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Plus ca change, plus c’est la meme chose

copertina   di    Piero Di Giorgi

La vena futurista dell’accelerazione di Renzi, finora, non ha prodotto granché di risultati, mentre la crisi, di giorno in giorno, incancrenisce, aumenta la disoccupazione giovanile e si mettono a rischio anche stipendi, salari e pensioni. Accavallandosi le promesse senza risultati o le false riforme, col passar del tempo, s’insinua l’idea che il cambiamento, ripetutamente pronunciato da Matteo Renzi, riecheggi la famosa frase che Tomasi di Lampedusa mette in bocca al principe di Salina: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

I comportamenti parlamentari e le pratiche politiche sono sempre uguali. Pensate alla penosa vicenda dei parlamentari designati dai partiti in base agli accordi del Nazareno, che, dopo 20 fumate nere, non hanno avuto il pudore di ritirarsi. Per fortuna che la nomina non possa avvenire con l’abusato ricorso ai decreti legge, almeno finora, come avveniva nello Statuto albertino.

In base a questa prassi diffusa e consolidata ormai da tempo, la stessa democrazia della rappresentanza si è logorata: i parlamentari, anziché rispondere ai cittadini, rispondono alle  segreterie dei partiti, le quali hanno il potere di candidarli o escluderli; il Parlamento è diventato cassa di risonanza dei partiti, perdendo progressivamente le funzioni di controllo sul Governo, il quale abusa di decreti-legge, che dovrebbero essere straordinari e in casi di necessità ed urgenza, e ricorre frequentemente alla fiducia delle Camere sotto il ricatto del loro scioglimento.

Un cambiamento reale e radicale presupporrebbe che la politica non debba essere una professione e tanto meno una professione senza fine. E invece, tranne eccezioni, assistiamo durante l’arco della nostra vita a professionisti della politica che, cominciano da consiglieri comunali o sindaci per proseguire come deputati, ministri ovvero il processo inverso o magari li vediamo passare, nella terza o quarta età ad altri nobili incarichi (Corte costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura, presidenti o consiglieri di amministrazione di qualche ente etc.).  In questo contesto, i vari Governi, da oltre venti anni sembrano la fotocopia di quelli precedenti e le promesse sono sempre le stesse, come le stesse sono le oligarchie dominanti, impersonate in parte dagli stessi attori e in parte diversi.

Una nota teoria del cambiamento nell’ambito della psicoterapia familiare, conosciuta come scuola di Palo Alto, evidenzia che il cambiamento è difficile sia per le persone ma ancor più per le istituzioni e le strutture consolidate. Questa teoria distingue un cambiamento di primo tipo quando s’interviene per mutare qualche aspetto marginale, modificando qualche procedura o qualche cosa o persona, dando l’illusione di cambiare ma lasciando immutato il sistema. Il cambiamento di secondo livello è più complesso, perché riguarda le strutture, anche quelle psichiche delle persone e le relazioni. Come mette in luce la teoria generale dei sistemi, i sistemi aperti, come quelli umani, sono caratterizzati dal fatto che ciascuna parte è in rapporto con tutte le altre e che basta  innestare un elemento nuovo e imprevedibile in una parte del sistema perché questo metta in moto un processo di cambiamento radicale in tutto il sistema. Il cambiamento dipende, in sostanza dalla scelta che si fa a monte. Si può scegliere di conservare l’esistente e ragionare soltanto nella logica del profitto, attraverso tagli lineari e riduzioni di costi, abolendo tutele e diritti e creando precariato. Oppure puntare su un cambiamento di secondo tipo, nella consapevolezza che dietro cifre, bilanci, licenziamenti, diminuzione di salari, ci sono le persone con la loro dignità, in primo luogo quella derivante dal diritto al lavoro, che è la  maggiore manifestazione di sé dell’uomo e della sua dignità.

Nella conferenza stampa d’inizio del suo governo, Matteo Renzi illustrava i provvedimenti del governo per rilanciare l’economia del Paese, abbassare la pressione fiscale e far ripartire la domanda interna. Per la prima volta, annunciava che sarebbe stata messa nelle tasche degli italiani «una significativa quantità di denaro». Attraverso il taglio del cuneo fiscale, grazie ad una sforbiciata dell’Irpef, avrebbe dato ai lavoratori italiani con meno di 1500 euro mensili, 1.000 euro in più all’anno. Nel menù dell’esecutivo vi erano molti altri ingredienti: la riforma del mercato del lavoro, nota come jobs act (in inglese è più seducente), con incentivi a favore delle imprese che assumono e avrebbero fatto diminuire la disoccupazione giovanile e il precariato; ma anche piano casa, interventi per l’edilizia scolastica, restituzione alle aziende dei debiti della Pubblica Amministrazione, provvedimenti per prevenire il dissesto idrogeologico, riforma della P. A., delle legge elettorale e abolizione del Senato. Renzi ha spiegato che «la copertura l’avrebbe trovata sulla base del risparmio di spesa, sulla base dei numeri macroeconomici, senza l’aumento di tassazione». Mai gli è uscito dalla bocca che avrebbe fatto una patrimoniale e diminuito le disuguaglianze.

1Dei provvedimenti annunciati, quel che si è visto, finora, sono gli 80 euro in busta-paga per i lavoratori, con esclusione dei pensionati. La riforma del lavoro, che avrebbe dovuto rappresentare il rimedio alla preoccupante disoccupazione giovanile e al rilancio dell’economia, invece, si è avvitata attorno al feticcio ideologico dell’art. 18, già abbondantemente svuotato dalla riforma Fornero. Ma davvero si può credere che dando via libera ai licenziamenti si possa aiutare la ripresa? O è più lecito pensare che Matteo Renzi preferisca dare il contentino al partitino di Alfano e all’alfiere dell’antioperaismo Sacconi, mentre rifiuta emendamenti della sua parte politica che vede l’art. 18 come la punta di iceberg di una riforma del lavoro destinata ad eliminare tutele e diritti e a ridurre i salari dei lavoratori? Nella Repubblica fondata sul lavoro, la riforma non solo facilita i licenziamenti e quindi la perdita del lavoro, ma elimina la contrattazione nazionale, abbassa i salari, blocca le retribuzioni nel pubblico impiego. Alla fine Renzi ha portato a casa la riforma ma senza avere il coraggio di prendere i soldi dove sono, per detassare le retribuzioni di lavoratori a reddito fisso e pensionati, e senza operare una maggiore equità per rilanciare la domanda. Il Governo ritiene di rendere competitive le imprese, incapaci di rinnovarsi e che non investono, facendo pagare il conto ai lavoratori. Esattamente il contrario di ciò che dice Thomas Piketty, quarantenne economista francese e autore del saggio del momento Il Capitale nel XXI secolo, in cui prefigura il ritorno della società patrimoniale ottocentesca, con l’obiettivo ultimo di contribuire alla democratizzazione della ricchezza. Non è solo questione di soldi – sottolinea l’autore – ma riguarda le conseguenze sulla vita delle persone. Anche sull’austerity Piketty ha un’idea molto chiara: «E’ stata un disastro», rilevando che l’Unione Europea dovrebbe avere una politica economica più compatta, attraverso una politica fiscale comune. L’autore chiede più trasparenza sui redditi e sulla ricchezza privata: chi è nato ricco o lo è diventato difficilmente vedrà il proprio capitale ridursi, anzi diventerà sempre più ricco perché il rendimento del capitale è superiore alla crescita dell’economia reale (Pil) e del reddito. In altre parole, il sistema economico capitalista, il famoso mercato, si muove a favore delle disuguaglianze. Per ridistribuire questa ricchezza servirebbe una tassazione che tassi i ricchi molto di più dei meno ricchi. Negli Stati Uniti – spiega Piketty  – tra il 1930 e il 1980, il tasso marginale d’imposta sui redditi più elevati è stato in media all’82% con punte fino al 90% e di certo non ha ucciso il capitalismo americano, anzi la crescita economica di quegli anni è stata molto più forte che dal 1980 a oggi.

2.Renzi ha ottenuto una delega in bianco sulla riforma del lavoro, che sarà riempita di contenuti nei decreti che dovranno essere emanati entro i primi mesi del 2015. Al momento l’unica nota positiva che si può cogliere è la sparizione della miriade di contratti precari. Anche l’estensione degli ammortizzatori, in sé positiva, viene vanificata da stanziamenti risibili e perciò insufficienti allo scopo. Per altri punti della riforma che potrebbero essere positivi come la tutela della maternità anche per i contratti non a tempo indeterminato, i contratti solidarietà e la semplificazione delle procedure amministrative, bisogna attendere i decreti di attuazione per vederne i contenuti precisi. Lo stesso si può dire sul decreto Sblocca-Italia, che ha catalizzato contro non solo le diverse sigle ambientaliste ma anche l’archeologo Salvatore Settis, l’inventore dello Slow Food Carlo Petrini e noti urbanisti che chiedono di fermare il decreto che «rischia di diventare un pesante contributo alla devastazione del paesaggio e un regalo alle lobby» attraverso cemento e trivelle. Mentre l’economista Jeremy Rifkin paragona la nuova rivoluzione delle energie rinnovabili e a costo zero a quella di internet e mentre i Rockeffeller escono dal business delle trivelle e la Merkel, che non ha il sole si attrezza per le energie alternative, Renzi, che possiedel sole e vento, rilancia le trivelle, avendo anche il primato del Governo meno ambientalista degli ultimi anni.

Jeremy Rifkin

Jeremy Rifkin

L’ultima conferma della controriforma di Renzi è arrivata dalla legge di stabilità in cui si annuncia un taglio di tasse di 18 miliardi, di cui circa 10 servono per il rinnovo degli 80 euro ai lavoratori con una retribuzione fino a 1550 euro lordi, senza estenderli, come aveva promesso, ai pensionati e i restanti vanno alle imprese, non già alle piccole ma in gran parte alle grandi, come se la crisi fosse dovuta all’offerta e non già alla domanda. Si risparmia sui pubblici dipendenti con il blocco per il quinto anno consecutivo delle retribuzioni e con ulteriori tagli a Regioni e Comuni, ai quali sono già stati tagliati circa 40 miliardi negli ultimi tre anni e che si tradurranno o in tagli di servizi essenziali come sanità, asili-nido, trasporti, o in nuove tasse, attraverso l’aumento dell’addizionale Irpef per lavoratori e pensionati.

Zigmunt Bauman

Zigmunt Bauman

Al momento, quel che appare con tutta evidenza è che Renzi ha prodotto un ulteriore mutamento genetico di quel che è rimasto del partito tradizionale della sinistra, trasformandolo in un partito liquido, nel significato che ha dato Zigmunt Bauman riferendosi alla società liquida, per appellarsi a tutto il popolo, di destra e di sinistra. Si prefigura un partito senza militanti e iscritti e cioè senza un’elaborazione collettiva e dal basso, così come recita l’art. 49 della nostra Costituzione. Nell’Italia, dove vi era il più forte partito comunista d’Europa, i diritti fondamentali dei lavoratori erano stati garantiti. Gli epigoni di quel partito, gradualmente, stanno abolendo tutte le tutele, compresa la reintegrazione per licenziamento illegittimo, prevista in tanti Paesi d’Europa, compresa la Germania.  È persino calpestato l’art. 34 della Carta europea, che garantisce i diritti e un’ esistenza dignitosa dei lavoratori. Non solo, nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali, viene affermato che l’Europa mette al centro la persona, cioè gli individui concreti coi loro bisogni e la loro dignità.

E L’Europa che fa? Di elezione in elezione, alle parole non fa corrispondere i fatti. Anche qui nulla cambia. L’Europa continua nella sua logica contabile e ragionieristica, dimenticando che dietro i numeri vi sono le persone in carne ed ossa. E fa ciò negando l’evidenza del fallimento delle ricette dell’austerità e del fiscal compact, nonostante l’America abbia dimostrato nei fatti che, con la sua politica monetaria espansionista, investendo nel pubblico e nel privato, portando il deficit fino all’11%, è uscita dal tunnel della crisi, mentre noi ci siamo immersi fino al collo, compresa la stessa Germania. La ricetta di Renzi, al di là delle parole, è una ricetta neoliberista e in linea con la politica dell’austerity (debito e costo del lavoro alto, spesa pubblica eccessiva, riduzione di tasse alle imprese, non riduzione delle disuguaglianze). Il rischio concreto è una recessione dagli esiti catastrofici mentre l’ingiustizia e l’esclusione sociale è divenuta insostenibile, fino al pericolo di una disgregazione sociale, in particolare nel Sud, dove, secondo i dati dello Svimez, la disoccupazione è a livelli postbellici e si prefigura una catastrofe antropologica per la scarsa natalità e la fuga dei giovani all’estero.

Dialoghi Mediterranei, n.10, novembre 2014

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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014).

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