Una nuova casa editrice, Pop Libris Editions, è nata recentemente in Tunisia; sin dal titolo i fondatori hanno voluto mettere l’accento sul tipo di libri che avrebbero voluto pubblicare e sullo scopo della loro avventura, puntare su una letteratura popolare, e di genere, nel tentativo di riavvicinare le persone alla lettura.
La crisi dell’editoria è fortemente sentita in Tunisia, un Paese in cui la maggior parte delle persone legge i giornali, ma in cui, pochi, leggono e acquistano libri, dunque, pochi lettori, ma anche pochi libri pubblicati. Coloro che hanno una bassa scolarizzazione hanno una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti dei lettori, ma è anche vero che la ragione per cui la lettura sia praticata solo da una minima fascia della popolazione è da ricercarsi anche altrove. Il libro resta un oggetto costoso che rappresenta una piccola parte del mercato, la maggior parte dei volumi è, infatti, pubblicata all’estero, ma c’è anche da considerare che le librerie sono solo una trentina in tutto il Paese, e quasi tutte si trovano a Tunisi. I giovanissimi tuttavia hanno trovato un nuovo modo per avvicinarsi alla lettura, creando club letterari che si sono moltiplicati anche sui social; su Facebook e YouTube sono sempre più frequenti gruppi e canali in cui i giovani scrittori tunisini discutono di libri, fanno critica letteraria e indirizzano i nuovi autori verso nuove case editrici, lontane dai canali classici.
La rivoluzione del gennaio 2011 ha attuato un forte cambiamento nel panorama letterario tunisino, la libertà di parola ha fatto sì che saggi di riflessione politica, analisi sociali e molti manoscritti, dimenticati in un cassetto per paura della censura, venissero finalmente stampati. L’editoria tunisina ha così visto la pubblicazione di moltissimi saggi di natura politica e di riflessioni sulle condizioni del Paese pre e post rivoluzione, avviando, anche sul piano editoriale, una piccola ma significativa primavera. In effetti, si può dire che, in Tunisia, la rivoluzione abbia invaso il mercato letterario divenendo protagonista nei libri; questa rinata libertà d’espressione ha penalizzato fortemente la pubblicazione di romanzi, prediligendo la forma saggistica.
Possiamo anche notare che, se da una parte, in Tunisia, vi era una forte tradizione poetica e letteraria, dall’altra vi è sempre stato quasi un rifiuto per una letteratura popolare, di genere, considerata quasi come non degna di emergere o addirittura di nascere. L’editoria e la letteratura tunisina, ad ogni modo, negli ultimi anni, stanno facendo emergere, nell’ambito di una letteratura che si svincola sempre più dalla categoria di “francofonia”, nuovi giovani autori interessanti e nuove case editrici.
Questi nuovi autori sono il frutto di un’eredità multiculturale, scrivono in arabo e in francese, portando con loro un incredibile e vasto patrimonio di influenze, che proviene dalla cultura punica e berbera, romana, ebraica e arabo-musulmana, francese, ma anche italiana. Basti pensare che La Goulette viene ancora oggi soprannominata “la petite Sicile”, poiché, come è noto, sin dalla metà dell’Ottocento, fu popolata da una consistente comunità italiana, perlopiù di origine siciliana. La letteratura non può che risentire di questo crocevia di culture e tradizioni, unico nel Mediterraneo, che rende la Tunisia una sintesi tra Oriente e Occidente, senza il peso di fratture, come ad esempio in Algeria, per quanto riguarda la questione della scelta, tra l’arabo e il francese, come lingua letteraria.
I nuovi autori sembrano portare con sé questo multiculturalismo, una nuova energia e un desiderio di svecchiare, non solo i temi, ma anche forme e generi, sintomo anche di un risveglio editoriale tunisino. Pop Libris Editions è una di queste case editrici, nata nel 2013, grazie all’incontro di tre giovani appassionati di letteratura, Atef Attia, Sami Mokaddem e Souha Cherni che si sono incontrati sul gruppo Facebook The Reading Corner e hanno deciso di dare vita a quest’avventura editoriale con lo scopo di promuovere una letteratura tunisina alternativa. Essi stessi autori, i tre fondatori, hanno scelto di puntare su una letteratura popolare, di genere. Pop Libris nasce dal desiderio di dare vita ad un genere di letteratura che non esiste in Tunisia e per dare un’opportunità a giovani autori ancora sconosciuti. La linea editoriale di questa vivacissima casa editrice punta su contenuti originali e su una letteratura d’intrattenimento, preferibilmente di genere (noir, thriller, fantascienza…), prediligendo un formato, il tascabile, leggero e maneggevole, con una grafica accattivante e una cura particolare per la copertina e, soprattutto, vanta un prezzo basso, accessibile a tutti, così da poter riavvicinare concretamente le persone alla lettura. Pop Libris persegue anche lo scopo di essere un mezzo di democratizzazione del libro; dal 2013 a oggi hanno pubblicato diversi romanzi, cercando di mantener fede alla loro promessa e divenendo un piccolo caso editoriale, che ha suscitato interesse e che ha iniziato a vendere sempre più copie.
La Cité Ecarlate di Sami Mokaddem, Invisible Kid di Atefa Attia e Diva Motherfucker di Jihène Charrad sono tre libri stampati da Pop Libris, tre generi diversi ma che ben rappresentano lo spirito di questa nuova casa editrice. La Cité Ecarlate, di Sami Mokaddem, una raccolta di 16 racconti, è il suo primo libro, pubblicato nel 2013; scritto in francese, lingua che viene scelta dall’autore come mezzo d’espressione per scrivere i suoi romanzi, sebbene i personaggi, l’ambientazione, le storie affondino le radici nella cultura tunisina. L’amore è il filo rosso che lega questi 16 racconti, l’amore perduto o mai nato, le speranze, le disillusioni, la perdita, il lutto… tutto ruota attorno a questo sentimento, che richiama il filo rosso che tiene legati due personaggi di uno dei racconti e che è destinato a non spezzarsi, nonostante porti con sé il dolore di una mancanza.
I personaggi spesso non hanno un nome, un “lui” e una “lei” che ricorrono, volutamente misteriosi, di cui, in poche pagine, impariamo a conoscere perfettamente emozioni e sentimenti; pur non sapendo chi siano, veniamo trascinati nella loro realtà e, piano piano, racconto dopo racconto, diventano personaggi sempre più definiti. Le figure femminili vengono spesso assimilate a delle dee; pur nella loro concreta imperfezione, ogni donna assume una sua propria caratteristica, tutte comunque accumunate da una bellezza che proviene da una grazia e da un fascino che le rende, a tratti, inavvicinabili. Con i personaggi maschili l’autore utilizza, invece, nel tratteggiarli, una certa ironia: anche quando giunge a una totale identificazione ricorrendo alla prima persona singolare, sembra tuttavia un ulteriore modo di mostrare una sfaccettatura del loro carattere, la leggerezza, perduta a causa della morte che ha fatto bruscamente irruzione nelle loro vite. D’altra parte l’ironia sembra essere una cifra stilistica di Mokaddem stesso, basti pensare al fatto che, nel testo, come autore, si augura più volte di non essere in cima alla lista del movimento “Sauvez un arbre, abattez un écrivain”.
Realtà e finzione si alternano e l’ambientazione, sospesa tra la realtà e una realtà altra che rimanda a quella della dimensione del sogno o dell’inconscio, spesso richiama i paesaggi del Far West; vi è la medesima desolazione di certe cittadine abbandonate che tante volte abbiamo visto nelle inquadrature dei film western. La penna di Mokaddem ha la capacità di farci ritrovare immersi in questi stessi paesaggi spettrali, abbiamo l’impressione di sentire il rumore assordante del silenzio, misto al sibilo del vento, e di camminare accanto al personaggio mentre si inoltra per queste cittadine deserte.
La solitudine, d’altra parte, pervade l’intero libro, un sentimento che viene declinato in tutte le sue sfaccettature e che, a volte, traspare proprio da un’ambientazione, a volte da un non dialogo tra i personaggi. Il silenzio è una delle tematiche che ritroviamo e che ritorna insistentemente, un silenzio che si colora di significati sempre diversi, il silenzio carico di parole e di complicità tra un uomo e una donna che non si conoscono o il silenzio di una coppia come segno di incomunicabilità, il silenzio che porta con sé la morte della donna amata, fino ad arrivare a “La femme fontaine”, il racconto in cui forse il silenzio assume il significato più profondo. Probabilmente questa è la storia più “cinematografica” di quelle raccolte in questo libro. Proprio per l’uso che l’autore fa dei silenzi, è, infatti, una storia, tra un uomo e una donna, “senza parole”, ma fatta di immagini; il silenzio diviene l’unico testimone del loro perduto amore, il loro linguaggio segreto che non ha bisogno di parole per poter comunicare, così quando “lei” decide di inviargli una lettera, gli manda una serie di fotografie, che “lui” legge, ritrovando le parole pensate, ma mai scritte.
Amore e morte sono i protagonisti di ogni pagina, la morte che irrompe portando con sé tutta l’atrocità del dolore, ma anche il sapore dolce del ricordo, una malinconia che ci accompagna e che avvertiamo costantemente accanto a noi lettori. L’autore attraversa questi paesaggi immaginifici, rassicuranti e, allo stesso tempo terribili, così come sente di dover attraversare il dolore per poter “partorire di nuovo un sorriso”, come scrive nel racconto “Carmen”. Vi è una grande delicatezza e sensualità nelle descrizioni che fa di questi amori, ma soprattutto possiamo sentire come i ricordi si rincorrono e si sovrappongono, mentre l’autore continua a ricordarci quanto tutto sia effimero; questo sentimento ci resta addosso fino all’ultimo racconto, in cui, con un “coup de théâtre”, ci svela che quelli letti finora non sono solo racconti, ma “Flashes”, come il titolo di un altro dei sedici racconti, frammenti di un’unica storia, che ci viene, infine, rivelata e spiegata.
Sembra ricordarci, in ogni istante, quanto la felicità sia effimera anche in questo modo quasi ossessivo di riproporre i ricordi o di arrivare a negare ciò che è accaduto per non soffrire, riaffermando, tuttavia, proprio con la negazione, il ricordo dell’avvenimento traumatico; in “Un baiser sous la pluie”, ad esempio, possiamo notare come richiami il dipinto di Gustave Courbet, “L’Homme Blessé”. Nel racconto vi è un quadro da cui il protagonista della storia non riesce a separarsi e in cui è stata “misteriosamente” cancellata l’immagine di una figura femminile; questa donna, infatti, è morta e il dolore è tale da far sì che il personaggio maschile impazzisca e sia totalmente annientato da questo lutto.
Il libro di Mokaddem, in effetti, è pervaso dall’arte e dall’amore per le arti, ma in questo caso sembra voler riaffermare, ciò che Courbet scrisse a proposito del suo dipinto «La vraie beauté ne se rencontre que dans la souffrance (…). Voilà pourquoi mon duelliste mourant est beau», sembra, infatti, voler richiamare la storia del dipinto di Courbet che, in una precedente versione, mostrava due innamorati abbracciati. La donna fu il grande amore del pittore e, quando lo lasciò, Courbet fu annientato da questa perdita e, pur non volendosene mai separare del tutto (portò, infatti, il dipinto con sé persino nell’esilio in Svizzera), scelse comunque di eliminare l’immagine dell’amata dal dipinto e di modificare il giovane ragazzo che era, con un uomo maturo, ferito mortalmente al cuore, proprio lì dove prima era stata dipinta la donna.
La metafora è uno stilema che ricorre nella poetica e nella scrittura di questo autore e che ritroviamo soprattutto in uno dei temi presenti in tutto il libro, l’acqua, in tutte le sue declinazioni, e con diverse connotazioni: la pioggia che spesso assiste e accompagna la nascita di un nuovo amore, ma anche la pioggia rossa che fa pensare a lacrime di sangue, il mare, il lago in cui si può cadere nell’oblio, la fontana, come metafora di una donna. L’acqua è un elemento fondamentale in questi racconti, sorta di liquido amniotico, da cui tutto ha inizio e, inevitabilmente, tutto ha fine. Ricorre, in modo parallelo, la presenza della luna e delle stelle; d’altra parte, sul piano dell’inconscio le stelle possono essere viste come metafora delle lacrime; penso, ad esempio, alla bella analisi di Stefano Agosti su una poesia di Paul Valéry, in cui evidenzia una metafora tra la stella e la lacrima. «Come la stella, la lacrima brilla e illumina (rischiara). La funzione proposizionale, in questa accezione della luminosità, è comprensibile solo se si intende la lacrima come una sorta di occhio supplementare. (…) Il velo di lacrime davanti all’occhio è ciò che permette al Soggetto di vedere dentro di sé»[1].
Quella dell’autore è una letteratura di genere che sembra, tuttavia, attraversare diversi generi, ma ciò che traspare e colpisce da subito è la sincerità con cui scrive e che emerge dalle sue parole; Sami Mokaddem sembra giustificare questa sincerità che, tuttavia, ribadisce scrivendo che le storie si ispirano a fatti per la maggior parte reali e che lui non è altro che un “aligneur de mots”. Ciò che affascina, in effetti, nel leggere la sua storia è proprio questa sincerità grazie alla quale riesce a farci immergere in questo altro mondo dell’inconscio, o del cuore, come lui stesso lo definisce, facendoci rivivere, attraverso i suoi personaggi, emozioni perdute.
Invisible Kid di Atefa Attia, romanzo pubblicato nel 2015 dopo Sangue d’Encre, la sua prima raccolta di racconti noir, è inizialmente nato come un racconto da inserire nella raccolta. L’autore, tuttavia, si rende conto ben presto che la storia e i personaggi stanno crescendo, tanto da accantonare, in un primo momento, il progetto per poi, successivamente, riprenderlo e pubblicarlo come un romanzo, a cui sceglie di dare il titolo di una canzone dei Metallica, appunto “The Invisible Kid”, ritenendo che i versi e lo spirito della canzone rispecchino perfettamente il protagonista.
Attia mostra un’incredibile capacità di farci immedesimare con il protagonista, Issour, un ragazzo di quindici anni, piuttosto solitario, tanto da avere l’impressione, alcuni giorni, di diventare quasi invisibile. Il romanzo viene costruito su una storia alquanto banale, Issour si innamora, non corrisposto, di una compagna, comprendiamo la sua solitudine e assistiamo al cambiamento del suo carattere quando scopre di avere una seria malattia cardiaca. Il suo atteggiamento nei confronti della vita e dei suoi compagni si modifica, acquista maturità e ironia e diventa il bersaglio di un gruppo di bulli. Issour non vuole altro che vivere in modo tranquillo ed essere lasciato in pace, ma si ritrova protagonista di una terribile avventura causata dai bulli, ne uscirà vivo solo per miracolo, ma il suo spirito subirà un profondo cambiamento: da ragazzo timido e solitario, diverrà un vendicatore sanguinario pieno di rancore. Apparentemente è una storia di formazione a tratti noir e horror, ma ciò che trascina il lettore è la capacità di farci identificare con questo ragazzo, tant’è che la scrittura di Attia si modifica parallelamente al cambiamento caratteriale del suo protagonista.
Sin dalle prime pagine, ci ritroviamo immersi nei ricordi di un periodo che tutti abbiamo vissuto, ci sorprendiamo a sorridere, a rivivere emozioni che credevamo perdute o dimenticate; Attia esplora la sua e la nostra memoria, facendo sì che le sue parole agiscano su di noi come “le madeleine di Proust”. È questa la forza dell’autore, la capacità di farci immedesimare, non tanto con Issour, ma con il ragazzino e la ragazzina che siamo stati e di riportarci alla mente momenti della nostra vita e sentimenti a cui avevamo smesso di pensare, dimenticando la persona che siamo stati.
Attia ci presenta, infatti, il suo protagonista solo dopo cinquanta pagine, eppure abbiamo già imparato a conoscerlo; non sappiamo ancora nulla di lui se non le emozioni e i sentimenti che prova. Solo a pagina 52 ci svela dettagli della sua famiglia e ci descrive questo ragazzino, e forse anche grazie a questo escamotage l’identificazione avviene con tanta forza. Improvvisamente le nostre paure adolescenziali, i dispiaceri, il primo innamoramento, la solitudine, persino la sensazione di essere invisibili, ogni cosa riemerge, e ci rendiamo conto che quelli sono gli anni in cui il nostro carattere ha iniziato a formarsi, così come quello di Issour.
Inaspettatamente, con l’entrata in scena del personaggio di Skip, sorta di antagonista di Issour, il romanzo cambia registro, divenendo un racconto noir; nel momento in cui il lettore è completamente assorbito dal romanzo e dai suoi personaggi, l’autore apre una finestra sulle nostre paure più inconsce. La caduta, causata dai bulli, di Issour in un buco che sprofonda sempre più, libera il “male” e lo mostra al ragazzo, ma questa caduta è anche metafora della discesa verso gli istinti di violenza e di vendetta che abbiamo tutti e che qui vengono liberati: una lucida follia che si impossessa del protagonista e che lo porta ad agire. In questa seconda parte del romanzo, l’ambientazione si modifica, il ritmo del racconto diviene più serrato, l’autore descrive l’oscurità della natura umana facendo irrompere con forza la violenza nella storia ma anche mostrando di padroneggiare la suspense fino all’ultima riga. Il romanzo si interrompe, infatti, bruscamente, con un “continua”, proprio nel momento in cui assistiamo al definitivo cambiamento del ragazzino, lasciando il lettore con la curiosità di sapere cosa accadrà. Tuttavia proprio questo “A suivre” ci suggerisce che questo non è che il primo capitolo delle avventure del nuovo Issour. Alla fine del romanzo, Attia inserisce una piccola sorpresa per il lettore, un breve racconto, che ci trasporta in Messico, una storia di violenza, seduzione, tradimenti e sopravvivenza, mostrandoci, ancora una volta, la sua passione per questo tipo di letteratura di genere, con un marcato utilizzo di humour noir.
Diva Motherfucker di Jihène Charrad, nato a partire da un blog tenuto dalla giovane scrittrice, si presenta in una forma “moderna”, graficamente accattivante per i più giovani. Tuttavia, nel leggerlo, ci rendiamo conto che, dietro l’ironia e il modo apparentemente semplice e frivolo di raccontare momenti della vita quotidiana di una giovane donna tunisina, l’autrice ci fa riflettere molto più di quanto potremmo immaginare in un primo momento.
Diva è un mélange di critiche sociologiche e femministe, sebbene scritto con un tono leggero; attraverso le sue parole e i suoi racconti, scopriamo la visione di una donna tunisina, una scrittrice trentenne che scrive una divertente satira delle tradizioni che persistono nella società tunisina, il matrimonio, la ricerca dell’uomo perfetto, “il principe charmant”, gli incontri amorosi… È un libro che si legge tutto d’un fiato, in cui si parla d’amore in modo leggero e con molta ironia. L’autrice utilizza la metafora per declinare l’amore in tutte le sue sfaccettature, facendoci ridere e riflettere allo stesso tempo quando paragona questo sentimento a un lavoro a tempo determinato, indeterminato, stage… La moda, il cibo, i locali diventano metafore per gli uomini e per l’amore, sorridiamo, ci immedesimiamo, ripensiamo a incontri d’amore disastrosi e grotteschi, scoprendoci divertiti nel riportarli alla mente.
L’autrice alterna un tono leggero a riflessioni sottili, mentre ci parla, senza mai abbandonare l’ironia, della ricerca dell’uomo perfetto, in quella che sembra essere una sorta di “cronaca” della vita di una giovane donna. Diva è una donna libera, indipendente, femminista, una donna forte, eppure il suo atteggiamento sarcastico e distaccato nasconde una grande sensibilità: ad esempio quando descrive con molta ironia la borsa piena di oggetti di una donna, spiegando che una borsa così ben ordinata rivela, in realtà, molto sulla personalità della sua proprietaria, una donna certamente dalla vita instabile e disorganizzata, o quando paragona le scarpe a dei bébés, un modo per colmare un vuoto e per mettere a tacere il sentimento di mancanza che riemerge in una donna.
Diva è una donna moderna, così come questo libro che rivela una sua complessità dietro una scrittura semplice; l’autrice sembra volerci dire che è tempo di riflettere. Descrive l’universo femminile inserendo riflessioni sulle eterne questioni esistenziali; la dimensione filosofica viene affrontata con un tono non serio, quasi come se si volesse prendere gioco di se stessa, anche quando cita Simone de Beauvoir, Lévi-Strauss, Voltaire, Céline, Durkheim…
Diva ha il suo lieto fine, un lavoro che ama e la soddisfa, un’amica complice e un compagno, perfetto per lei nella sua imperfezione, e sembra così volerci dire che la ricerca della felicità non è poi così impossibile, purché si impari ad accettare noi stessi, ad essere coscienti di cosa siamo e a rimanere fedeli a noi stessi. Con “Diva”, Jihène Charrad ci mostra una parte della società tunisina, così che la forza di questo libro risiede nell’equilibrio tra un’apertura all’Occidente e un attaccamento alle tradizioni, alla cultura, ai modi di dire della cultura tunisina; l’originalità viene anche dall’utilizzo di espressioni idiomatiche tunisine che agiscono come valore aggiunto e come una finestra su un mondo di tradizioni molto simile al nostro. L’autrice, dietro Diva, dice che questo libro è stata una «sorte de thérapie, ou encore une forme d’anesthésie pour mes émotions», e forse alla fine ci rendiamo conto che lo è stato anche per noi lettori e lettrici.
Tre libri interessanti, piacevoli da leggere, ma ciò che sicuramente più colpisce è come grazie a case editrici come Pop Libris si riesca a sfidare la crisi e la disaffezione alla lettura e come, attraverso la rivendicazione di un’idea di romanzo come intrattenimento, stiano riuscendo a far diventare, sempre più, le persone di oggi i lettori di domani.