il centro in periferia
di Giampiero Lupatelli
La Polveriera di Reggio Emilia è un luogo speciale che si presta a raccontare molte storie. Anche per questo, credo, Polveriera è stata selezionata tra i dieci luoghi di significato e valore civico più belli, attivi e inclusivi del nostro Paese.
La decisione è avvenuta nell’ambito della iniziativa civic places con la quale la giovane Fondazione Italia Sociale, esito – contiamo fruttuoso e generativo – della nuova disciplina legislativa del Terzo settore, ha dato il via ad una manovra articolata e ambiziosa. La scelta di Polveriera è frutto della valutazione di un comitato designato da Fondazione Italia Sociale, Touring Club Italiano e Fondazione Adriano Olivetti che, nell’individuare questi dieci luoghi emblematici di una nuova civicness italiana, ha considerato significato civico, capacità evocativa e accessibilità; poi anche la sostenibilità del modello proposto, l’ampiezza della partecipazione, la capacità di promuovere comunicazione.
Tra le tante storie che Polveriera accoglie e a cui fa da sfondo nella sua operosità quotidiana, storie che il luogo ti invoglia a raccontare, storie di impegno e di fragilità, di intelligenza e di dedizione, di feste e di bisticci, di buoni sentimenti e di ottime ragioni, ve ne propongo una di sapore dichiaratamente biografico che vuole raccontare la storia della rigenerazione di questo luogo da un punto di osservazione privilegiato e singolare, il mio.
Siamo al volgere della prima decade del secolo nuovo, a Reggio Emilia la cooperazione sociale è un soggetto emergente nel panorama urbano, in una stagione di rivolgimento degli assetti e delle gerarchie che in quegli stessi anni vede uscire di scena altri soggetti importanti della economia locale, le grandi imprese cooperative delle costruzioni per prime. Le cooperative sociali e il loro Consorzio, Oscar Romero, cercano una sede per sé e per le proprie attività: servizi per la disabilità in primo luogo; poi servizi di accoglienza e servizi ambientali per la manutenzione urbana e l’economa circolare.
Dopo una stagione di crescita edilizia di intensità inaudita che aveva segnato la prima decade del secolo nuovo, disegnando un nuovo panorama di interessi emergenti attorno alle attività della filiera delle costruzioni, con ampie zone d’ombra che hanno lasciato cicatrici profonde nella struttura sociale e nella cultura civica della città, le culture della riqualificazione – poi rigenerazione urbana – sembravano riuscire finalmente a conquistare il centro della scena e delle politiche urbanistiche. Strumenti urbanistici e politiche urbane portano la propria attenzione sui molti luoghi che l’evoluzione della economia e della società lasciano a disposizione di nuove possibili utilità, naturalmente con un legato che è carico di non poche incognite e di criticità da risolvere.
In questo contesto il Comune di Reggio Emilia, dopo aver predisposto un Masterplan di inquadramento ed esplorazione dei possibili assetti della zona, indice una manifestazione di interesse per raccogliere proposte e disponibilità per il recupero di un vasto complesso militare sorto ai margini della città otto-novecentesca, dismesso dal secondo dopoguerra e giunto in possesso della amministrazione comunale già negli anni ’90. Un complesso di edifici stratificatisi nel tempo da un primo nucleo ottocentesco che ha effettivamente svolto la funzione di deposito di munizioni (edificio poi passato nella disponibilità della Curia) con la realizzazione nel corso degli anni ’30 e poi ancora degli anni ’50 di edifici per il rimessaggio dei mezzi corazzati dell’esercito.
Nelle mani della Amministrazione locale il complesso di beni immobili è rimasto in larga misura sottoutilizzato nella sua componente edificata, ospitando occasionali depositi di materiali di varia natura, sedi provvisorie di varie associazioni, mentre gli spazi aperti hanno esercitato (e tuttora esercitano) importanti funzioni di parcheggio scambiatore a servizio del Centro Storico.
Il Consorzio Oscar Romero decide di partecipare al Bando del Comune e segnala il proprio interesse riguardo a due dei cinque fabbricati che la amministrazione possiede; nell’occasione propone di recuperarli investendo risorse proprie a fronte della concessione degli stessi in diritto di superficie per un congruo numero di anni. Ad assistere il Consorzio Oscar Romero in questa singolare e un po’ audace proposta nella valutazione delle sue implicazioni tecniche ed economiche, c’è la mia società, uno dei rami, quello urbanistico, della cooperativa degli architetti e degli ingegneri di Reggio Emilia (CAIRE nell’acronimo), la più antica società professionale in forma cooperativa d’Europa.
Nel produrre questa nostra partecipazione al progetto il caso compete con la necessità. La necessità è sospinta dalle ragioni del mercato dei servizi professionali: è il momento in cui le istanze della rigenerazione urbana spingono una lunga tradizione professionale costruita attorno alla pianificazione di scala urbana e territoriale a rivolgere attenzioni inedite e ad aprire nuove interlocuzioni con le competenze e le culture di una progettazione architettonica da cui l’urbanistica (non solo quella di CAIRE) pensava di aver preso definitivo congedo nel corso degli anni ’60, con una scelta di specializzazione dei profili, aziendale prima che disciplinare. Una svolta che nell’archiviare la felice stagione di contaminazione tra architettura e urbanistica aveva segnato il successo della Cooperativa nella progettazione e realizzazione di quartieri popolari nei due settennati della Stagione INA CASA. Decide di farlo aprendosi a progettisti giovani, maturati alla prova di una esperienza internazionale diventata, per fortuna, tratto ricorrente di una generazione che precede forse la prossima, ma che sicuramente è già europea.
Questa nuova attenzione incrociava il mondo della cooperazione sociale e le sue aspirazioni, ingenue ma ben radicate, nella consuetudine, invece questa si è affidata al caso di una frequentazione e di una familiarità con questo mondo che ha avuto la sua pietra angolare nel mio matrimonio con un’imprenditore (imprenditrice, imprenditora?) sociale che del Consorzio Oscar Romero era ed è autorevole Amministratore.
Un incontro, casuale ma necessario, dunque, nel quale si intrecciano esigenze pratiche, opportunità di mercato, interessi professionali. Accompagnati però da una insopita inquietudine e dalla ricerca di nuove soluzioni per affrontare i nodi sempre più intricati di una evoluzione delle pratiche urbanistiche e delle politiche sociali che dovevano tornare a parlarsi e a frequentarsi più da vicino, come nella esperienza dossettiana degli anni ’50 era già successo alla cooperativa degli architetti e degli ingegneri di Reggio Emilia.
Un pensiero insieme profondo e radicale attraversa l’intento del Consorzio nell’intraprendere l’avventura di Polveriera: riportare nel cuore della città e sotto il suo sguardo la presenza delle fragilità sociali e delle disabilità, anche le più gravi, invertendo una inconsapevole e inavvertita tendenza che aveva portato i luoghi e i soggetti della fragilità ad abitare – certo in condizioni confortevoli e moderne – il margine di una città che pure alla loro cura dedicava grande attenzione.
Realizzare un obiettivo molto ambizioso richiede sempre uno strano miscuglio di audacia e realismo, concretezza e visione. È partita per questo una vera avventura fatta di imprevisti, incertezze e inghippi burocratici, rischi da assumere con poche garanzie da offrire. Una avventura del pensiero creativo per interpretare, per cogliere e inventare lo spirito dei luoghi, per conciliare le ragioni dell’utile (avere più spazi per le diverse funzioni da ospitare) con quelle del bello (conservare l’atmosfera basilicale che l’austero impianto industriale e la buona qualità edilizia, di una edilizia pubblica seriale ma non banale degli anni trenta conferiva ai luoghi). Utile dulci.
Una avventura tecnologica per cercare di rendere compatibili le esigenze del risparmio di oggi con quelle della sostenibilità del domani. Una avventura finanziaria al limite del patema per le cooperative sociali, chiamate a trovare nel proprio stato patrimoniale e in un merito di credito fortemente scosso dalla crisi delle costruzioni le risorse necessarie ad alimentare l’investimento di oltre 5 milioni di euro nel momento più buio per l’intera filiera delle costruzioni.
L’audacia del Consorzio ha incontrato nelle istituzioni pubbliche della città interlocutori cauti, al limite della pavidità per una iniziativa di welfare forse troppo sussidiaria e troppo poco municipale; anche le istituzioni sociali private (leggi Fondazione) e il mondo degli interessi economici sono rimasti alla finestra per vedere se l’audace esperimento sarebbe sopravvissuto a se stesso. A se stesso ma anche a shock inattesi della portata di quello determinato dalla pandemia che, con il suo attacco frontale alla socialità possibile, ha inferto un colpo grave alla vita quotidiana della Polveriera e al suo cuore pulsante nel bar ristorante che di assembramenti casuali e programmati viveva e tornerà a vivere. Speriamo. Forse neanche il Covid riuscirà a far tramontare l’ispirazione della Polveriera a innovare le forme e i modi della socialità urbana.
Con la sua capacità di dissolvere ogni barriera riconoscibile, nello spazio e nel tempo, tra i luoghi della vita e i luoghi del lavoro; di stabilire continuità tra gli spazi aperti del lavoro di ufficio delle cooperative e del consorzio, e la socialità anche estemporanea della ricreazione nella somministrazione di bevande e alimenti e nei consumi culturali, nella intrusione dei giovani studenti (e non solo), negli spazi (e, nei tempi di uso meno intenso) del Bar-Ristorante, nelle articolate presenze multi-culturali del laboratorio sartoriale e della agenzia per l’impiego o nel fluire dei disabili, senza soluzione di continuità, dal loro laboratorio socio-occupazionale a un ristorante che riesce ad essere anche mensa.
Con la sua capacità di riproporre, nella modernità, quel luogo archetipico della socialità prossima che è il cortile, luogo del gioco vociante e un po’ cruento dei bambini, regno di pattini, skate e bici con le rotelle. Luogo antico sopravanzato negli stilemi introdotti dal movimento moderno, dalla presenza del verde dei parchi e dei giardini e nella quotidianità della vita dalla irruzione della automobile a dominare tutte le superfici lastricate. Luogo antico ritrovato e praticato anche nelle atmosfere un po’ surreali dei lockdown.
In fondo per me Polveriera è stata l’occasione per dare un tratto tangibile e materiale all’affermazione che Christian Norberg Schultz esprime riguardo alla funzione e al valore del Patrimonio e che io credo possa e debba essere riferita con stretta analogia a quelli della Rigenerazione Urbana: che esso «….. modifica il significato dello spazio, trasformandolo dall’essere un sito all’essere un luogo, perché lì entra in gioco la vita».
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
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Giampiero Lupatelli, economista territoriale, laureato nel 1978 in Economia e Commercio all’Università di Ancona studiando con Giorgio Fuà e Massimo Paci, dal 1977 opera nell’ambito della Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia (CAIRE) dove si è occupato di pianificazione strategica e territoriale concentrando la sua attenzione sui temi della rigenerazione urbana e dello sviluppo locale delle aree interne e montane. Ha collaborato con Osvaldo Piacentini e Ugo Baldini nella direzione di importanti piani e progetti territoriali di rilievo nazionale e regionale. È Vice-Presidente di CAIRE Consorzio, fondatore dell’Archivio Osvaldo Piacentini per cui è direttore della Rivista “Tra il Dire e il Fare”, componente del Tavolo Tecnico Scientifico per la Montagna presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, membro del comitato scientifico della Fondazione Montagne Italia, della Fondazione Symbola e del Progetto Alpe del FAI, oltre che del Comitato di Sorveglianza di Rete Rurale Nazionale. Ha recentemente pubblicato il volume Fragili e Antifragili. Territori, Economie e Istituzioni al tempo del Coronavirus per i tipi di Rubbettino editore.
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