di Francesco Butticé
Introduzione
La figura di Pompeo Colajanni viene spesso associata a quella del partigiano combattente, che durante gli anni della resistenza contribuì alla liberazione del Piemonte, e passato alla storia come il “Comandante Barbato”. Poco interesse, invece, è stato rivolto alla carriera politica, infatti, Colajanni sin da subito ricoprì incarichi di alto prestigio: prima come sottosegretario alla guerra, dal 1945 al 1946 e in un secondo momento come Segretario del Pci Palermitano e da ultimo Deputato al parlamento regionale, tra le file del Blocco del Popolo.
Colajanni nacque a Caltanissetta il 4 gennaio 1906, in una famiglia di nobili origini. Sin dalla sua tenera età, grande influenza ebbe lo zio Napoleone Colajanni, Garibaldino e Deputato nazionale tra le file del Partito Repubblicano. Il giovane Pompeo iniziò la propria carriera politica tra le file PRI, divenendone uno dei più giovani dirigenti d’Italia. Nel 1921, però, nel solco del neonato Partito Comunista d’Italia, abbandonò le ispirazioni repubblicane e abbracciò anima e corpo gli ideali marxisti-leninisti, diffusisi in quel periodo sotto la spinta della Rivoluzione d’ottobre. Laureatosi a Bologna e, in seguito, svolto il servizio militare nei Cavalleggeri di Palermo, farà ritorno a Caltanissetta dove entrerà in contatto con l’area più dissidente al regime, sviluppatasi nella provincia siciliana. Proprio in questi anni creò a Caltanissetta la prima cellula del Fronte Unitario Antifascista, che influenzerà gran parte della gioventù nissena.
Nel 1940 viene richiamato nel suo reggimento, “Cavalleggeri di Palermo”, con il grado di tenente: da Palermo venne trasferito prima a Canicattì e a Roma e infine, dopo una denuncia per cospirazione scritta e firmata dalla Procura di Caltanissetta, venne inviato in Piemonte, più precisamente a Pinerolo, dove iniziò la fase più alta della cospirazione antifascista, con la nascita e la costituzione dell’Alleanza Militare Italia Libera, alla quale aderirono intellettuali e militari. Proprio nel Pinerolese, l’8 settembre 1943, deciderà di imbracciare le armi contro i reparti nazi-fascisti stanziati in Piemonte. Liberata Torino, il 27 aprile 1943, assumerà la carica di Vicequestore della città, e in seguito sempre nel 1945, diventerà Sottosegretario alla guerra, nel Governo Parri e per un breve periodo del Primo Governo De Gasperi. Finita questa esperienza, farà ritorno nell’isola, nel 1946, dove ad attenderlo ci sono i compagni del Partito Comunista siciliano, riorganizzatosi già dal 1943.
Il seguente saggio, per l’appunto, si pone l’obiettivo di ricostruire la vita politica di Pompeo Colajanni, cercando di dare maggior rilievo agli anni in cui il Comandante Barbato ricoprì la carica di Deputato regionale, approfondendo i temi delle lotte per l’Autonomia Regionale e la Riforma Agraria, condotte dal Pci e dal suo gruppo parlamentare. La ricostruzione è oggi resa possibile anche grazie alla consultazione del “Fondo Pompeo Colajanni”, custodito presso l’Istituto Gramsci Siciliano di Palermo. Dall’inventario si apprende che il fondo Pompeo Colajanni è suddiviso in 183 buste, che attraversano le tre fasi della sua vita politica: cospiratore e partigiano, politico regionale e nazionale, dirigente e membro di associazioni.
Non poca importanza per le nostre ricerche assumono le buste inerenti la seconda parte, riguardanti la Dirigenza del Partito e quella più specifica e evidente di Deputato Regionale. Nel primo caso ci siamo serviti esclusivamente di fonti archivistiche, perché ben poco risulta dalle stringenti biografie scritte sul personaggio, recuperate nella busta 22 e da cui si apprende in modo secondario che Colajanni nel 1946, appena ritornato in Sicilia, assunse la carica di Segretario provinciale di Palermo per sei mesi. Per lo studio dell’esperienza da Deputato regionale, grande rilievo assume la busta 119, che in senso lato può essere considerata una ricostruzione fatta da Pompeo Colajanni per la scrittura di una futura autobiografia. Malgrado prevalga il numero di documenti che trattano il tema cospirativo e resistenziale, la busta contiene anche elementi che affrontano la vita politica del dopoguerra, come il suo discorso di dimissioni e i discorsi pronunciati durante le sedute dell’Assemblea dal 1947 al 1952. In tal senso la seconda parte di questo saggio si serve di questi documenti per ripercorrere gli anni tumultuosi dell’Autonomia Regionale e della Riforma Agraria.
La parentesi siciliana nella vita politica di Pompeo Colajanni, già ricca di eventi ed esperienze, si apre nel 1946: dopo aver indossato la divisa da comandante della IV Brigata Garibaldi in Piemonte, e aver svolto per due governi di fila l’incarico di Sottosegretario alla guerra, precisamente dal 1945 al 1946. In quell’anno chiese ed ottenne da Palmiro Togliatti di far ritorno nella propria terra natia, dove infuriavano le lotte per l’autonomia e la riforma agraria. E fu in quel contesto che Pompeo Colajanni si inserì e nel quale innestò gli ideali della Resistenza. Ciò che emerge dai documenti, infatti, è il nesso ineluttabile dell’autonomia regionale vista come il completamento della Repubblica in Sicilia, che si lega alla lotta per la Riforma Agraria concepita nel contesto siciliano come completamento economico dell’Autonomia.
Arrivato sull’isola, il partito gli affida come primo incarico quello di Segretario Provinciale della Federazione di Palermo, come ricorderà lui stesso: «A Palermo eravamo una esigua minoranza (altra era, s’intende, la situazione nei centri delle lotte contadine e delle miniere) ma non fummo mai schiacciati perché le forze operaie e in particolarmente quelle del cantiere navale, unite a noi con forti legami – anche sul piano dei rapporti personali – in ogni situazione […] scesero in piazza fronteggiando vittoriosamente ogni attacco e ogni provocazione» [1]. Il partito era in fase di riorganizzazione, e lo dimostravano i risultati ottenuti per le elezioni referendarie del 2 giugno 1946, in cui il PCI ottenne 151.374 voti, e di cui discuterà Colajanni nel luglio dello stesso anno, al congresso provinciale. Secondo Colajanni a determinare la sconfitta del partito concorse «l’incapacità di realizzare una politica che facesse del nostro partito, un partito siciliano a cui possono dare fiducia vasti strati della popolazione dell’isola e non solo piccole avanguardie» [2].
Appare in modo chiaro, anche dalle fonti consultate, la complessità della riorganizzazione: nel luglio 1946 gli iscritti nella provincia di Palermo erano in tutto 4.834, 2.657 nel solo capoluogo e 2.117 nelle 52 sezioni territoriali [3]. Fu in questa difficile situazione che il partito tolse la reggenza al neo eletto Segretario, e gli affidò la direzione, nel dicembre 1946, dell’organo di partito “Stampa e Propaganda” dove rimase fino al 1987, anno della sua morte. Malgrado l’allontanamento da parte della Federazione Regionale Siciliana, il suo lavoro portò dei miglioramenti: gli iscritti nel periodo in cui Colajanni ricoprì la carica di Segretario Provinciale, aumentarono del 40%, anche se nella provincia rimanevano 22 comuni privi di una sezione [4].
Nonostante la poca dimestichezza dimostrata alla guida della Segreteria palermitana, Colajanni si inserì nel contesto siciliano offrendo un notevole contributo alle lotte intraprese dal partito fino a quel momento. Di notevole impatto fu la sua figura nelle elezioni regionali del 20 aprile 1947, in cui il partito raggiunse la maggioranza relativa con 567.392 voti. In quelle elezioni, le prime del secondo dopoguerra, Colajanni si attestò come uno dei candidati più votati della sua lista, il “Blocco del Popolo”, con 20.733 voti nella circoscrizione di Palermo e 9.035 in quella di Caltanissetta. Le elezioni regionali del 1947 siglarono la rottura tra il PCI e la DC: fu proprio in questa circostanza che il partito dello Scudocrociato preferì aprirsi alla destra LiberalQualunquista.
A far vacillare le sorti di una possibile apertura a sinistra della DC, fu il determinarsi della Strage di Portella della Ginestra, avvenuta il 1 maggio 1947. Se prima del fascismo la reazione agraria si servì della “mafia” e a cadere assassinati furono Alongi, Panepinto, Verro e Orcel,
«poi non ci fu più bisogno della criminalità isolana perché ad essa si sostituì la violenza organizzata contro i lavoratori, quella sorta di Mafia nazionale che riempì di sè la dittatura fascista; alla minutaglia dei piccoli mafiosi fu dato un pesante calcio nel sedere con lo stivale poliziesco di Mori; i grossi mafiosi per mille varchi e per mille sentieri, si inserirono nella macchina di sfruttamento, di corruzione e di violento dominio del fascismo e ad assassinare i migliori esponenti, i capi del movimento dei lavoratori, con alla testa in Sicilia Francesco Lo Sardo e in Italia l’amato capo del nostro partito Antonio Gramsci. […] Oggi, dopo il vergognoso e rovinoso crollo del regime della violenza, dell’avventura del tradimento, la reazione agraria siciliana cambia spalla al suo fucile e torna ai vecchi amori»[5].
I fatti sono noti e non trattabili in questa sede, ma è interessante la posizione assunta da Colajanni in questo articolo, in cui dà una definizione della strage di Portella molto simile a quella che Gramsci diede del fascismo negli anni del ventennio [6]. I mandanti sono purtroppo ancora ignoti, gli esecutori, Giuliano e la sua banda, invece, uscirono rapidamente allo scoperto nei giorni seguenti all’attentato, quasi in concomitanza con la prima seduta del Parlamento regionale siciliano. E sempre in quel maggio rovente del ’47, il Deputato Colajanni sottolineò l’incongruenza di fondo, definita un “matrimonio d’interesse”, che permaneva nella Democrazia cristiana del Presidente Giuseppe Alessi. Per molti Deputati di sinistra, infatti, il governo di Alessi era il «governo del compromesso»[7]: compromesso che la Dc, tradendo i propri elettori, aveva creato per ottemperare alle richieste di quelle forze transoceaniche che spingevano le forze di centro ad isolare i Social-comunisti.
Con il Blocco del Popolo all’opposizione il contributo di Colajanni si articolò su diverse direzioni: quello condotto in parlamento e sui giornali di partito e uno più reale e al fianco dei contadini siciliani in rivolta per la terra.
Colajanni tra l’autonomia regionale e la Riforma Agraria
A differenza dei suoi colleghi, il comandante Barbato trovò nell’autonomia l’inizio di una nuova parabola, per la Sicilia e il suo popolo, che traeva origine «nel voto espresso, dopo la tragedia del 1893-1894, […] dai socialisti della Federazione provinciale di Palermo e portato nel 1896 al Parlamento nazionale, da un deputato socialista repubblicano, che chiuse il suo discorso alla camera con testuali parole: “la Sicilia ha bisogno di libertà, di benessere, di autonomia”» [8]. Le radici autonomistiche andavano ricercate inevitabilmente negli scontri sociali di fine Ottocento, che colpirono la Sicilia. Vanno certamente identificate nel nome di Nicola Barbato, medico condotto di Piana degli Albanesi, che guidò i Fasci Siciliani nella provincia di Palermo. In questo senso la lotta per l’autonomia rientrava a tutti gli effetti nella identità totalizzante dei partiti social-comunisti isolani, e si inseriva in una vera e propria conquista realizzata tramite l’apporto dato dalla Resistenza per la nascita della repubblica. Ed è così che il connubio Repubblica-autonomia diviene centrale, in quanto tali prerogative nascono da quello che tutti i partigiani meridionali chiameranno il “Secondo Risorgimento”.
Tutto il discorso Colajanneo sull’Autonomia Siciliana parte da questa peculiarità, a cui si aggiunge la realizzazione in chiave economica dello statuto autonomistico: l’autonomia infatti, poteva consolidarsi «soltanto nelle forme concrete, dandole un contenuto economico» [9] dirà Colajanni. La prerogativa economica si inseriva pienamente nella prassi politica adottata dal PCI isolano, che prevedeva la Riforma Agraria come primo passo verso l’attuazione dello Statuto. A muovere tali richieste era il contado siciliano, che dopo l’esperienza della guerra aveva acquisito coraggio e coscienza. Tuttavia, a determinare l’applicazione dello statuto autonomistico, furono due prerogative una interna e relativa alla Sicilia, e l’altra nazionale. La prima caratteristica poteva rintracciarsi nel lungo e travagliato lavoro politico, durato quasi tre anni, che vide fronteggiarsi due schieramenti contrapposti: i partiti del CLN e il Movimento per l’indipendenza Siciliana, ovvero il MIS. Per dovere di cronaca, bisogna aprire questa piccola parentesi, che vide protagonista anche lo stesso Colajanni, prima in veste di Segretario e in seguito come Deputato Regionale.
Il MIS nacque durante l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale, più precisamente, nell’estate del 1943 quando gli Anglo-Americani sbarcano sull’isola sottraendo il primo avamposto europeo ai nazi-fascisti. «In maggioranza i siciliani applaudono. Si pensa all’avvenire. Nel continente Mussolini è arrestato. Badoglio dice la guerra continua. Poi c’è l’armistizio firmato in Sicilia. Il re fugge da Roma. Mussolini viene liberato e riportato al potere dai tedeschi» [10]. L’Italia adesso è divisa e la guerra continua sul territorio peninsulare, ma i siciliani ormai liberati dagli alleati, non vogliono più saperne di combattere una guerra per l’Italia. Da questo malcontento si generarono istintivamente le radici separatiste. Come afferma Antonio Varvaro, in un’intervista rilasciata postuma a Marcello Cimino: «Fu nel pieno cataclisma della guerra che la personalità di Finocchiaro Aprile, già ricca di studi e di esperienze politiche, esplose in tutta la sua vulcanica potenza dando vita, nel luglio 1943, al movimento per l’indipendenza»[11]. Un’ulteriore testimonianza ci viene data da Concetto Gallo, altro cofondatore del movimento, che sempre a Cimino confesserà: «il movimento per l’Indipendenza nacque a Catania nel 1943, lanciato da un manifesto sottoscritto da trenta firme, gli uomini di maggior spicco della provincia»[12].
Il comando americano, stanziato in Sicilia, li lasciò fare, per garantirsi un maggior appoggio della popolazione, e in un certo senso frenare l’avanzata del Partito Comunista nell’isola. Tuttavia, a rallentare l’assalto Indipendentista concorsero diversi fattori: uno di questi rintracciabili già a partire dal 1944, quando, dopo la svolta di Salerno, per gli americani «la Sicilia diventa una pedina troppo piccola per impegnarcisi in una partita troppo complessa e rischiosa da una parte con l’Urss (che per prima riconosce il governo Badoglio e diffida del separatismo siciliano) e dall’altra con il nuovo governo italiano antifascista»[13]. Finito l’appoggio americano, iniziò una stagione di repressione, che venne operata tra il 1944 e il 1946, con il susseguirsi dei diversi Governi di Unità Nazionale. In questo senso notevole fu il lavoro svolto dall’on. Salvatore Aldisio che, nominato Alto Commissario il 15 luglio 1944, intraprese una dura e lunga lotta repressiva contro il MIS, che iniziò a dare i suoi frutti solo con l’arrivo di Ferruccio Parri alla guida del Governo Nazionale. I due, Aldisio e Parri, cercarono di contrastare prima il Movimento e in seguito il suo braccio armato, costituitosi nell’estate del 1944, l’Esercito Volontario per l’indipendenza Siciliana. Lo stesso on. Parri, recandosi nell’isola ebbe come interlocutore il Generale Berardi, che l’informò che i separatisti stavano preparando un’azione filomonarchica.
È oramai un fatto accertato che già a partire dal marzo 1946 la monarchia intraprese delle trattative con il Movimento Indipendentista Siciliano, per attuare, in caso di vittoria della Repubblica, un progetto di restaurazione della monarchia in Sicilia. Seguì la visita, a fine maggio, del reggente Umberto I, che dopo una breve sosta nel capoluogo siciliano, accompagnato dal cardinale Ruffini e dall’entourage monarchico, si diresse a Catania per continuare la campagna elettorale a favore della monarchia. Fu proprio con l’arrivo del reggente nell’isola, però, che avvenne l’incontro determinante tra filo-monarchici e indipendentisti, a cui vi presero parte
«il plenipotenziario di Umberto II, il colonnello Achille Schiavocampo, il segretario politico del MIS Antonino Varvaro e il Barone Lucio Tasca Bordonaro. Schiavocampo illustrò “senza mezzi termini il piano del colpo di stato”, che prevedeva la proclamazione del regno separato di Sicilia e la formazione di un governo composto interamente da esponenti separatisti, eccezione fatta per il ministero della Guerra e quello degli interni. Varvaro ribatté che in tal modo “l’effettivo controllo sulle forze armate sarebbe rimasto al re attraverso il controllo sulle forze armate e la polizia”, e chiese cosa sarebbe successo se il referendum avesse invece sancito la vittoria monarchica. La risposta di Schiavocampo fu semplicemente che “in tal caso tutta la discussione sarebbe stata da considerarsi come mai avvenuta”, e alla Sicilia sarebbe stata concessa l’autonomia nel “nuovo” Stato unitario» [14].
Fu questo un ultimo fattore totalizzante che concorse alla sua scomparsa. Da quel momento in poi, infatti, il MIS, si divise nelle diverse fazioni che in precedenza avevano militato insieme per una causa comune: da una parte andarono i Repubblicani, come l’on. Varvaro e Finocchiaro Aprile; dall’altra i militanti di destra, Lucio Tasca e Franz Carcaci, favorevoli e più vicini alla monarchia. Tuttavia già il governo regionale d’accordo con il governo di unità nazionale, con a capo l’onorevole Parri, avevano emanato lo Statuto Autonomistico, entrato in vigore il 15 maggio 1946. Ma su scala nazionale l’autonomia assumeva un significato diverso, da ricercare essenzialmente nei problemi che insorsero dopo la fine della guerra. A cambiare aspetto, come era ovvio, non fu solo la Sicilia, ma tutto il contesto territoriale italiano, si ebbe «il ripudio del vecchio stato accentratore; e si affermò il bisogno di una profonda trasformazione e riorganizzazione su basi nuove, democratiche, popolari e antifasciste; e fra le istanze del modo nuovo di governare il Paese si impose il bisogno del decentramento regionale ordinario e straordinario» [15]. La realizzazione dello statuto passa, per grandi linee, da questo nuovo cambio di rotta che i Governi di Unità Nazionale applicarono in quelle regioni in cui permanevano minoranze linguistiche e culturali e problemi socio-economici.
Ma le due questioni, quella autonomistica e quella agraria, assunsero vigore soltanto nel 1948, quando divenne centrale nel panorama politico nazionale l’impiego dei fondi del Piano Marshall e con esso la posizione che l’Italia doveva assumere sul piano internazionale. Tale discorso, centrale anche in Sicilia, non mancò di sollevare un polverone tra la maggioranza democristiana e l’opposizione social-comunista. Le contestazioni delle opposizioni avevano una base politica concreta, infatti gli americani chiedevano, in cambio dei fondi del Piano Marshall, le istallazioni di basi militari sul suolo italiano e l’istituzione di una “Democrazia Bloccata” con la promessa che i comunisti non avrebbero governato. A contestare maggiormente le implicazioni del Marshall furono i comunisti di Mosca, che alla Conferenza costitutiva del Cominform, tenutasi dal 22 al 27 settembre del 1947 a Szklarska Poreba, disapprovarono il comportamento tenuto dal Partito comunista italiano [16].
Le conseguenze della scelta atlantista vennero esposte più volte da Colajanni nei suoi discorsi, cercando di «porre in evidenza le gravi contropartite passive, economiche, politiche, e militari»[17] che il piano comportava. In generale bisogna dire che il Deputato Comunista non era contrario agli aiuti, ma si preoccupava che oltre al danno sul piano economico, politico e militare, non vi erano «per la Sicilia […] le estreme conseguenze che sono nelle cose o, quanto meno, negli intendimenti del grande capitalismo imperialistico americano» [18]. A testimoniare la sua apertura nei confronti dell’atlantismo, pur con tutte la sua refrattarietà, c’è un l’articolo de “Il Tirreno” dell’estate 1948, che evidenziava l’interpellanza presentata dall’Onorevole Colajanni, Montalbano e da altri deputati di orientamenti opposti, come l’On. Drago del Movimento Indipendentista Siciliano:
«Pompeo Colajanni, ex federale di Palermo, l’On. Montalbano e il “Leader” del Fronte Popolare hanno presentato una interpellanza al governo regionale, chiedendo che la Sicilia goda dei benefici del Piano Marshall, cui bisogna abbandonare ogni pregiudizio e che il governo siciliano vigili e operi in tal senso. Questo atteggiamento dei tre dirigenti comunisti, in evidente contrasto con le direttive del capo del comunismo italiano, Togliatti che tuona da Roma che il Piano Marshall significa la perdita dell’indipendenza e l’asservimento alle potenze occidentali, offre il destro al “Giornale d’Italia”, di fare un parallelo fra la situazione dei tre comunisti isolani nei confronti delle decisioni del loro partito e del suo leader e la situazione creatasi fra Tito e Mosca. I comunisti siciliani osserva “Il Giornale d’Italia” accettano dunque il Piano Marshall e vogliono l’autonomia, alias l’indipendenza da ogni ingerenza da Roma. Sono anch’essi come Tito e se la prendono con gli industriali del Nord, che in occasione degli episodi dei cantieri del nord, furono accusati di voler smantellare e disperdere le industrie siciliane. Ora – conclude il “Giornale d’Italia” – delle due l’una: o la direzione del Partito Comunista prende provvedimenti tipo Cominform contro i comunisti siciliani che osano riconsacrare il Piano Marshall, o il Partito Comunista siciliano interpreta e esegue ordini di Roma o di Mosca, e allora non c’è più da discutere: siamo nella zona dell’umorismo. Osiamo sapere, per la serietà obiettiva delle cose, che chi ha sottoscritto il documento d’infamia contro Tito, senta lo stesso orgoglio di scomunicare i funzionari ribelli di Palermo che evidentemente non sono nella linea marxista-leninista consacrata nelle tavole della legge comunista»[19].
L’obiettivo era quello di utilizzare i fonti ERP per l’attuazione della prima Legge di Riforma Agraria. «L’autonomia – secondo Colajanni – poteva aver vita soltanto a patto di far progredire la Sicilia; finora, però, essa è nelle mani di quelle forze che, anche nel passato, non hanno saputo realizzare il compito che la storia ha posto dinanzi»[20], quantunque nel suo pensiero l’autonomia si lega apertamente con la Riforma agraria, che già prima della fine della guerra aveva avuto l’avvallo del Governo, grazie ai Decreti Gullo del 1944 e del 1945. I nodi cruciali di questi decreti, nella Sicilia dell’epoca, furono le prepotenze degli agrari, che si servivano del bisogno e della poca coscienza del contado siciliano. Con l’approvazione del Primo Decreto Gullo, del 1944, i contadini della Sicilia orientale iniziarono ad occupare le terre incolte; l’anno seguente con l’approvazione del Secondo Decreto Gullo, che sanciva la ripartizione dei prodotti della mezzadria impropria, si sollevò anche la Sicilia occidentale. Questa seconda parte «prevedeva quote di riparto oscillanti tra un quinto al concedente e quattro quinti per il compartecipante, fino al limite massimo della metà, in base al criterio dell’apporto più o meno intenso del proprietario alla conduzione del fondo»[21].
Tuttavia, va specificato che le lotte per la terra non presero avvio solo nel nostro Paese, infatti, la spettacolarità del caso risiede nella sua internazionalizzazione. Si trattò di «un processo che si ripete su scala continentale europea, in una dimensione ancora più imponente e radicale» [22]. La comunanza di intenti tra contadini siciliani e europei si riscontrò anche nell’appoggio dei partiti e delle organizzazioni sindacali. Nacquero, infatti, i primi sindacati della terra, come la Federterra e la Coldiretti, con il compito non solo di guidare i contadini verso la conquista del latifondo, ma anche di difenderli nelle aule di tribunale, contro le denunce del padronato. La suddetta questione acquisì maggior peso a partire dal 1950, quando vennero ripartiti i fondi del Piano ERP, e sull’isola gran parte dei finanziamenti americani confluirono 5 miliardi e 478 milioni, destinati alla bonifica e alle trasformazioni fondiarie [23]. Tale manovra permise ai partiti di opposizione di fare pressioni sul governo nazionale a guida democristiana che, dal 1948 al 1949, escluse la possibilità di varare una legge di Riforma Agraria, tanto desiderata dalle sinistre.
Il governo De Gasperi indirizzò i propri interventi sulle opere di bonifica e di miglioramento fondiario, puntando verso la promozione della piccola proprietà contadina. Nei fatti, però, in Sicilia tutto ciò restò lettera morta. A dare respiro ai contadini fu il lavoro dei sindacati e dei parlamentari che, girando e annotando le reali condizioni in cui versavano i contadini e le loro famiglie, fecero emergere le contraddizioni che ancora una volta separavano Nord e Sud. È in uno di questi resoconti, stavolta di Colajanni, che emerge la prova della mortificazione subita dai lavoratori della terra siciliani, quando il deputato descrisse le condizioni di vita dei contadini del feudo di Santa Venera, di un proprietario di Mistretta:
«l’abitazione trogloditica dove vivono due famiglie di mezzadri. L’ampiezza del vano è di 6 per 5 e c’è anche una mangiatoia, vi sono due “iazzi” di canne contrapposti che servono da letto a queste due famiglie; vi è un cannizzo al centro per riporvi il grano. Il vano è alto da metri 2 a 2,50 con una finestra senza vetri, ed è coperto a metà con canne e tegole. Ho qui la descrizione delle rozze suppellettili che adornano (non vi meravigliate, se adornano) questa casa, perché la cosa meravigliosa, veramente meravigliosa, che ha riempito il mio animo di fiducia e di fierezza siciliana, è che queste case trogloditiche del feudo Santa Venera sono di una pulizia inverosimile» [24].
In questo discorso del 1950 emergono anche le doti intellettuali di Pompeo Colajanni, forgiate dalla letteratura del suo tempo: è rilevante, infatti, come nel suo discorso traspaia il pensiero del pittore e scrittore, Carlo Levi che nell’opera Cristo si è fermato a Eboli, pubblicata dalla casa editrice Einaudi nel 1945, descrive similmente le condizioni di vita dei contadini di Gagliano, un paese nella Lucania profonda. In questo senso è d’obbligo far parlare l’autore al fine di rilevare il nesso tra il discorso di Pompeo Colajanni e l’opera di Levi:
«Noi non siamo cristiani, essi dicono, Cristo si è fermato a Eboli. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere nelle loro bocche […] Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non bestie da soma, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dell’orizzonte, e sopportare il peso e il confronto. […] Cristo si è davvero fermato ad Eboli, dove le strade e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la storia. […] Nessuno ha toccato questa terra se non come conquistatore o nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. […] Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per rompere le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli» [25].
Citare tale passaggio e utile anche per riportare in auge la frammentarietà del discorso sulla retorica romantica del mondo contadino assunto nel variopinto panorama degli intellettuali italiani. Questa nuova narrazione fu resa possibile dall’avvicinamento che si ebbe, a partire dagli anni del fascismo, tra gli intellettuali e il mondo contadino. Malgrado il sostegno dato da Colajanni alla causa contadina, all’interno del Parlamento Regionale, la situazione nel panorama legislativo italiano si dimostrò tutt’altro che congrua. A partire dal 1949, infatti, con l’emanazione del Decreto legislativo nazionale 24 febbraio 1948 n. 114, divenuto in seguito la legge regionale 30 giugno 1949 n.17, i contadini poveri furono nuovamente costretti ad organizzarsi. E tra l’estate e l’autunno dello stesso anno, iniziarono ex novo ad occupare le terre. Stavolta le lotte non restarono circoscritte alla Sicilia e all’Italia meridionale, ma a partecipare furono anche i contadini del settentrione italiano che condividendo le motivazioni, intrapresero una stagione di lotta in favore dei colleghi meridionali.
A questo punto i Democristiani finirono per essere costretti a rivedere i piani. La Dc, pur facendo da padrona in tutta la penisola, avviò tale revisione per non perdere terreno politico: i democristiani capirono che non potevano circoscrivere il discorso sulla Riforma Agraria solo alla piccola proprietà, perché a beneficiarne erano i partiti social-comunisti meridionali che, con le loro associazioni, avrebbero aumentato ancora di più i simpatizzanti e gli iscritti, cosa che in effetti accadde già a partire dall’inizio del 1949. Se in questa fase il PCI ebbe in pugno la lotta per la terra, De Gasperi contrattaccò il 5 aprile 1950 approvando la prima legge di Riforma Agraria. La legge venne emanata, per «“tagliare l’erba sotto i piedi dei comunisti” e per svuotare il loro programma riformatore, dimostrando ai contadini che non occorreva essere comunisti per avere la terra» [26].
Questo diede avvio a una stagione legislativa molto cospicua: alla Legge di Riforma Agraria Generale seguirono, la Legge Silla del 12 maggio 1950, applicabile alla sola Calabria e la Legge 21 ottobre 1950 n 841, la cosiddetta “Legge Stralcio” di riforma agraria con efficacia estesa a tutta la penisola meridionale, tra cui la Sicilia. L’intensificarsi della legislazione a livello nazionale, favorì anche l’incremento della normativa agraria regionale, testimoniata dalla presentazione da parte del Presidente Regionale Franco Restivo della prima proposta di Riforma Agraria regionale, il 7 giugno 1950. Benché di grande importanza, questa legge non mancò di sollevare scontri politici tra il Blocco del Popolo e i Democristiani. A questo riguardo i Deputati democristiani accusarono i comunisti e i socialisti di essere machiavellici e di utilizzare la riforma agraria come un’arma elettorale. In risposta Colajanni e il suo gruppo parlamentare replicavano che quelli erano
«argomenti arbitrari, speciosi, privi di un serio fondamento che, data la loro inconsistenza, non si possono neanche bene oppugnare, perché a certe argomentazioni manca ogni base per un certo contraddittorio […] “Noi siamo per il piccolo contadino – diceva Engels – e faremo tutto il possibile per rendergli la vita più tollerabile, per facilitargli il passaggio all’associazione, se gli vi si deciderà. Anzi, nel caso che egli non sia ancora in grado di prendere questa decisone, ci sforzeremo di dargli quanto più tempo sarà possibile, perché rifletta su questo palmo di terra”. Ma perché possa riflettere sul palmo di terra bisogna darglielo; diamoglielo questo palmo di terra» [27].
Ma sebbene l’opposizione dei social-comunisti fu imponente, il testo di legge regionale venne approvato il 27 dicembre 1950 con il voto della Democrazia Cristiana, dei monarchici e dei Liberalqualunquisti, e con il voto contrario del Blocco del Popolo. La legge presentata dal presidente Restivo e dall’assessore all’Agricoltura on. Milazzo, aveva al suo interno delle lacune, ma, ciononostante, riuscì ad introdurre innovazioni di carattere generale che il decreto Gullo non aveva trattato, quali ad esempio: il limite ventennale della proprietà fondiaria a 200 ettari; l’esproprio generale delle terre al di sopra dei 200 ettari e la loro assegnazione in proprietà ai contadini; l’obbligo di una buona coltivazione e di trasformazione fondiaria per le terre al di sotto 200 ettari rimaste nelle mani dei vecchi proprietari. Superfluo ribadire come la via appena intrapresa non si arrestò con questa prima legge: la legislazione agraria, che prese avvio nel 1944, continuò a reinventarsi e aggiornarsi, durante il corso di tutti gli anni ‘50. Numerose furono le leggi modificative e integrative della stessa legge 104 del 27 dicembre 1950, tra queste annoveriamo: «il decreto legge regionale 5 agosto 1952 n.12; la legge regionale 2 agosto 1954 n 11; la legge regionale 5 aprile 1954 n 9; la legge regionale 5 novembre 1954 n 11; la legge regionale 28 gennaio 1956 n. 5; la legge regionale 12 maggio 1959 n. 21» [28].
Va rilevato che il seguente ordinamento agrario, infine, comportò notevoli cambiamenti sia sul piano economico che su quello sociale: se, in un primo momento, i contadini poveri e la piccola e media borghesia vollero la ripartizione in piccole quote, successivamente si ottenne una ridistribuzione di quote sempre più grandi, fino a raggiungere persino la stessa vendita, attuata dai proprietari per timore di incorrere in dei provvedimenti della legge agraria. In meno di un decennio, in Sicilia, si assistette alla redistribuzione di 500 mila ettari di terreno e fu questo uno dei cambiamenti più stravolgenti del ventesimo secolo. I comunisti siciliani che avevano votato a sfavore, decisero comunque di contribuire attraverso le loro organizzazioni sindacali, guidando la spartizione delle terre e istituendo cooperative all’interno delle quali far confluire i contadini.
La Riforma ebbe, quindi, un impatto positivo nella società contadina, ma i mutamenti di carattere sociale che ne seguirono furono accompagnati dalla difesa ininterrotta perpetrata dal Blocco Agrario che, pur di non cadere vittima dei rivolgimenti in corso, iniziò ad appellarsi alla forza del mercato. Le cause di questa pratica potevano essere ricercate nella «fame di terra contadina e borghese ma soprattutto nell’intervento dello Stato alla formazione del capitale sociale necessario all’acquisto della proprietà coltivatrice» [29]. Se questo divenne il nuovo dato innovativo e politico che garantiva ai contadini l’acquisto della terra, viceversa favorì anche i grandi proprietari e la mafia. I dirigenti comunisti trovatisi impreparati ad un evento di tale portata, cercarono in tutti i modi di fermare la compravendita dei terreni messi a disposizione da una classe agraria ormai morente che, a sua volta, avviò una vera speculazione facendo salire alle stelle il prezzo della terra. Per gli agrari questo fu, come lo definì On. Francesco Renda, “un secondo piano Marshall” che reinvestiranno nel capitale urbano o capitale azionario.
Malgrado tutto, la Riforma colpì duramente la classe latifondista, che dovette «sloggiare lo stesso dalle posizioni di comando da sempre vigorosamente possedute; e fu costretta anche a cambiar mestiere, a ricercare una nuova diversa qualificazione professionale, a trasferire la sede dei suoi interessi e dei suoi affetti» [30]. Cambiò il volto delle campagne abbandonate e le stesse ville signorili persero il loro significato di potere e sopraffazione. Si trasformò anche il carattere della mafia, che scomparve dai latifondi e trasferì il suo interesse nel mercato fondiario e nelle sue speculazioni urbane. A salvare la mafia fu «soprattutto l’impetuoso e incontrollato sviluppo del mercato fondiario. Nella eccezionale lievitazione dell’offerta di centinaia di migliaia di ettari di terra posti in vendita, e nel clima di una corsa collettiva all’acquisizione del possesso terriero, i capimafia assunsero, ovunque possibile il controllo e le intermediazioni delle operazioni di vendita e di acquisto» [31].
Sul finire delle lotte agrarie e l’inizio di un cambio generazionale all’interno del Pci e del Parlamento Siciliano, Colajanni rassegnerà le proprie dimissioni da Deputato Regionale, dopo 22 anni di lotta, l’8 marzo 1969. Tuttavia la sua parabola politica non si arrestò ai banchi di Palazzo Orleans, come lui stesso ci ricorda: indirizzerà tutte le sue «energie nel processo vivo nelle forze democratiche dei lavoratori e del popolo siciliano, dal quale questo parlamento trasse vita nell’Italia liberata dalla lotta liberatrice e che oggi, segnato dall’impetuoso sviluppo delle lotte operaie, contadine, studentesche» [32].
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Tre Generazioni di Comunisti a Confronto, «Moby Dick, giornale della Federazione Giovanile», Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 28, Istituto Gramsci Siciliano, di Palermo, 1982.
[2] P. Colajanni, Discorso per il Congresso Provinciale della Provincia di Palermo, Fondo Pompeo Colajanni, Busta 35, Fascicolo 2, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, 1946.
[3] P. Colajanni, Dati relativi iscritti al Partito, Fondo Pompeo Colajanni, Busta 35, Fascicolo 2, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, 1946.
[4] Per un approfondimento vedi: S. M. Finocchiaro, Il Partito Comunista nella Sicilia del dopoguerra (1943-1948); Conflitto sociale, organizzazione e propaganda tra collaborazione antifascista e guerra fredda, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2009: 153.
[5] P. Colajanni, Articolo su Portella della Ginestra, Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 5, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, 1947.
[6] «I fasci di combattimento nacquero, all’indomani della guerra, col carattere piccolo-borghese delle varie associazioni di reduci, sorte in quel tempo. Per il loro carattere di recisa opposizione al movimento socialista, eredità in parte delle lotte fra Partito socialista e le associazioni interventiste nel periodo della guerra, i Fasci ottennero l’appoggio dei capitalisti e delle autorità. Il loro affermarsi, coincidendo colla necessità degli agrari di formarsi una guardia bianca contro il crescente prevalere delle organizzazioni operaie, permise al sistema di bande create ed armate dai latifondisti di assumere la stessa etichetta dei Fasci, alla quale conferirono col successivo sviluppo la stessa caratteristica loro di guardia bianca del capitalismo contro gli organi di classe del proletariato». G. Vacca, Nel Mondo Grande e Terribile, antologia degli scritti 1914-1935, Scritti di Antonio Gramsci, Einaudi, Torino, 2007: 40.
[7] P. Colajanni, Matrimonio di Interesse, Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 5, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, 1947.
[8] Assemblea Regionale Siciliana, Dichiarazioni sul Governo Alessi, seduta di martedì 17 giugno, 1947.
[9] Assemblea Regionale Siciliana, Dichiarazioni sul Governo Alessi, cit.
[10] M. Cimino, Storia del Separatismo siciliano 1943-1947, Edizioni dell’Asino, Palermo, 2018: 111.
[11] Ivi: 113.
[12] Ivi: 117.
[13] M. Cimino, Le Pietre nello stagno; inchieste, servizi e interviste sulla Sicilia del dopoguerra (1943-60), La Zisa, Palermo, 1988:67
[14] S. M. Finocchiaro, Il Partito Comunista nella Sicilia del dopoguerra (1943-1948) cit.: 101.
[15] F. Renda, Storia della Sicilia, dal 1860 al 1970, volume terzo, Sellerio, Palermo, 1984: 214.
[16] S. Finocchiaro, Il Partito Comunista nella Sicilia del Dopoguerra (1943-1948), cit.
[17] Assemblea Regionale Siciliana, Piano ERP, seduta di lunedì 26 luglio, Palermo, 1948.
[18] Assemblea Regionale Siciliana, Piano ERP, cit.
[19] I Comunisti Siculi Ribelli al Cominform, «Il Tirreno», Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 3, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo.
[20] Assemblea Regionale Siciliana, Discorso di Pompeo Colajanni sull’arresto di Gino Cortese, seduta del 25 settembre, Palermo, 1948.
[21] S. M. Finocchiaro, Il Partito Comunista nella Sicilia del Dopoguerra (1943-1948), Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2009: 46.
[22] F. Renda, Storia della Sicilia, cit.:188.
[23] Ivi: 192.
[24] Assemblea Regionale Siciliana, Discorso di Pompeo Colajanni sulle Terre incolte, Volume IV, Seduta lunedì 20 marzo, Palermo, 1950.
[25] C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino, 1945.
[26] F. Renda, Storia della Sicilia, cit.: 334
[27] Assemblea Regionale Siciliana, Intervento di Pompeo Colajanni sulla Riforma Agraria, venerdì 29 settembre, 1950.
[28] F. Renda, Storia della Sicilia, cit.: 335.
[29] Ibidem.
[30] Ibidem.
[31] Ibidem.
[32] P. Colajanni, Lettera di Dimissioni di Pompeo Colajanni (Palermo 8 marzo 1969), Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 1, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo.
Riferimenti bibliografici
M. Cimino, Le Pietre nello stagno; inchieste, servizi, e interviste sulla Sicilia del dopoguerra (1943-60), La Zisa, Palermo, 1988.
M. Cimino, Storia del separatismo siciliano 1943-1947, edizione dell’asino, Palermo, 2018.
S. M. Finocchiaro, Il Partito Comunista nella Sicilia del dopoguerra (1943-1948), Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2009.
A. Gramsci, Nel Mondo Grande e Terribile, antologia degli scritti 1914-193, a cura di G. Vacca, Einaudi, Torino 2007.
C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino, 1945.
F. Renda, Storia della Sicilia, dal 1860 al 1970, volume terzo, Sellerio, Palermo, 1984.
Fonti di Archivio
P. Colajanni, Discorso per il Congresso Provinciale della Provincia di Palermo, Fondo Pompeo Colajanni, Busta 35, Fascicolo 2, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, 1946.
P. Colajanni, Dati relativi iscritti al Partito, Fondo Pompeo Colajanni, Busta 35, Fascicolo 2, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo. 1946.
P. Colajanni, Articolo su Portella della Ginestra, Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 5, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, 1947.
P. Colajanni, Matrimonio di Interesse, Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 5, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, 1947.
P. Colajanni, Lettera di Dimissioni di Pompeo Colajanni (Palermo 8 marzo 1969), Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 1, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo.
Tre Generazioni di Comunisti a Confronto, «Moby Dick, giornale della Federazione Giovanile», Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 28, Istituto Gramsci Siciliano, di Palermo, 1982.
I Comunisti Siculi Ribelli al Cominform, «Il Tirreno», Fondo Pompeo Colajanni, Busta 119, Fascicolo 3, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo.
Sitografia
Assemblea Regionale Siciliana, Dichiarazioni sul Governo Alessi, seduta di martedì 17 giugno, 1947.
Assemblea Regionale Siciliana, Piano ERP, seduta di lunedì 26 luglio, Palermo, 1948.
Assemblea Regionale Siciliana, Discorso di Pompeo Colajanni sull’arresto di Gino Cortese, seduta del 25 settembre, Palermo, 1948.
Assemblea Regionale Siciliana, Discorso di Pompeo Colajanni sulle Terre incolte, Volume IV, Seduta lunedì 20 marzo, Palermo, 1950.
Assemblea Regionale Siciliana, Intervento di Pompeo Colajanni sulla Riforma Agraria, venerdì 29 settembre, 1950.
____________________________________________________________________________
Francesco Butticè, da poco laureato in Scienze Filosofiche e storiche, all’Università degli studi di Palermo, con una tesi dal titolo “Pompeo Colajanni, l’uomo e il parlamentare regionale”. Da qualche mese ha iniziato ad approfondire e studiare il movimento partigiano e il contributo dato dai meridionali nella Resistenza.
_______________________________________________________________