús de la agonía,
y es la fe de mis mayores!
Oh, no eres tú mi cantar!
No puedo cantar, ni quiero
a ese Jesús del madero,
sino al que anduvo en el mar! [35].
(Oh la saeta, il canto/ al Cristo dei gitani,/sempre con sangue nelle mani,/ sempre da schiodare! Canto del popolo andaluso,/ che tutte le primavere/ va chiedendo scale/ per salir sulla croce!/ Canto della mia terra/ che getta fiori/ al Gesù dell’agonia,/ ed è la fede dei miei padri!/Oh non sei tu il mio canto!/ Non posso cantare né amo/ codesto Cristo del palo,/ ma colui che camminò sul mare!) [36]. Un altro chiaro riferimento ai rituali della Semana Santa sivigliana e ironicamente alla superficialità con cui ad essi ostentatamente partecipano, per rifarsi un’immagine sociale rispettabile, anche persone che a causa della loro dubbia moralità, non dovrebbero, Machado ha lasciato in Llanto de las virtudes y coplas por la muerte de don Guido, usando parole ferme e taglienti:
Gran pagano,
se hizo hermano
de una santa cofradía;
el Jueves Santo salía,
llevando un cirio en la mano
-aquel trueno!-,
vestido de nazareno [37].
(Gran saraceno,/ si fece fratello/ d’una santa confraternita;/ usciva il Giovedì Santo,/ con un cero nella mano/ — lo sciampagnone! –,/ vestito da nazareno) [38].
La confraternita di María Santísima de la Esperanza Macarena fu fondata dalla corporazione degli ortolani nel 1595 e nel 1654 si stabilì nella parrocchia di San Gil, la cui chiesa venne distrutta durante la guerra civile del secolo scorso. Alla seconda metà del Seicento, secondo gli esperti, in base allo stile che la caratterizza, si fa risalire la scultura lignea della statua della Vergine titolare dell’omonima basilica, che venne ricostruita, in un sito vicino alla chiesa distrutta, a partire dal 1941 e aperta al culto nel 1949. Alla sua costruzione è legato un personaggio il cui operato divide ancora oggi i sivigliani e gli spagnoli devoti alla Macarena. Si tratta del generale Gonzalo Queipo de Llano y Sierra, che dal Gerneralísimo golpista capo fu mandato, durante la guerra civile, a combattere contro i resistenti della “rossa” Siviglia e a «pacificare l’Andalusia a piombo e sangue [39]. Si vantava di aver annientato 100 mila rojos con appena 130 soldati… In quell’orgía de sangre, il sessantenne Queipo rivelò insospettabili talenti mediatici. Si mise a guidare processioni; dai microfoni di Radio Sevilla prese a lanciarsi in veementi tirate contro la “marmaglia marxista”» [40]. Alla sua morte, il 19 marzo del 1951, egli venne inumato nella cappella del Cristo Salvatore all’interno della basilica della Macarena, da lui fatta ricostruire con i soldi che aveva raccolto tramite una sottoscrizione popolare. A Siviglia «è uso ripetere che quando lo seppellirono la terra tremò» [41]. Recentemente ci sono state clamorose proteste, anche di donne, perché si vorrebbe che i resti di Queipo fossero portati fuori dalla basilica della Madonna più venerata di Siviglia. «Nel 2009 la famiglia del generale accettò che dalla lapide sepolcrale fossero cancellati tutti i riferimenti militari e all’alzamiento franchista. Ora c’è scritto solo: “Qui riposa nella pace del Signore l’Hermano onorario don Gonzalo Queipo de Llano y Sierra 1875-1951”» [42]. Il generale, infatti, ha recentemente dichiarato Antonio García, il fiscal mayor, cioè il responsabile del rispetto delle regola delle comunità religiosa, fu sepolto nella celebre basilica «non come militare ma in quanto hermano mayor onorario» [43]. Il ripiego non sembra aver calmato le acque, e la Confraternita si trova ancora a dover fronteggiare lo spinoso problema, stanti le resistenze di quanti continuano a protestare.
D’altra parte i rapporti tra il generale e la Confraternita erano stati forti, anche perché, secondo quanto dichiarato da Andrés Luque, consulente per il patrimonio artistico della Confraternita, «quando si trattò di donare allo Stato l’oro della Comunità, come ordinato dal Movimiento franchista, lui lo incamerò, però senza farlo fondere, e in seguito lo restituì» [44]. A conferma, ciò, del complesso e ambiguo rapporto, in ogni tempo, tra potere politico e potere religioso e dintorni del quale si è detto. La querelle sulla tomba di Queipo è la sintesi di questo rapporto, «perché, ha scritto Marco Cicala, l’Andalusia e la sua capitale Siviglia sono una realtà bifronte: storiche roccaforti socialiste, ma anche posti dove – almeno nelle sue manifestazioni pubbliche – la devozione popolare è radicata, massiccia, influente in politica e con un peso economico tutt’altro che disprezzabile. Tanto per capirsi. Con circa 60 confraternite, ogni anno in città le processioni della Settimana Santa muovono affari per 300 milioni di euro [45].
Ogni polemica, ogni conflitto nell’arco della Semana Santa vengono oggettivamente sospesi, perché l’interesse della città è totalmente rivolto alla sua autorappresentazione davanti al mondo intero, e perciò la Macarena, fatta scendere dall’altare maggiore, dove sta tutto l’anno, passa davanti alla tomba del generale, esce dalla basilica e fa il suo cammino processionale di circa tredici ore con la estación de penitencia in Cattedrale e il successivo ritorno in basilica. Imponente e fantasmagorico sempre l’evento della madrugá, che ha inizio alla basilica della Macarena alle ore ventiquattro in punto, quando, come ho constatato di persona, si apre il portone centrale, per lasciare passare la lunga, interminabile processione di 3.250 nazarenos, seguiti da più di cento armaos. Questi sono i componenti della Centuria romana che accompagnano il paso di Nuestro Padre Jesús de la Sentencia, avanzando lentamente con passi di danza che nulla hanno di marziale e che sono coreograficamente disegnati con movimenti geometrici dei piedi studiati per rendere più evidente il già mellifluo ondeggiare delle lunghe piume di struzzo che stanno in cima agli elmi, progettati, così come le uniformi, agli inizi del Novecento, nel laboratorio di Juan Manuel Rodríguez Ojeda, «disegnatore e ricamatore sivigliano che impresse alla Semana Santa la sua particolare impronta, imponendo uno stile che fu copiato e imitato successivamente» [46]. Le corazze che indossano i centurioni sono state ridisegnate da Jesús Domínguez negli anni Cinquanta del secolo scorso.
L’effetto visivo è straniante, perché il movimento caratteristico che viene fuori dalle candide piume di struzzo disposte a ventaglio sugli elmi e quello sdolcinato dei piedi degli armaos muniti di corazza, più che ai centurioni romani del pretorio di Ponzio Pilato hanno riportato la mia mente alle immagini della soubrette francese Zizi Jeanmaire, che negli anni Sessanta del secolo scorso veniva a danzare alla televisione italiana, muo- vendo con grazia femminile attorno al suo corpo ampi ventagli di bianche piume di struzzo in tutto uguali ai pennacchi degli armaos sivigliani. Armaos da kermesse popolare questi centurioni, e la cosa mi fa venire in mente anche un’annotazione di Leonardo Sciascia a proposito delle donne poliziotto viste da lui a Granada, delle quali scrive: «Un po’ rassicura, di queste donne-poliziotto armate e quasi tutte prive di dolcezza nel volto e nel corpo, il passo ondulante che accentua quelle forme che la divisa nasconde: il passo che tengono tutti quelli che vanno in queste processioni – due laterali, uno a destra e uno a sinistra, uno in avanti – ma che in loro acquista un che di avanspettacolo, quasi un ricordo della “mossa” che gli spettatori dei café-chantant una volta invocavano» [47].
Gli armaos di rito non sono soltanto con la Macarena, perché altri cofrades vestiti da soldati romani partecipano alla processione del Santo Entierro nella giornata di sabato, partendo dal Convento di San Gregorio. Là dove questi centurioni appaiono più credibili, nonostante il piumaggio ostentatamente ingombrante, è nella visita che fanno agli ammalati degenti nell’ospedale vicino alla basilica. I 129 centurioni si distribuiscono nei vari piani dell’ospedale, portando a tutti immaginette sacre della Macarena, e nel reparto pediatrico regalano ai bambini soldatini romani, che in qualche caso non sono sufficienti a diradare la paura che le armature corazzate incutono ai più piccoli, alcuni dei quali scoppiano a piangere quando vedono arrivare gli armaos [48].
La Centuria romana, partendo dalla basilica, dietro ai nazarenos, e avanzando col suo passo dalla singolare cadenza, lascia dietro di sé spazio al paso di Nuestro Padre Jesús de la Sentencia. Seguono altri nazarenos e finalmente, alle 01:40, spunta dal portone della chiesa il palio preziosissimo della Macarena, colei che è salutata con una infinità di appellativi tra i quali: Emperadora de España; Macarena y Soberana; Gitana, Pura y Bendita; Madre de los sevillanos; Alma de Andalucía; Sol de la Macarena; Luz del cielo; Lucero de la Mañana; Siempre Estrella y siempre Aurora de Bonanza. A lei nel corso del Novecento sono state dedicate, oltre che poesie e opere letterarie di vario genere, bollettini a stampa specifici e riviste [49]. Il suo culto è così profondamente radicato nei sivigliani che lei è anche trattata come una di loro, una sivigliana di rango, una che può soffrire e vestire a lutto per un figlio straordinario della città, come accadde il 31 maggio del 1920, allorché fu vestita a lutto, unica volta in tutto il secolo, per la morte, avvenuta durante una corrida a Talavera, del torero Joselito el Gallo, il quale, oltre ad essere allora “el rey de la torería” aveva contribuito finanziariamente alla creazione dell’uniforme degli armaos della Centuria romana [50], oltre ad aver donato le cinque stelle di smeraldo che ornano il petto della Macarena [51]. A lei tra Otto e Novecento hanno dedicato il loro canto celebri saeteros e saeteras [52].
All’uscita dalla basilica il palio della Macarena viene salutato dalla struggente musica eseguita dalla banda del Carmen de Salteras e soprattutto dalle ripetute grida di Macarena! Macarena! Guapa! Guapa! che salgono continuamente dalla folla che assiste, finendo anche, in certi momenti, per distogliere dal palio l’attenzione dei presenti, che si danno alla ricerca dei volti delle persone, soprattutto donne, che gridano a squarciagola. In particolare sono gruppi di gitane a gridare con atteggiamenti e movenze teatrali qua e là nella grande piazza antistante la basilica. All’interno dell’atrio il palio sosta, per permettere a un cantaor di lanciare una saeta alla Virgen dal balcone del palazzo adiacente alla chiesa. Quindi attraversa il cancello e lentamente, al suono della marcia Pasa la Macarena, vira a destra, per andare a fermarsi pochi metri più avanti davanti a un altro balcone a sinistra della chiesa. Conclusa l’esecuzione della marcia, immediatamente da quel balcone una biondissima cantaora lancia, a sua volta, una saeta a colei che definisce ripetutamente Estrella che brilla tra luna e stelle, modulando la tipica cadenza del suo canto con virtuosismi davvero straordinari. Virtuosismi tanto struggenti che, quando finisce il canto, si sente esplodere un fragoroso, lungo applauso, che francamente non ho esattamente capito se fosse diretto alla bellezza della Macarena splendente tra le candele sotto il suo palio, o alla bravura della cantaora, che era stata ripresa da varie televisioni lì operanti e da migliaia di cineprese e smartphone, come in uno spettacolo di metateatro nel quale non si distinguono più attori e spettatori. Io stesso sono stato trascinato, mio malgrado, in un lacerto di metateatro popolare, quando mi sono improvvisamente sentito strattonare per il braccio destro e coprire di minacciosi insulti ad opera di alcune signore, dai visi perentoriamente fatti truci, che stavano attorno a me, soltanto perché, per quel che potei capire, con la mano destra, sollevata per riprendere con lo smartphone il palio che, superato l’arco, avanzava verso di me, avevo involontariamente coperto per qualche attimo la visuale di una di esse. Erano le stesse signore che già da un po’ si sgolavano al grido di Macarena! Guapa! Guapa! Col mio silenzio stupefatto e abbassando la mano, fortunatamente per me, riuscii a controllare la situazione, rovinando a quelle signore la loro sortita, per così dire, metateatrale. Altro che pietà devozionale! La difesa strenua e volgare dello status quo nella statica e anchilosata posizione delle braccia, impedite nei movimenti da quella ressa di devoti alla Reina di Siviglia, aveva avuto il sopravvento su tutto, nel mentre il palio della Macarena già si allontanava lungo la calle San Luis, diretto alla cattedrale. Dopo tutto mi veniva prepotentemente da pensare che i timori e le cautele dell’Arcivescovo erano fondati, se quel che salta all’occhio, all’orecchio e, nel mio caso, anche al braccio destro, è una sorta di autorappresentazione, giocata fino all’orgasmo e al delirio collettivo, senza quasi nulla di intrinsecamente sacro, ma con grande valenza teatrale in ogni aspetto: nei costumi, nei movimenti, nei gesti, nei commenti musicali, nelle saetas lanciate dai balconi sotto le riprese televisive per il consumo della platea mondiale; teatro collettivamente rappresentato e vissuto da un’intera città che in esso ha tutta l’aria di riconoscersi e, si direbbe, di autoincoraggiarsi.
Una nota decisamente diversa ho potuto comunque riscontrare in una processione, l’ultima del Venerdì Santo, a conferma che a Siviglia è anche possibile adottare un rigore di matrice religiosa ispirato al senso della misura e del raccoglimento. Si tratta della processione della Sagrada Mortaja, che ha inizio alle ore 20:00, partendo dalla cappella dell’ex Convento de la Paz in calle Bustos Tavera, dove ha sede l’omonima Confraternita. Mi era stata segnalata, e devo riconoscere a ragion veduta, dal mio amico poeta Miguel Ángel Cuevas, del quale sono stato ospite nel mio soggiorno a Siviglia. Sono grato a lui anche per questa segnalazione, poiché la vista della processione della Mortaja da sola è servita a farmi, per così dire, riconciliare con il contesto della Semana Santa di Siviglia. Questa processione, infatti, è caratterizzata da alcuni aspetti che la rendono unica nel mare delle sessantuno che corredano l’intera Semana. Ho visto uscire dalla cappella e snodarsi per calle Bustos Tavera e poi per calle Doña María Coronel una processione ordinatamente disposta, perfettamente composta in tutti i dettagli e nei comportamenti di quanti vi prendevano parte in assoluto silenzio, un silenzio straordinario, quasi siderale, nel quale sprofondavano tutti, i partecipanti da una parte e il pubblico, a ciò ovviamente indotto, dall’altra.
Nell’attesa che dalla piccola cappella uscisse il paso, i nazarenos, già sfilati per via e fermi, tenevano un atteggiamento consono alla circostanza, pregavano a fior di labbra facendo scorrere tra le dita i grani della coroncina del rosario, fronteggiandosi l’uno l’altro dai due bordi della strada. Nessuna distrazione per loro. Stesso raccoglimento silenzioso, di un silenzio straniante, negli altri partecipanti, tra portatori dei diciotto ciriales d’argento, crociferi, turiferari, trecentocinquanta nazarenos con croci sulle spalle e oficiales e ausiliari vari nella divisa della Confraternita. Soltanto al momento dell’uscita del paso è stato rotto questo silenzio, non però da una banda musicale bensì da un coro di uomini e donne che cantavano in latino sotto la direzione di un maestro che procedeva lentamente a ritroso, e tuttavia, quando il coro si è allontanato, è tornato il silenzio assummusu, come si dice in Sicilia, cioè commovente, scandito dai comandi che in sordina il capataz, Antonio Santiago, dava ai trentanove costaleros che portavano il paso, il quale rappresenta la Deposizione dalla croce e prende il nome dalla mortaja, che è il sudario usato da Giuseppe D’Arimatea e da Nicodemo sul Calvario.
L’ordine, la compostezza e il silenzio di questa processione mi hanno ricordato la sola processione che nell’ambito di una Settimana Santa, le somigli: quella del Venerdì Santo a Enna [53]. Ho visto poi, intorno alla mezzanotte, sfilare senza banda musicale dietro e in assoluto silenzio, sotto l’illuminazione pubblica ridotta, il paso della Mortasa in piazza San Francisco, proprio davanti al palazzo dell’Ayuntamiento. Questa volta anche gli spettatori paganti stipati ai lati della carrera oficial erano costretti al silenzio, un silenzio in altri momenti là sconosciuto e perciò assente. Avvicinandosi alla cattedrale, il paso della Mortaja, muovendosi lentamente nella penombra di quel paesaggio divenuto surreale, imponeva a tutti il silenzio. Il teatro era finito, sulla scena calava progressivamente ma inesorabilmente il sipario. Ancora più austero e significativo è il rientro del paso della Mortaja. La calle Bustos Tavera aspetta la processione in totale oscurità, ed è davvero inquietante come, da calle Doña María Coronel, si odono sempre più vicini i colpi del muñidor, che col suo malinconico suono sembra annunciare che la Semana Santa va chiudendosi. Tutto, infatti, lì si conclude nel silenzio e nella riservatezza, in un’atmosfera che mi ha riportato alla mente quanto avveniva ad Avola la notte del Venerdì Santo fino agli anni ottanta del Novecento.
Allora, conclusa la processione dei misteri della cosiddetta Spina Santa, il signor Pierino Valvo [54], per antica tradizione familiare, insieme con la moglie e le figlie, avvolgeva in un lenzuolo di sua proprietà, annualmente riservato a questo pio ufficio, il corpo del Cristo tolto da monumentu di cristallo e oro zecchino col quale era stato portato in processione solenne per le vie della città, per risistemarlo sulla sua croce in chiesa madre, sua sede. Ciò avveniva con calma, in assenza di pubblico, essendosi ormai chiusa la parte ufficiale del rituale in programma. Ed era commovente, assummusu, per chi si fosse ancora attardato per le vie della città all’una di notte, vedere i quattro familiari Valvo che, da soli, in silenzio, nel buio delle strade ormai deserte, sorreggevano, con spalle e braccia opportunamente disposte a quel compito, il lenzuolo con la statua del Cristo che riceveva, in tal modo, tutto il rispetto, la cura e la tenerezza che si devono a un cadavere. In effigie esattamente quanto era avvenuto duemila anni prima nella fretta, nella solitudine, nel silenzio e nella cura che Giuseppe D’Arimatea e Nicodemo avevano dedicato al corpo reale del Nazareno.
Nella Semana Santa di Siviglia non si incontrano per le strade il raccoglimento interiore e l’invito alla preghiera, cioè al dialogo con Dio, che solo dal silenzio autentico, quello creativo, che nasce dall’ascolto obbediente, possono esser generati. Chi vuole trovarli, deve cercare in qualche edificio sacro nel quale in quei giorni non ci siano pasos preparati per le processioni, o in qualche piccola cappella aperta proprio per consentire, a chi vuole, di pregare in silenzio. L’ho personalmente constatato in pieno centro di Siviglia, nella cappella di San José in calle Jovellanos, dove ho trovato gente in orazione e un frate in abito bianco che confessava in continuazione persone, tra cui molti stranieri, le quali avevano voltato le spalle al fragore della kermesse che infuriava fuori, per ritrovarsi da sole con sé stesse in uno spazio che lo permettesse. Non a caso in quei giorni qualcuno ha scritto sulla stampa di Siviglia: «La chiave del Giovedì Santo sta all’interno dei conventi, lì dove si conserva sotto chiave il Mistero con la maiuscola. Dio nel tabernacolo. Il meccanismo è semplice e delicato. Un silenzio d’argento comunica il brivido. Fuori, per la strada, scorre la vita nella grandiosa allegoria della Semana Santa. Tutto fluisce e il tempo sfugge attraverso le fenditure della sabbia. La città vibra, si espande e si contrae, prova inutilmente a fermare le comete e gli orologi, gli astri nella loro orbita e le lancette che girano al ritmo del Girardillo. Dentro, un silenzio statico ed estatico. Il silenzio di Dio, che dice tutto senza dir nulla» [55].
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Note
[1] Già nel 2005 il numero di nazarenos, a trentasei anni dalla fondazione, avvenuta nel 1969, della Hermandad Sacramental de Congregantes de la Inmaculada Conceptión y Cofradía de Nazarenos del Santísimo Cristo de al Sed y de María Santísima de la Consolación, era di 1650 (cfr. J. Carrero Rodriguez, Anales de las Cofradías Sevillanas: 223-234.
[2] J. Macías, Miércoles Santo en el Ecuador: de la sed al refugio en la sombra, in “ABC”, 13 aprile 2017: 34. Le traduzioni dallo spagnolo e dal francese presenti in questo saggio sono tutte mie, tranne quella dei versi di Antonio Machado, il cui traduttore, Oreste Macrì, è nominato nel corpo del testo.
[3] F. Robles, El calor que refresca,, in “ABC”, 13 aprile 2017: 32.
[4] L. Sciascia, Ore di Spagna, Pungitopo, Marina di Patti 1988: 34.
[5] F. Machuca, Gonzalo Gragera. Mi Semana Santa se condensa en el trio final de Pasa la Macarena, in “ABC”, cit.: 44.
[6] S. Jiménez Barreras, Devoción, estética y fiesta. El exorno floreal en la Semana Santa de Sevilla, in AA. VV., La Semana Santa: Antropología y Religión en Latino América, a cura di J. L. Alonso Ponga, D. Álvarez Cineira, P. Panero García, P. Tirado Marro, Ayuntamiento de Valladolid,Valladolid 2008: 291.
[7] Ibidem.
[8] R. Avilés, La delicia de ver a un palio irse, in “El Correo de Andalucia”, 14 aprile 2017: 7.
[9] R. Ruiz, Semana Santa en Caleidoscopio, in “ El País”, 8 aprile 1990.
[10] G. Montefoschi, Sinfonia in viola e nero, in “Il Messaggero”, 18 aprile 1992, cfr. S. Burgaretta, Pasos e misteri, in AA.VV. La forza dei simboli. Studi sulla religiosità popolare, a cura di I. E. Buttitta e R. Perricone, Folkstudio Palermo 2000: 68, poi in S. Burgaretta, Sicilia intima, Emanuele Romeo editore, Siracusa 2007: 127.
[11] V. Insinna, Passione andalusa, “I viaggi di Repubblica”, a. II, n. 22, 2 aprile 1998; cfr. S. Burgaretta, Pasos e misteri, cit.: 68; poi in Idem, Sicilia intima, cit.: 128.
[12] D. Fernandez, Séville, Stock, Bienne 1992: 53.
[13] Ivi: 38.
[14] D. Fernandez, op. cit.:53-55.
[15] M. J. Fernández, Con la venia del ministerio, in “El Correo de Andalucia”, cit.: 2.
[16] M. J. Morón Sevilla, La Ronda, “la ciudad está sosegada y en calma”, “ABC”, 14 aprile 2017: 37.
[17] C. Navarro Antolín, Las mejores horas, in “ El Palquillo” del “Diario de Sevilla”, 14 aprile 2017.
[18] Ibidem.
[19] J. J. Asenjo Pelegrina, Manantial de evangelización, in “Diario de Sevilla”, 14 aprile 2017: 6.
[20] Ibidem.
[21] C. Ros, La Semana Santa de Sevilla y el cardenal Segura, in “ABC”, 13 aprile 2017: 43.
[22] Ibidem.
[23] Ibidem.
[24] Cfr. S. Burgaretta, Note di aggiornamento ad Avola festaiola di Gaetano Gubernale, Associazione Filodrammatica Avolese, Avola, 1988: 23 e nota n. 11.
[25] I. Moreno Navarro, La Semana Santa andaluza como “hecho social total” y marcador cultural: continuidades, refuncionalizaciones y resignificaciones, in AA.VV., La Semana Santa, cit.,: 203.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem.
[28] Ibidem.
[29] P. Tirado Marro, Religiosidad popular cristiana o neopaganesimo tardomoderno aparentemente cristiano?, in AA.VV., La Semana Santa, cit.: 61.
[30] A. Hermosilla Molina, La Macarena en la literatura y en los pregones de Semana Santa, in A.A. V.V., Esperanza Macarena, Ediciones Guadalquivir, Sevilla 1989: 419.
[31] Ivi: 402.
[32] Il sonetto fu pubblicato in “ABC” a Siviglia il 21 marzo 1937.
[33] A. Machado, La saeta, in Idem, Tutte le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 2010, vol. I: 290.
[34] Traduzione italiana di O. Macrì in A. Machado, op. cit. vol. I : 291.Cfr. S. Burgaretta, Pasos e misteri, cit.: 65; poi in Idem, Sicilia intima, cit.: 123.
[35] A. Machado, op. cit.: 290, 292.
[36] Traduzione italiana di O. Macrì in A. Machado, op. cit., vol. I: 291,293.
[37] A. Machado, op. cit., vol. I : 302.
[38] Traduzione italiana di O. Macrì in A. Machado, op. cit., vol. I: 303.
[39] M. Cicala, Un intrigo di tombe, dittatori e madonne, in “il Venerdì di Repubblica”, n. 1548, 17 novembre 2017: 39.
[40] Ivi: 41.
[41] Ivi: 39.
[42] Ibidem.
[43] Ivi: 40.
[44] Ibidem.
[45] Ibidem.
[46] J. A. Zamora, Pasiones. Semana Santa en Sevilla, Sevilla 2008: 11.
[47] L. Sciascia, op. cit.: 34. Riferimenti dello scrittore di Racalmuto alla Semana Santa ha ricordato, durante un suo soggiorno a Siviglia, Vincenzo Consolo; cfr. V. Consolo, Conversazione a Sivilla, a cura di M. A. Cuevas, Lettere da Qalat, Caltagirone 2016: 74.
[48] Cfr. L. Blanco, Los armaos reparten Esperanza a los enfermos, in “El Correo de Andalucia”, cit.: 19.
[49] Cfr. A. Hermosilla Molina, op. cit.: 413 ss.
[50] Ivi; 401; cfr. D. Fernandez, op. cit.: 61.
[51] Cfr. Ivi: 58. Anche altri due famosi toreri, entrambi morti incornati nelle arene, Ignacio Sanchez Mejias e Manolete, fecero dei doni in preziosi alla Macarena.
[52] Tra i più famosi esecutori di saetas sono annoverati: María Valencia detta La Serrana, Manuel Torre, Rafael Ramos Antúnez detto El Gloria, Pastora Pavon Cruz, detta Niña de los Peines, Tomás Pavon Cruz, Manuel Jiménez Centero, Manuel Vallejo, Antonio Mairena, Rocío Vega Farfán conosciuta come Niña de la Alfalfa. Cfr. A. Hermosilla Molina, op. cit.: 442- 449.
[53] Cfr. la nota 44.
[54] Cfr. S. Burgaretta, Note di aggiornamento… cit.: 62 e nota n. 21.
[55] F. Robles, Silencio de plata, in “ABC”, 14 aprile 2017: 33.
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Sebastiano Burgaretta, poeta e studioso di tradizioni popolari, ha collaborato con Antonino Uccello e, come cultore della materia, con la cattedra di Storia delle Tradizioni Popolari dell’Università di Catania. Ha curato varie mostre di argomento etnoantropologico in collaborazione col Museo delle Genti dell’Etna, con la Villa-museo di Nunzio Bruno, con la Casa-museo “A. Uccello”, col Museo teatrale alla Scala di Milano. Ha pubblicato centinaia di saggi e articoli su quotidiani, riviste e raccolte varie. Tra i suoi volumi di saggistica: Api e miele in Sicilia (1982); Avola festaiola (1988); Mattia Di Martino nelle lettere inedite al Pitrè (1992); Festa (1996); Sapienza del fare (1996); Retablo siciliano (1997); Cultura materiale e tradizioni popolari nel Siracusano (2002); Sicilia intima (2007); La memoria e la parola (2008); Non è cosa malcreata (2009); Avola. Note di cultura popolare (2012).
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Grande, come sempre… grazie Prof!