di Francesco Butticè
Per chi volesse oggi condurre uno studio sulla figura del partigiano leggendario Pompeo Colajanni, non può che prendere in esame i documenti raccolti all’interno del Fondo Pompeo Colajanni, custodito presso l’Istituto Gramsci Siciliano di Palermo. Il Fondo Colajanni contiene 183 buste, e rispecchia la vulcanicità del personaggio, che durante la sua lunga vita condusse innumerevoli battaglie per il popolo siciliano, diventando così una delle icone più rappresentative del PCI isolano.
I documenti contenuti nel Fondo, attraversano le tre fasi della vita politica di Pompeo Colajanni: Cospiratore e Partigiano, Politico Nazionale e Regionale, Dirigente e membro dell’A.N.P.I.
Dallo studio del carteggio riaffiora, in modo preponderante, l’esperienza partigiana di cui Colajanni si servì anche nei suoi innumerevoli discorsi pronunciati nella sala di Palazzo Ercole, sede del Parlamento regionale Siciliano. Nonostante i suoi ideali fossero apertamente di sinistra, Colajanni nacque, nel 1906 a Caltanissetta, da una famiglia nobile, con ideali repubblicani. Furono proprio questi ideali, trasmessegli dallo zio Napoleone Colajanni, a forgiare in un primo momento lo spirito del giovane Pompeo, che iscrittosi al PRI divenne uno dei più giovani dirigenti di partito. Fu però nel 1921, con le istanze rivoluzionarie trasportate dal vento della Rivoluzione Russa, che il giovane Pompeo si avvicinò al Partito Comunista d’Italia divenendo in poco tempo uno dei contestatori più intransigenti del nascente fascismo nisseno. L’atteggiamento assunto nei confronti del fascismo gli costò molto, soprattutto quando, dopo la laurea in Giurisprudenza, venne chiamato a svolgere il servizio militare nel reparto Cavalleggeri di Palermo: per i suoi ideali, infatti, non andò oltre al grado di tenente, cosa abbastanza insolita visto il retaggio nobiliare e il percorso di studi intrapreso. Finita la leva ritornò a Caltanissetta dove dedicò anima e corpo alla creazione di una prima rete cospirativa antifascista, in cui confluirono non solo comunisti, ma anche anarchici, repubblicani, socialisti e monarchici. Nacque così il Fronte Unitario Antifascista, FUAI, che in questa prima fase servì a forgiare le giovani leve che dal giugno 1940 iniziarono ad essere inviati sui vari fronti del Secondo conflitto mondiale, così ricorderà Colajanni quel periodo:
«Questa complessa attività ci fu di grande aiuto quando decidemmo, al momento dell’entrata in guerra e del mio richiamo nel “Cavalleggeri di Palermo”, il cui deposito era a Caltanissetta, di dare vita ad una organizzazione clandestina nell’esercito, col fine di distaccare l’Italia dall’alleanza col Nazismo e di fronteggiare nei modi consentiti dalle tragiche situazioni che si sarebbero certamente determinate le conseguenze rovinose per la patria della guerra fascista. Stendemmo subito a Caltanissetta la prima rete comprendente agli inizi giovani già in servizio o che stavano per essere chiamati alle armi. Cominciò così la diaspora verso i vari fronti della guerra, e le arrischiate ricerche, le rapide intese, la propaganda allusiva, proteiforme. Infine, nei più vari modi, nelle più varie condizioni, ciascuno di noi con diversa fortuna, cominciò a dar vita alla resistenza nell’Esercito»[1].
Tale attività, raccontata da Colajanni nelle tante interviste rese ai vari giornali italiani, porterà alla nascita dell’Alleanza Militare Italia Libera (A.M.I.L), ma minerà ancora una volta la sua carriera militare. Infatti, nel 1942 la Procura di Caltanissetta aprì un fascicolo nei suoi confronti, che gli costò il trasferimento in Piemonte, più precisamente a Pinerolo. Non c’è da stupirsi se il tenente Colajanni riuscì ad ambientarsi anche in quel nuovo contesto, più freddo ma carico di vitalità politica contraria al regime. In quegli ultimi mesi di dittatura fascista, il tenente di cavalleria allaccerà rapporti con i compagni piemontesi, e con i colleghi di altri reggimenti ostili al fascismo, come avvenne per il professore Augusto Monti, con cui Colajanni strinse una durevole amicizia che gli consenti di entrare in contatto con i dirigenti del PCI piemontese.
La complessità degli eventi, che si innescarono a partire dal 10 luglio 1943, giocò a favore degli antifascisti italiani: con lo sbarco alleato in Sicilia la guerra arrivò anche nella penisola italiana, e questo favorì l’ala meno intransigente all’interno del Partito fascista, che – come è noto – il 25 luglio in una seduta del Gran Consiglio votò le dimissioni di Mussolini. Con la scomparsa di Mussolini dalla scena politica nazionale, il nuovo capo del governo, il generale Pietro Badoglio, in un primo momento rinnovò l’alleanza con i tedeschi, mentre iniziava per gli alleati la lunga liberazione della penisola, che sarebbe culminata con l’armistizio dell’8 settembre 1943, e avrebbe favorito il consolidarsi di una solida resistenza militare e civile, con al centro il Comitato di Liberazione Nazionale. Malgrado le aspettative creatasi a partire da quella data, la risposta tedesca non tardò ad arrivare. Infatti, i tedeschi discesero la penisola occupando le principali città italiane, da Torino a Roma.
L’8 settembre venne percepito, quindi, dagli italiani di quel periodo con lo stesso animo con cui i cittadini dell’Impero romano percepirono il sacco di Roma del 410 d.C, ovvero come una frattura, tra il vecchio e il nuovo che si andava costruendo giorno dopo giorno e a cui tutti, anche gli indifferenti, avrebbero preso parte. In questo senso, la scelta era obbligatoria ed essenziale, come spiega bene Giovanni De Luna nel libro La Resistenza perfetta:
«Di colpo le istituzioni scomparvero togliendo a ognuno protezione e sicurezza; in mezzo alla fuga del re, all’ignavia dei generali, alla protervia dei nazisti, ognuno fu costretto a riappropriarsi di quella pienezza della sovranità individuale alla quale si rinuncia ogni volta che si sottoscrive un patto di cittadinanza che prevede uno scambio di diritti e doveri, libertà e regole, autonomia personale e legami sociali. “La crisi dell’autorità, scrisse un tempo Guido Quazza, diventò assunzione di responsabilità da parte del singolo, si trasformò in nascita della partecipazione e dell’autonomia”. Ne risultò un mosaico difficile da ricomporre in un quadro unitario. L’ebbrezza di rimpadronirsi del proprio destino è quella che ci viene restituita dal Partigiano Johnny, quando decide di farsi partigiano: “Nel momento in cui partì, si sentì investito in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava il vento e la terra”» [2].
La stessa sensazione di libertà accompagnò Pompeo Colajanni, che nella notte del 10 settembre del 1943, riunì ufficiali e sottoufficiali e si diresse a Barge, dove iniziò la scalata verso le Alpi Cozie. Colajanni «scelse come nome di battaglia quello di Nicola Barbato – nel ricordo del fiero sindacalista che, nel 1894, aveva animato la rivolta dei Fasci siciliani – diventando naturalmente, irresistibilmente un capo partigiano al punto da incarnarne quasi il prototipo» [3].
Come il Comandante Barbato, molti erano i soldati meridionali che, dopo la proclamazione dell’armistizio, restarono intrappolati in quel marasma creatosi a cause delle rovinose ambiguità di Badoglio. Questi soldati ingrossarono le file partigiane, e sul finire della guerra ebbero ben pochi riconoscimenti. Oltre ai soldati sbandati, il nucleo più consistente, che affiancò il gruppo di Barbato fu quello costituito dal Partito comunista torinese. Infatti:
«A Barge prima di Barbato, la sera del 10 settembre arrivarono i comunisti. Erano pochi e si ritrovarono in una baita alla Capoloira sulle pendici del Monte Bracco (1.306 metri d’altezza), una montagna isolata delle Alpi Cozie tra valle Po, la Valle dell’Infernotto (il torrente che attraversa Barge) e la pianura cuneese, un vero e proprio massiccio montuoso in miniatura, separato dal resto della catena alpina dal Passo della Colletta. […] La baita era di proprietà del contadino Tommaso Ribotta, che abitava, a Barge, come inquilino nel cortile della casa di Ludovico Geymonat. Sì, proprio il filosofo della scienza, uno degli intellettuali più rigorosi del Novecento italiano, che allora si fece partigiano, anche lui, con il nome di battaglia “Luca” e “Dodo”. Aveva aderito al PCI nel 1940. Sapeva che i suoi compagni avrebbero lasciato Torino appena occupata dai tedeschi per andare a organizzare la lotta armata. […] In treno da Torino, giunsero così insieme Gustavo Comollo, Giovanni Guaita, Dante Conte, Nella Marcellino, tutti “quadri” rodati da un solido passato cospirativo. Poi a mezzanotte, giunse “Barbato” con i suoi»[4].
Con questo primo gruppo, consolidatosi già verso la fine di settembre, Colajanni creò la prima banda partigiana, la “Carlo Pisacane” che in seguito, con la nascita del CLN, confluirà nelle bande Garibaldine, con il nome di IV Brigata Garibaldi. Malgrado le prime avvisaglie di libertà, dopo i 22 anni di dittatura, si delineava uno scenario disastroso che sarebbe durato per ben due anni: con “L’Operazione Quercia”, infatti, attuata dalle SS, il 12 settembre 1943, venne liberato al Gran Sasso Mussolini, cui seguì la nascita della Repubblica Sociale Italiana, costituitasi il 23 settembre 1943. Da qui l’avvio alla guerra civile, combattuta nel settentrione italiano. Nei due anni di guerra che si delinearono, le torture e gli eccidi attuati nei confronti dei partigiani e della popolazione civile dalle SS e dai repubblichini furono innumerevoli, come racconta tristemente lo stesso Colajanni, nel libro Le cospirazioni parallele, curato da Maurizio Rizza:
«Non potendo ottenere collaborazione alcuna del popolo, il nemico passò decisamente all’offensiva cercando di soffocare questa aperta ribellione con fortissimi rastrellamenti, con blocchi alle valli alpine per afferrare partigiani e popolazione, con repressione spietata e stragi inumane: quale la distruzione di Boves (7.000 abitanti), l’incendio di Barge e di Marrignana Po, l’incendio delle 360 case di Paesana, l’eccidio di 56 ostaggi a Cumiana, per citare solo qualche caso tra i tantissimi. […] Le stragi inenarrabili erano seguite da impiccagioni di partigiani catturati e da massacri di ostaggi. Per ogni tedesco ucciso 10 italiani assassinati» [5].
Gli eccidi e le atrocità non fermarono, però, le speranze di chi aveva intrapreso la guerra partigiana, e per prevenirli era opportuno cambiare le strategie di attacco. Da questo punto di vista: giocò un ruolo fondamentale la per ben due anni. Alle vittorie, riportate sui vari fronti piemontesi, e ai sacrifici e alle privazioni, seguì l’eroica liberazione di Torino che ebbe inizio il 18 aprile 1945, con l’annuncio dello sciopero generale e con la conseguente occupazione delle fabbriche da parte degli operai, e con gli attacchi dei Gap alle postazioni tedesche. preparazione culturale e militare di Colajanni. Diversamente dagli altri ufficiali il Comandante Barbato, sapeva che la guerra in montagna doveva svolgersi con tattiche diverse da quelle sperimentate in precedenza: in montagna erano di fondamentale importanza la discrezione e la rapidità dell’attacco. Iniziò il periodo del sabotaggio e della guerriglia in tutta la pianura piemontese che per la sua portata paralizzò l’esercito tedesco,
Nel frattempo i partigiani della IV Divisione Garibaldi liberarono Chieri. Gli operai e i Gap resistevano ai contrattacchi tedeschi: per sei giorni difesero le postazioni dando filo da torcere alle armate della Wehrmacht e delle SS, prima che venisse diramato il piano insurrezionale E27. Tuttavia, mentre Milano veniva liberata, a Torino nella notte del 25 Aprile il comando alleato fermò l’insurrezione: il Colonello Stevens decise, a causa dello squilibrio creatosi tra i due schieramenti, di ritirare l’ordine d’insurrezione, generando una vera e propria paralisi tra le truppe impegnate nei combattimenti. Il Comandante Barbato, raccontando successivamente questo episodio, così descrive quelle ore prima della liberazione della prima capitale d’Italia:
«Ma mentre tutta la macchina si preparava all’attacco il 25 aprile alle ore 21 pervenne al Comando di Zona l’ordine di sospendere e precisamente di “non procedere verso gli obiettivi in città se non dietro specifico ordine del Comando Piazza”. L’Ordine si collegava con la notizia trasmessa dal Comando XV Gruppo di Armate del concentramento di imponenti forze tedesche in zona prossima alla città: la 34° e la 5° Divisione con circa 35 mila uomini, artiglieria e mezzi corazzati al comando del generale Schlemmer. […] Intanto accertai in modo preciso anche attraverso notizie assunte da un ufficiale di collegamento di assoluta fiducia che l’ordine era ispirato dal colonnello Stevens» [6].
Eppure non era il momento di disperare: in quelle ore di sconforto Colajanni decise di assumersi la responsabilità, dando l’ordine a “Petralia” [7] di continuare l’attacco non solo in periferia ma in tutte quelle zone della città in cui erano presenti gli avamposti delle forze germaniche. Malgrado le avversità dopo tre giorni di combattimenti, il 28 aprile la città di Torino era libera, come ricorderà Colajanni: «il patriottismo e la capacità dei dirigenti politici e militari dell’insurrezione, il generoso slancio degli operai, del popolo, il valore e l’iniziativa dei partigiani ebbero ragione di ogni intrigo, di ogni difficolta ed assicurarono al Piemonte, all’Italia la gloria di quelle giornate memorabili»[8].
Il Sottosegretario alla Guerra: La smobilitazione e l’amnistia Togliatti
A guerra conclusa divenne una figura leggendaria per tutto l’alto comando militare e per gli apparati del CLN: aveva fatto una notevole esperienza e creato dei forti legami con uomini politici e militari, durante gli anni della cospirazione e della Resistenza e, come tutti i partigiani, considererà la Liberazione come il giorno più bello della sua esistenza. È forse anche per questa ragione che durante le interviste dedicate a questo tema, alla narrazione di questi avvenimenti, Colajanni mostrava un sorriso che negli ultimi anni era intriso di rimpianti e amarezze per la “Resistenza tradita”. Deposte le armi, il CLN gli affidò un primo incarico come vice Questore di Torino e, in seguito, come Sottosegretario alla guerra nel governo Parri e nel primo governo De Gasperi.
In questa prima fase all’interno della vita politica del Paese, Colajanni si occuperà della smobilitazione dell’esercito partigiano e in seguito dell’amnistia Togliatti. I due governi di Unità Nazionale dovettero affrontare numerosi problemi di natura sociale ed economica: la produzione industriale era calata a meno di un terzo rispetto a quella postbellica mentre l’inflazione era aumentata vertiginosamente, facendo diminuire il potere di acquisto dei cittadini. Tuttavia, il problema più grave restava quello degli sfollati: migliaia di persone che, a causa dei bombardamenti, avevano perso la casa e tutti i loro effetti. Come conseguenza diretta del razionamento si registrò, da parte della popolazione, una marcata propensione nei confronti del mercato nero che in molti casi, specialmente nel sud, aveva accesso ai beni razionati. Il conflitto, che dilagò in quel periodo, ebbe tratti anche politici, differenti nelle diverse zone della penisola: nella parte settentrionale furono frequenti i casi di giustizia sommaria, attuati dai partigiani nei confronti di ex esponenti del partito fascista che, nel ventennio e durante la guerra, avevano sistematicamente vessato gli oppositori del regime e, non di rado, appoggiato gli occupatori nazisti; nel sud Italia e nelle isole riprese l’occupazione delle terre, adesso, sostenute dal decreto Gullo e appoggiate dal PCI.
Era questa la situazione in cui l’Italia versava nell’estate del 1945, quando Pompeo Colajanni iniziò il suo lavoro al Ministero della Guerra: uno dei primi incarichi assegnatogli dal Governo di Unità Nazionale, fu la “smobilitazione dell’esercito partigiano”. Dovute sono alcune precisazioni relative alla composizione dell’esercito italiano dopo l’armistizio: certamente, era formato da soldati e ufficiali che, dopo l’8 settembre, decisero per ragioni diverse di unirsi ai civili, anch’essi restii a prestare servizio nell’esercito repubblichino perché antifascisti, abbandonarono le precedenti vite e andarono in montagna. Smobilitare significava, quindi, rimandare nelle proprie regioni milioni di soldati. Questo era un grosso problema, visto che mancavano i mezzi di trasporto e le stesse vie di comunicazione erano del tutto distrutte, come distrutta era la prospettiva di vita futura di milioni di loro. Per porre rimedio ad alcune di queste incongruenze, che la smobilitazione stava aggravando, venne promulgato il Decreto Legislativo Luogotenenziale 21 agosto 1945 n 518 [9], che aveva la finalità di creare delle commissioni territoriali che riconoscessero la qualifica di partigiano combattente, e, a sua volta, assegnassero delle ricompense a tutti i patrioti che avevano combattuto per liberare l’Italia, così da facilitare il ritorno alla vita civile. Eppure, le reali condizioni in cui versavano i partigiani differivano dalla semplicità con cui il governo cercò di risolvere la complessità del problema: i soldi ricevuti come ricompensa furono pochi, e di certo non bastarono per agevolare il ritorno alla vita civile. E con queste premesse ognuno reagì a suo modo, come si legge nel memoriale recapitato a Colajanni dal generale Alessandro Trabucchi [10] , riguardo alla smobilitazione avviata in Piemonte a partire dal 30 maggio 1945:
«Questo, rapidamente rilevate le difficoltà che avrebbe incontrato per la successiva vita civile, ha cercato di risolvere per proprio conto il rispettivo problema:
- Chi aveva la possibilità di entrare nella vita politica, ha lasciato le unità per le cariche politiche;
- Chi deteneva materiale, e specialmente automezzi, anziché versarli ne ha fatto commercio diretto e indiretto;
- Chi, infine, per esperienza deteriore ha rilevato che in periodo di disordine si può vivere di ricatti e di imposizioni ha continuato a mantenere le armi usandole a fine di vantaggio personale»[11].
Tuttavia, la fretta che accompagnò il provvedimento aveva varie ragioni: in primo luogo, serviva a porre fine al problema della “giustizia partigiana” contro i residui del fascismo; in secondo luogo, un motivo non meno rilevante poteva rintracciarsi nella pressione esercitata dagli alleati sul governo, insistenza, che aveva lo scopo di evitare ogni possibile prosecuzione del conflitto in chiave “rivoluzionaria” come già era successo in Grecia. Su questo ultimo punto è interessante ciò che afferma, nuovamente, il generale Trabucchi: «la smobilitazione del C.V.L. Piemonte si è svolta sotto l’urgenza del Comando Militare Alleato che, preoccupato di accelerare comunque il ritiro delle armi, si è disinteressato della sistemazione del personale»[12].
Sin dai primi mesi, il Comandante Barbato, cercò di portare avanti la causa della ricostruzione dell’esercito sulla base dell’accoglimento di quegli elementi entrati durante il periodo della Resistenza. L’idea di fondo che accompagnò questo suo progetto, risiedeva nella visione di introdurre all’interno dell’esercito tutti quei partigiani che volessero rimanere a prestare servizio. Le difficoltà che sorgevano da questa misura erano tutte di carattere puramente pratico; durante la Resistenza le azioni partigiane differivano molto da quelle di un esercito permanente: i partigiani, nei fatti, mettevano in atto vere e proprie azioni di guerriglia, ma nel far ciò «molti comandanti partigiani hanno dato [diedero] prova non soltanto di ardire e di coraggio, ma ancora di encomiabilissima capacità organizzativa» [13]. Secondo Colajanni e altri ufficiali, quindi, era necessario creare dei corsi di addestramento, così da garantire la necessaria cultura militare per aspirare alla carica di ufficiale.
Tuttavia, l’obiettivo non secondario che accompagnò questo progetto mirava alla democratizzazione dell’esercito; questa prospettiva aveva due finalità: la prima risiedeva nella speranza di garantire un’alternativa ai patrioti e, quindi, un futuro dignitoso; in secondo luogo permetteva di ricostruire l’esercito sulla base dei valori della Resistenza. A testimonianza, però, dei sentimenti che imperavano tra le file partigiane in quel momento, Colajanni scriverà:
«Molti partigiani sono già tornati alle loro case, altri pure numerosi sono già partiti verso il sud. Tanto fra gli uni quanto fra gli altri molti sono coloro per i quali dal giorno della smobilitazione è cominciata la marcia verso l’ignoto. Motivi di delusione affiorano tra i discorsi degli uomini così frettolosamente smobilitati e ci immalinconiscono. E poi, anche se non vi fossero altre ragioni, vi è sempre della tristezza in ogni distacco. […] Ride sui volti di alcuni la gioia del ritorno, l’ansia stringe i cuori di altri. Vi sono gli spensierati, vi son quelli che meditano fieramente sui modi per non tornare al servaggio. Pure c’è qualcosa che li accomuna e li fa partecipi di uno stesso destino. Questi messaggeri dell’avvenire anche se ignoto l’uno e l’altro parlano tra loro un muto linguaggio simile a quello di notturni fuochi partigiani che ardevano di montagna in montagna ad allarmare per pericoli ed a festa per le vittorie»[14].
Se il primo passo, la smobilitazione e il rifacimento dell’esercito, turbò gli animi di Colajanni instillando in lui un senso d’amarezza e di insoddisfazione, le speranze di tutti coloro che combatterono per la liberazione della penisola, risiedevano, ancora in quel primo periodo, nella rinascita dell’Italia su basi democratiche. Era necessario ripartire da zero, ricostruendo tutto l’apparato economico e amministrativo ed epurando tutti gli ufficiali e i funzionari che in precedenza avevano giurato fedeltà al regime. Maggiore importanza assumeva, in quel periodo, la ricostruzione delle strutture governative modellate sulla stesura di una Costituzione che desse un giusto riconoscimento alla Resistenza, così da non ricadere nuovamente nello squallore del fascismo e nella mortificazione della sconfitta. A tal proposito è utile rileggere ciò che ne pensava il Sottosegretario alla guerra:
«Perché la ricostruzione sia portata a compimento, è necessario che i responsabili sociali del fascismo non possano più accedere, comunque truccati, alla direzione politica del Paese per trarre illeciti vantaggi, come è loro costume, dall’opera di ricostruzione stessa del nostro Paese. È necessario che il capitale non abbia paura, non si rintani, né si polarizzi verso il bagarinaggio, l’aggiotaggio e l’usura, ma che sia sensibile al richiamo imperioso della solidarietà nazionale. […] La più umile fatica condotta con slancio e con ritmo rivoluzionario assumerà un valore politico incalcolabile e si porrà, come elemento di vera ricostruzione, di chiarificazione e di progresso nella lotta per la Costituente e per le istituzioni»[15].
Tuttavia, in Italia non ci fu mai nessun “Processo di Norimberga” e le ragioni di ciò hanno mutevole e controversa natura: alcune sono solo il frutto di decisioni politiche nazionali, mentre altre derivano da alcune ingerenze da parte degli alleati. Nel primo caso, le colpe del fascismo furono lavate già a partire dal 1943 quando, dopo l’armistizio di Cassibile, gli italiani divennero alleati degli Anglo-americani e iniziò a circolare la retorica degli “Italiani brava gente”, argomento di cui ampiamente si discute nell’opera intitolata Il cattivo tedesco e il bravo italiano dove l’autore, Filippo Focardi, sottolinea come:
«Le sue fondamenta siano state poste nel periodo compreso fra la proclamazione dell’armistizio, nel settembre 1943, e i primi due anni del dopoguerra, fino al 1947, durante i quali venne preparato e discusso il trattato di pace (che corrispondono anche agli anni fecondativi della Repubblica), sulla base di stringenti esigenze politiche condivise dal composito fronte antifascista, sia dalla corona e dal governo Badoglio, sia dalle diverse forze legate ai partiti del CLN, che la utilizzarono a fini di autolegittimazione politica, di mobilitazione bellica e soprattutto di salvaguardia degli interessi nazionali nella distinzione fra Italia e Germania, cui aveva già intensamente fatto ricorso fin dall’inizio del conflitto la propaganda alleata. […] Preoccupazione fondamentale e legittima dell’establishment monarchico e delle élites politiche antifasciste fu evitare una pace punitiva per il Paese uscito sconfitto dalla guerra. Riprendendo una posizione già sostenuta dal primo governo Badoglio, tutti i governi di unità nazionale, nati di intesa fra CLN e monarchia nella primavera 1944, posero al centro della propria azione internazionale la rivendicazione dei meriti dell’Italia nella guerra contro la Germania, dapprima per ottenere il superamento dell’ambiguo status di nazione cobelligerante e il riconoscimento di un’alleanza paritaria con le Nazioni Unite, poi, fallito tale tentativo, per scongiurare comunque un trattamento draconiano da parte dei vincitori» [16].
La seconda ragione affondava le sue radici nel panico e nella paura che gli alleati avevano nei confronti del PCI, uscito dalla guerra ancora più rafforzato e con maggiori sostenitori: è possibile che gli americani vedessero in alcuni ex fascisti un futuro strumento deterrente contro una “riscossa comunista”. Il desiderio di Colajanni di «riparare le rovine materiali e spirituali del fascismo ed eliminare le cause politiche e sociali del fascismo» venne quindi meno e fu in questa ottica che si inserì anche “L’amnistia Togliatti”, per la quale collaborò insieme a Luigi Chatrian, allora anch’egli Sottosegretario alla guerra della DC. Lo scopo di questa legge, entrata in vigore il 22 giugno 1946, era quello di condonare i reati minori o diminuire le pene a seconda dei crimini commessi durante l’occupazione nazista. La seconda parte prevedeva l’epurazione di giudici, funzionari e di graduati dell’esercito che avevano aderito alla Repubblica di Salò dopo l’8 settembre. Nel provvedimento rientravano anche le accuse di diserzione dei soldati italiani che avevano abbandonato l’esercito per unirsi ai partigiani, come si legge nell’articolo 3 del decreto legge del 6 aprile 1946, allegato all’amnistia:
«È concessa amnistia per i delitti di assenza dal servizio a condizione che il colpevole, dopo l’8 settembre 1943 ed anteriormente al 1 maggio 1945, si sia spontaneamente presentato alle armi o sia spontaneamente ritornato nelle Forze Armate regolari nazionali o delle Nazioni Unite, ovvero abbia effettivamente partecipato all’attività bellica in Italia e all’estero, in reparti di patrioti riconosciuti ai sensi del Decreto Legislativo Luogotenenziale 21 agosto 1945 n518» [17].
Colajanni che per l’appunto, era Sottosegretario alla guerra, contribuì maggiormente su questa parte della legge e, tramite una lettera inviata a Togliatti [18], fece includere nel provvedimento anche i soldati italiani che, sul fronte Jugoslavo, disertarono per unirsi alla Resistenza Titina. Sul finire del I Governo De Gasperi, e dopo essersi candidato per la Costituente senza essere eletto, “Barbato” decise di far ritorno in Sicilia. Questi anni di Sottosegretario alla guerra lasciarono l’amaro in bocca: furono molte «le resistenze al suo desiderio di dare un giusto riconoscimento a tutti coloro che avevano partecipato alla guerra partigiana» [19] e, del resto, l’ex Comandante Barbato intuì come la lotta partigiana fosse passata in secondo piano, sia dentro la DC che nel suo partito. Per capire meglio questi sentimenti bisogna riprendere, nuovamente, un passo dal memoriale del generale Trabucchi che, già nel 1945, percepì le stesse emozioni provate da Colajanni nei confronti dei patrioti piemontesi:
«Allo stato dei fatti si può affermare che la stragrande maggioranza dei volontari del C.V. L. Piemonte è profondamente amareggiata e fermamente convinta che il presente deterioramento del movimento è conseguenza voluta di elementi interessati a dimostrare l’essere la partigianeria in Piemonte un fenomeno dannoso. Peggio ancora si sta diffondendo la convinzione che gli esponenti del C.L.N e del C.V.L, una volta risolto il proprio problema personale con l’assunzione ad una carica o con l’assegnazione di un impiego retribuito, si estranino dalle questioni dei patrioti, quasi che la carica o l’impiego fossero stati dati loro non in quanto rappresentanti del C.V.L, ma per esclusivo merito personale» [20].
Con l’insediamento del II Governo De Gasperi, avvenuto nel luglio 1946, Colajanni chiese a Togliatti di poter ritornare in Sicilia, dove già divampava la lotta contadina sostenuta dal rinato partito comunista.
In conclusione il nome di Pompeo Colajanni oggi riecheggia nelle pagine della storia italiana. Uomo poliedrico, politico determinato, il nisseno Colajanni, ritornato in Sicilia, abbraccerà le lotte che divamparono sull’isola, per l’autonomia e la riforma agraria, e per questo suo aspetto di politico instancabile e vulcanico saprà districarsi per ben 22 anni nelle dispute politiche sorte all’interno del Parlamento siciliano.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] M. Rizza, Le Cospirazioni parallele. Dall’antifascismo militante alla guerra partigiana, La Zisa, Palermo, 2009: 32-33.
[2] G. De Luna, La Resistenza perfetta, Feltrinelli, Milano, 2015: 39.
[3] ibidem.
[4] G. De Luna, La Resistenza perfetta, cit.: 24-25.
[5] M. Rizza, Le Cospirazioni parallele. Dall’antifascismo militante alla guerra partigiana, cit.: 86.
[6] ivi: 104.
[7] Vincenzo Modica, ufficiale alla scuola di cavalleria di Pinerolo, dopo le vicende dell’8 settembre 1943 assume il nome di battaglia di “Petralia”. Sarà il vice di Pompeo Colajanni e guiderà la I Divisione Garibaldi, in Piemonte.
[8] M. Rizza, Le Cospirazioni parallele. Dall’antifascismo militante alla guerra partigiana, cit.: 112
[9]“Umberto di Savoia/ Principe di Piemonte/ Luogotenente Generale del Regno
In Virtù dell’autorità a noi delegata; […] Vista la delibera del Consiglio dei Ministri
Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, Primo Ministro Segretario di Stato, di concerto con i ministri per la grazia e la giustizia, per il tesoro, per la guerra, per la marina, per l’aeronautica e l’assistenza post-bellica;
Abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
Art.1) Per il riconoscimento delle qualifiche spettanti ai partigiani sono istituite Commissioni locali, ripartite territorialmente come della tabella allegata al seguente decreto […].
“Disposizioni concernenti il riconoscimento delle qualifiche dei partigiani e l’esame delle proposte di ricompensa”. Decreto Legislativo Luogotenenziale (21 luglio 1945) n 518. “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana”.
[10] Alessandro Trabucchi (1892-1982), fu un generale dell’Esercito italiano durante le due Guerre. Dopo l’8 settembre prese parte alla Resistenza contro i nazi-fascisti e operò come Comandante delle Forze della Resistenza, soprattutto in Piemonte.
[11] A. Trabucchi, Smobilitazione; Memoria del Generale Trabucchi, Fondo Pompeo Colajanni, Busta 61, Fascicolo 7, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo: 2.
[12] Ivi: 1.
[13] Ivi: 2
[14] P. Colajanni, Luci ed ombre sulla smobilitazione, Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 5, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo: 1-3-4.
[15] ibidem.
[16] F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, la rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, La Terza, Bari, 2013: 13-14.
[17] Amnistia e Condono per i reati militari, Decreto Luogotenenziale, Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, Roma, 6 aprile 1946.
[18] “Caro Togliatti, in relazione agli studi di un’eventuale amnistia in favore dei disertori, alcuni compagni richiamano la mia attenzione su di un caso particolare che desidero sottoporre al tuo esame. Vi sono stati dei militari i quali durante la guerra di liberazione hanno abbandonato i reparti del R.E, o del C.R.E.M., cui erano effettivi, e si sono arruolati con le truppe partigiane jugoslave ovvero hanno combattuto in qualcuna delle numerose brigate italiane sul territorio nazionale. Essi furono condannati in contumacia dai tribunali militari competenti e sono oggi costretti a condurre un’esistenza semiclandestina per non finire in prigione. […] Tanto ho creduto bene segnalarti per quell’uso che crederai opportuno farne. Con i Saluti più cordiali, Pompeo Colajanni”
“Lettera di Pompeo Colajanni a Palmiro Togliatti” (1945). “Archivio di persone/Palmiro Togliatti”. “Palmiro Togliatti, Scrivania da Casa, Settore 3: attività Istituzionale e di Partito”. “Amnistia ai Disertori”, 8 gennaio 1945-29 marzo 1946. Fondazione Gramsci Onlus, Roma.” Archivi.fondazionegramsci.org
[19] M. Rizza, Le cospirazioni Parallele, cit.: 1.
[20] A. Trabocchi, Smobilitazione, cit.: 1.
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Francesco Butticè, da poco laureato in Scienze Filosofiche e storiche, all’Università degli studi di Palermo, con una tesi dal titolo “Pompeo Colajanni, l’uomo e il parlamentare regionale”. Da qualche mese ha iniziato ad approfondire e studiare il movimento partigiano e il contributo dato dai meridionali nella Resistenza.
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