di Alberto Giovanni Biuso
Adorno e Horkheimer, la dialettica
Pensatore anche politico, Adorno non accettò mai di identificare il progetto di liberazione dell’umano con una determinata struttura statale o di partito, arrivando a giudicare «l’ordine collettivistico nascente» come «una tragica parodia di quello senza classi» [1]. Impegnato a costruire l’emancipazione, rimase sempre un pensatore disincantato e malinconico.
La Teoria critica sviluppata insieme a Horkheimer è un segno negativo di resistenza assai più che un’apertura totalistica verso il Sole dell’avvenire. La scrittura di Adorno è essa stessa un segno della irriducibilità del suo pensiero a ogni ovvietà, alla strumentalizzazione del semplice, alla complicità con la preponderanza del numero. Uno dei suoi meriti maggiori consiste nel vedere la barbarie che pulsa al cuore del sentimentalismo moderno, dell’umanesimo antropocentrico, dell’adulazione verso le masse, del culto per il semplice. Tutti elementi, questi, nei quali «un umanesimo radicale porta con sé la minaccia latente dell’imperialismo della specie, il quale ritorna infine a perseguitare le stesse relazioni umane»[2].
Il pensiero di Horkheimer e Adorno rimane irrisolto, inconciliato. Esso si muove per campi di forze e costellazioni, per labirinti concettuali e linguistici. I suoi punti fondamentali di energia sono costituiti dal marxismo, dal modernismo estetico, dal conservatorismo culturale, dal decostruzionismo. Nella loro complessa contraddittorietà, essi rappresentano segnali ancora fecondi, perché Dialettica dell’Illuminismo non è soltanto un classico della sociologia filosofica del Novecento ma è anche una sorta di avviso sempre vivo su come sia possibile che dalle migliori intenzioni, da una razionalità senza incertezze, si possa generare una tonalità individuale e collettiva che conduce a forme politiche fortemente autoritarie, ai fascismi, alle tecnocrazie neoliberiste. Tutte forme nelle quali «la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura» [3].
La dialettica dell’Illuminismo non rappresenta il dissolvimento della luce della ragione ma la comprensione critica della sua complessità, dell’ambiguità, delle conseguenze alle quali ogni tentativo di rimozione dell’ombra può condurre. Illuminismo non vuol dire per la Teoria critica il semplice trionfo del soggetto borghese ma indica ogni momento nel quale i principi della ragione calcolante prendono il sopravvento e producono forme sociali ed economiche oppressive, alcune evidenti altre meno. Tra le meno evidenti è centrale l’industria culturale, espressione che non è stata soltanto descrittiva di quanto stava accadendo nella prima metà del Novecento ma di ciò che sta accadendo oggi, nel XXI secolo, nella società dello spettacolo, nei luoghi digitali della comunicazione.
Il testo adorniano nel quale tale fecondità mostra di vibrare con intatta potenza è probabilmente Minima moralia. Non solo perché composto di aforismi, non solo perché costituisce un’argomentata testimonianza filosofica sul totalitarismo ma soprattutto perché è un’opera che riesce a tenere insieme le tendenze più diverse, punti di vista anche lontani, senza smarrire l’unitarietà dell’analisi, la coerenza dello sguardo sul secolo e sulla storia.
Composto fra il 1942 e il 1949, permeato di un grande rigore etico, frutto di studi come di vita, di una vita che è studio, questo libro scava nel cuore del nostro tempo, rivelandone più di un nascondiglio. E lo fa con una scrittura e un metodo circolari, contraddittori, radicalmente dialettici. Il pensiero di Adorno è sempre vigile, attento a non chiudersi in uno solo dei lati della cosa ma anche di non cadere nella trappola dialettica che si accontenta di constatare che ogni cosa ha due lati. Egli pensa piuttosto che «la dialettica illuminata deve stare continuamente in guardia contro l’elemento apologetico e conservatore, che è pur sempre una componente del pensiero non ingenuo» [4].
E così il rifiuto dello spiritualismo in tutte le sue forme si coniuga a quello del positivismo logico; la convinzione della storicità di ogni forma sociale convive con la percezione di un male radicale che va espresso per impedire che esso «coperto dal silenzio, possa continuare indisturbato»[5]; la componente escatologica sgorga da un disincanto intimo e pessimistico sulla condizione degli uomini nell’età tardo capitalistica.
Nel tempo dei Social Network risulta feconda soprattutto la critica dell’individualismo che separa l’emancipazione dell’io da quella della società. Una critica che si coniuga a un pathos della distanza continuamente mostrato e vissuto, talmente pervasivo da fare di Adorno un pensatore anche aristocratico. Egli rifiuta la tendenza dello spirito ugualitario ad abolire l’educazione, le forme, le convenzioni nei rapporti fra gli individui, tendenza intimamente brutale poiché consacra la pura esteriorità della relazione reciproca; arriva a dire che «per l’intellettuale, la solitudine più scrupolosa è la sola forma in cui può conservare un’ombra di solidarietà»[6]; identifica l’ultima chance del pensiero nella ricerca di ciò che in una società di individui tutti conformi non è stato ancora assorbito, affidato alla banalità, consunto. Ai rischi e alla violenza di un’«astratta eguaglianza degli uomini» Adorno oppone «la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze», che riconosca la diversità come valore [7].
Il radicalismo antiideologico di Adorno si esprime nella constatazione secondo cui «chi si accinge di buona lena alla pulizia della casa in cui abita, dimentica su che base è stata costruita»[8], il che significa che in molte situazioni non basta rinnovare uomini e programmi se rimane immutata la struttura complessiva. Si tratta della stessa consapevolezza che muove alcune delle riflessioni formulate da Francesco Faeta sul numero di gennaio di questa rivista, a proposito di una cultura intesa come personale rassicurazione etica: «Lungi dal produrre le basi per una radicale critica degli status quo (qualsiasi essi siano), essa tende a modellare una koinè media e condivisa dello scontento, canalizzandolo verso un orizzonte di blando dissenso nei confronti del sistema», chiedendosi poi giustamente come sia «potuto accadere che la cultura abbia perso il suo potenziale critico, ogni sua aspirazione apocalittica?» [9]. Quel radicalismo, appunto, lucido e apocalittico che in Adorno si articola poi coerentemente nella dura critica all’estremismo apparente dei gruppi e dei bohémiens di sinistra pronti a diventare corifei della reazione e del dominio, dato che essi «sono così fin dall’inizio. La premessa soggettiva dell’opposizione, il giudizio non uniformato, si estingue, mentre la sua pantomima continua a svolgersi come rituale di gruppo. Basta che Stalin si schiarisca la gola perché essi gettino Kafka e Van Gogh nella spazzatura»[10]. In queste parole è prefigurato il destino di un’intera generazione: quella che partendo dal Sessantotto è giunta infine a schierarsi con le forze più reazionarie e volgari dell’industria culturale.
A quest’ultima Adorno dedica naturalmente pagine intense e famose: il gusto di massa e la cosiddetta arte pop rappresentano una delle più chiare espressioni del capitalismo contemporaneo; il cinema è descritto come un «lupo in veste di nonna»; la capacità di facce ride’, per dirla volgarmente, è strumento efficace del dominio poiché «chi ha con sé il pubblico che ride, non ha bisogno di fornire dimostrazioni»[11]. Altrettanto intense sono le molte pagine dedicate al fascismo europeo. Adorno ne coglie la genesi anche dall’estremismo umanistico di chi intende agire per il bene di qualcuno e per il meglio in generale, non a caso se c’è una filosofia del fascismo essa è idealistica; mostra soprattutto l’identità del fascismo con il circuito senza fine della produzione-consumo-produzione.
Fra i maestri Hegel e Nietzsche – due nomi ancora una volta contraddittori – si esplica tutta la forza e la ricchezza di un’analisi della contemporaneità per tanti versi estrema. Molti dei suoi particolari possono essere oggi facilmente smentiti, corretti o integrati ma la sua forza analitica complessiva rimane straordinaria fino alla veggenza. Quando Adorno conclude i suoi aforismi sulla vita offesa scrivendo che «la filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione»[12], offre non solo una splendida definizione della filosofia ma esprime a fondo tutta la complessità dialettica – e quindi anche l’ambiguità – del suo pensare. Il punto di vista della redenzione è certo l’avvento della storia che finalmente colga «le fratture e le crepe», la deformità e le manchevolezze della «preistoria» ma è anche la redenzione che da sempre il pensiero, l’attività della mente, offre a chi coglie la realtà come necessità di fronte alla quale il soggetto è inessenziale, poiché di essa è parte.
Alcuni temi di fondo della riflessione adorniana sulla modernità – la disumanizzazione, l’emancipazione, la catastrofe e la sua dialettica – mostrano i loro limiti in occasione di un serrato dialogo con Arnold Gehlen, di fronte all’empirismo del quale emerge la loro dipendenza da quel volontarismo roussoviano che è una delle radici costanti del moderno. Adorno è, infatti, convinto che la volontà umana da nulla dipenda e se adeguatamente istruita e indirizzata possa volgersi verso il Bene assoluto e costruire qui e ora la giustizia. È significativo che di fronte a un accenno di Gehlen alla situazione dell’Unione Sovietica e della Cina, Adorno risponda accusando l’interlocutore di «sarcasmo», dichiarando di non volere «difendere gli orrori terribili che evidentemente lì si perpetrano. Ma proprio il fatto che là prosegua il livellamento è la dimostrazione che quella società si fa scherno dell’idea di una società veramente liberata, secondo la propria sostanza»[13]. Di fronte a una filosofia della storia che rimanda sempre all’altrove la realizzazione delle proprie certezze, Gehlen ha la capacità di individuare l’imporsi della più omologante delle ideologie, quella del pensiero unico:
«Credo, signor Adorno, che sia anche la prima volta che simili formule dogmatiche non abbiano opposizione, non trovino nemici. I greci si distinguevano dai barbari, i cristiani dai pagani, gli illuministi dai sostenitori del feudalesimo. Ma tutti sono per l’uguaglianza, tutti sono per il progresso, tutti sono per lo sviluppo» [14].
Uno dei temi della conversazione con Gehlen – e anche di quella con Elias Canetti – è la domanda sulle istituzioni: esse rappresentano una semplice struttura storica o la loro esistenza e necessità ha come fondamento la biologia della specie umana? Il volontarismo di Adorno fa delle istituzioni qualcosa di totalmente dipendente dai rapporti di produzione e quindi di eliminabile in relazione alle trasformazioni dell’economia e delle relazioni sociali. Gehlen non difende questa o quella istituzione storica ma la necessità che una qualche istituzione si dia per salvaguardare l’essere umano dalla sua stessa naturalità.
L’antropologia integrale di Gehlen si confronta con l’antropologia utopica di Adorno e ne svela le componenti oniriche, volontaristiche e dialettiche. Alla visione progressiva dei francofortesi – progressiva anche quando svela la dialettica dell’Illuminismo – Gehlen oppone ironicamente delle considerazioni conservatrici che mostrano una sorprendente attualità: «se ci si vuole preoccupare, ad esempio, d’introdurre riforme universitarie, allora dovremmo dapprima prestare servizio in quella sfera per un paio di decenni per conoscere dove stiano i punti deboli» [15]. Al costruttivismo volontaristico dei riformatori astratti e alle conseguenze disastrose della loro incomprensione del reale, un’antropologia radicata nelle costanti insieme biologiche e culturali della storia oppone l’intelligenza del mondo.
E tuttavia, al di là delle pur corrette osservazioni critiche di Gehlen, la fecondità della Teoria critica sta anche nel rigore della sua utopia, nella capacità che i testi dei francofortesi hanno di svelare alcuni dei meccanismi più intimi e nascosti delle società, in modo da andare oltre l’ovvio, l’acquisito, la perfetta normalità, per cogliere invece in ogni dove la realtà del potere.
Per chi ama la filosofia, poi, è un vero piacere seguire la difesa appassionata e accorta che Adorno, Benjamin, Horkheimer, Marcuse conducono di essa contro ogni atteggiamento riduzionistico, positivistico, antintellettuale. Nel caso dell’Uomo a una dimensione si aggiunge, inoltre, l’interesse per l’enorme successo e l’influenza profonda che questo libro esercitò nelle università europee e italiane lungo gli anni Sessanta, fino a essere considerato una sorta di testo ispiratore e guida ideologica del Sessantotto. A più di mezzo secolo di distanza è opportuna, però, una domanda: fino a che punto fu legittimo l’uso di Marcuse da parte del Movimento studentesco? Una lettura attenta e non pregiudiziale dell’Uomo a una dimensione non può che sfatare molte leggende, molti abusi, e confermare, invece, come il destino di tanti libri sia «quello di vedere il proprio discorso involgarito o corrotto dalla pratica di coloro che dicono di ispirarsi ad essi»[16].
Gli elementi centrali della posizione di Marcuse sono caratterizzati da una complessità e contraddittorietà già di per sé poco adatte a essere ridotte in facili formule di propaganda politica. Marcuse difende una filosofia forte, dice di parlare in nome della Ragione contro un sistema sociale irrazionale; si spinge persino ad apprezzare gli strumenti che la civiltà produce «per liberare la Natura dalla sua brutalità, dalla sua insufficienza, dalla sua cecità, in virtù del potere conoscitivo e trasformatore della Ragione»[17].
La dimensione dialettica che pervade la riflessione di Marcuse rivela subito la dinamica hegeliana della contraddizione che oltrepassa lo stato di cose esistente verso esiti tra loro diversi. La stessa Ragione che può liberare dal bisogno e dal male può anche asservire a nuovi bisogni, a nuovi mali. La complessità della tecnica, come di ogni altra manifestazione umana, viene ridotta nell’era della società industriale avanzata alla dimensione monocorde del progresso, fatto coincidere a sua volta con la produzione di una quantità enorme di beni. La stessa reductio ad unum è praticata nei confronti, ad esempio, della sessualità, del linguaggio, dei valori. Insomma, «questa società cambia tutto ciò che tocca in una fonte potenziale di progresso e di sfruttamento, di fatica miserabile e di soddisfazione, di libertà e di oppressione»[18].
L’ispirazione hegeliana della Scuola di Francoforte non può accettare né una condanna né un’apologia del reale in quanto tale. Per Marcuse il filosofo non è un medico, non ha il compito di guarire gli individui ma ha il dovere di comprendere il mondo in cui essi vivono, capire la realtà che hanno costruito. E però la filosofia non sorge sul far del crepuscolo, non si limita a prendere atto del reale. Il fatto stesso di comprenderlo è l’inizio del superamento. Questa dimensione propulsiva del sapere è per Marcuse assente da posizioni come quelle neopositiviste e analitiche, nello scientismo riduzionistico e nelle filosofie del linguaggio che si limitano a consacrare il dominio dei luoghi comuni.
Contro Austin e Wittgenstein, per i quali il pensiero «lascia tutto come si trova», contro ogni tentativo di ridurre la portata e la verità della filosofia, Marcuse difende l’astrattezza del concetto dalla banalizzazione del linguaggio quotidiano. Quest’ultimo, infatti, questo presunto parlare della gente è perlopiù «il linguaggio dei suoi padroni, dei benefattori, degli agenti pubblicitari»; coloro pertanto che pretendono che l’informazione non sia «al di sopra della comprensione del popolo» non colgono la necessità di un linguaggio critico “difficile” con il quale smascherare l’ovvietà del parlar facile, che è uno degli strumenti del dominio [19].
Allo stesso modo, Marcuse respinge la riduzione della storia alla unidimensionalità del presente e rivendica il valore critico della memoria, la necessità di opporre la complessità del passato all’ovvia facilità, ancora una volta, dell’odierno. Il segno comune alla Teoria critica, nella Dialettica dell’Illuminismo in Minima moralia e nell’Uomo a una dimensione, è quindi l’analisi della progressiva massificazione che domina le società contemporanee. La devastazione fascista, la burocratizzazione sovietica, il liberismo occidentale sono forme diverse di distruzione del pensiero, assorbito dalla comunicazione e dall’indottrinamento di massa: «la maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni» [20].
È sempre in questo quadro che si inserisce l’illuminante analisi che Marcuse conduce dei media e della determinante funzione che essi svolgono nella società di massa. Essi totalizzano. Presentano, cioè l’attuale come la sola possibile forma di esistenza. Di più: creano questa forma tramite una sottile e costante manipolazione delle menti, suscitando i falsi bisogni senza i quali l’imponente apparato produttivo girerebbe a vuoto, inceppandosi. La pubblicità è quindi la forma contemporanea del dominio. Se ciò era vero quando Marcuse scriveva, lo è assai di più nel presente. Milioni di individui, oggi, non potrebbero vivere se li si privasse del giocattolo televisivo e dei Social Network.
«Si prenda un esempio (sfortunatamente fantastico): la semplice assenza di ogni pubblicità e di ogni mezzo indottrinante di informazione e di trattenimento precipiterebbe l’individuo in un vuoto traumatico in cui egli avrebbe la possibilità di farsi delle domande e di pensare, di conoscere se stesso (o piuttosto la negazione di se stesso) e la sua società. […] È certo che una situazione simile sarebbe un incubo insopportabile. […] L’arresto della televisione e degli altri media che l’affiancano potrebbe quindi contribuire a provocare ciò che le contraddizioni inerenti del capitalismo non provocarono – la disintegrazione del sistema. […] Qui non sono in gioco né problemi di psicologia né problemi di estetica, ma piuttosto la base materiale del dominio» [21].
Il linguaggio televisivo abitua a un approccio iconico alla realtà che sta trovando – ora, nel XXI secolo – il suo trionfo nei Social Network, nel fluire inarrestabile dei messaggi di Facebook, dei cinguettii di Twitter, delle immagini di Instagram. Tutte forme che dal punto di vista della Teoria critica ostacolano lo sviluppo e l’espressione dei concetti e cioè impediscono di pensare. Il concetto infatti, contrariamente all’immagine, separa la cosa e la funzione. L’universo iconico contemporaneo è il trionfo della finzione, è una contraffazione dell’immagine che diventa manipolazione dei bisogni per conto di interessi costituiti.
Come altri critici della società di massa lontani dalla prospettiva rivoluzionaria – Tocqueville, Nietzsche, Ortega y Gasset –, Marcuse individua nel numero, nell’orrore del pieno, la conferma del rischio supremo che sovrasta le società: la dissoluzione dell’individuo dentro la massa. Egli cita persino Stefan George e il suo Schon eure Zahl ist Frevel! («Il vostro numero è già un crimine!») e descrive come del tutto negative le forme di vita collettiva che erodono «lo spazio interiore della sfera privata» le quali cancellano «la possibilità di quell’isolamento in cui l’individuo, lasciato solo a se stesso, può pensare e domandare e trovare»[22]. Anche per Marcuse la possibilità di una reale autodeterminazione ha come presupposto il capovolgersi delle masse «in individui liberi da ogni propaganda, indottrinamento e manipolazione, capaci di conoscere e di comprendere i fatti e di valutare le alternative»[23].
Se nonostante questa sua complessità e ricchezza, la quale, fra l’altro, giudicava un banale ma grave fraintendimento la speranza in un edonismo tecnologico e liberatore, riaffermando con Marx che «la “fatica non può diventare gioco…”» [24], One-Dimensional Man fu utilizzato anche come un catechismo, ciò è dovuto a qualcosa di più di una cattiva interpretazione. In effetti Marcuse come gran parte del pensiero politico moderno ritiene necessario fare a meno della nozione di natura umana propensa al male, respinge come reazionario ogni biologismo e innatismo applicato alla sfera sociale, confida che l’ampliarsi del tempo libero – liberato tramite l’automazione delle attività produttive dalla sottomissione alla necessità – apra la storia a una nuova civiltà e trasformi gli umani in enti generici, individui universali. Marcuse cade quindi nella fatale e professorale ingenuità di ritenere che, liberate dal lavoro coatto e dalla sovrastruttura massmediologica che lo sostiene, le persone si daranno alla lettura, alle arti, a una festosa e genuina socializzazione.
Marcuse certamente sembrò dare nuovo slancio all’idea rivoluzionaria indicando al di là del proletariato, divenuto ormai conservatore, «il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili» quale soggetto storico nuovo e capace di dare vita al «Grande Rifiuto»[25]. E tuttavia in questo auspicio agisce più l’ottimismo della volontà che il pessimismo di una ragione senza illusioni e affascinata assai più da ciò che definisce «“dittatura educativa”, da Platone a Rousseau», nella lucida consapevolezza che «il terribile rischio che essa comporta non è detto sia più terribile del rischio che le grandi società liberali, al pari di quelle autoritarie, vanno ora correndo, né è detto che i costi siano molto più elevati»[26].
Lo spettacolo, la realtà, il simulacro
Ha avuto ragione Guy Debord: il virtuale e lo spettacolare delle società contemporanee costituiscono «le capital à un tel degré d’accumulation qu’il devient image», ‘il capitale a un tale grado di accumulazione da diventare immagine’ [27].
Per parafrasare Horkheimer e Adorno, la terra tutta virtuale splende all’insegna di sventurata realtà. La vita è diventata riproduzione di figure dietro e dentro le quali non si dà nulla se non la perpetuazione del dominio di chi possiede gli strumenti della rappresentazione rispetto a chi non li detiene. Perché «le spectacle n’est pas un ensemble d’images, mais un rapport social entre des personnes, médiatisé par des images», ‘lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediatizzato da immagini’; soggetti ed eventi che non si fanno spettacolo è come se non esistessero, e questo fa sì che lo spettacolo non sia «un supplément au monde réel, sa décoration surajoutée. Il est le coeur de l’irréalisme de la société réelle», ‘un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo della società reale’ [28]. La fine dell’illusione produce un mondo di immagini nel quale non c’è niente da vedere, un mondo di informazioni in cui non c’è nulla da sapere.
È rimuovendo la realtà diventata simulacro che diventa possibile comprendere la potenza della realtà materiale e semantica dentro la quale si dà l’accadere. Se la regola dello scambio è di restituire sempre più di quanto si è ricevuto, allora rendere il mondo un po’ più libero significa anche renderlo più inintelligibile di quanto non ci sia stato dato; significa sostituire alla realtà della comunicazione servile l’irrealtà di progetti che esistono tra il già e il non ancora; significa fare dell’interpretazione un luogo di invenzione trasformatrice che dissolva la realtà; significa, in una parola, non rassegnarsi.
In questo modo il costruzionismo e l’ermeneutica mostrano la propria natura libertaria e più anarchica di qualunque ideologia realista, progressista e politicamente corretta, il cui umanitarismo è l’evidente gemello dell’oppressione, la cui volontà di delicatezza nasconde a stento la ferocia della realtà: «Ogni destino negativo dev’essere ripulito da un trucco ancora più osceno di quel che vuole nascondere», in modo da legittimare nella propria compiaciuta tranquillità interiore «tutti coloro che fanno abbronzare la loro coscienza tranquilla al sole della solidarietà»[29]. È anche su questi ex rivoluzionari, che hanno barattato le loro giovinezze radicali con la solidarietà caritatevole dei clericali di ogni chiesa, che il potere fa affidamento e gongola tranquillo.
Lo spettacolo si rivela come una forma economica che «ne chante pas les hommes et leurs armes, mais les marchandise et leurs passions», ‘non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni’ [30], una forma nella quale non troviamo ciò che desideriamo ma desideriamo ciò che ci inducono ad acquistare.
Condizionati sin nell’intimo del loro pensare, inconsapevoli d’essere condizionati, vaganti tra illusioni, luccichii e menzogne, gli spettatori/consumatori sono il soggetto politico amorfo e passivo che Debord definisce con estrema chiarezza: si tratta di «morti che credono di votare» [31], una morte che è consustanziale alle immagini che sopravvivono assai più a lungo di ciò che rappresentano. Ed è anche per questo che «le spectacle en général, comme inversione concrète de la vie, est le mouvement autonome du non–vivant», ‘lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente’ [32].
In questa società di zombie la democrazia è un simulacro. Il suffragio universale è diventato «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza», nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia – bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» [33].
Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media»[34]. Coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici e il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata»[35]. È esattamente quanto sta accadendo negli anni Venti del XXI secolo.
A fondamento di tutto questo sta una violenza ancestrale, nascosta, rimossa, dimenticata ma che sta mostrando tutta la sua forza anche nell’essere stata il probabile veicolo dell’epidemia da Sars2. Essa è la violenza contro gli altri animali, la presenza animale, lo sfruttamento animale, lo sterminio umano degli altri animali. Una presenza che ancora una volta trova in un esponente della Teoria critica la sua più plastica descrizione:
«Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: Su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra di loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai vecchi e ai malati.
Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semicoloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo. Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali. […] Questo edificio la cui cantina è un mattatoio e il tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato»[36].
Aver compreso con tanta profondità ed espresso con tale chiarezza il nucleo e l’origine animale dell’ingiustizia è stato possibile solo per chi ha saputo definire la filosofia come «lo sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e reale»[37].
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (Minima moralia. Reflexionem aus dem beschädigten Leben Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1951), trad. di R. Solmi, Torino, Einaudi 1994, § 2: 13.
[2] M. Jay, Theodor W. Adorno (Adorno, London, Fontana Paperbacks, 1984), trad. di S. Pompucci Rosso, Il Mulino, Bologna 1987: 67.
[3] M. Horkheimer – T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo (Dialektik der Aufklärung. Philosophische Verlag, Frankfurt am Main), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1982: 11.
[4] T.W. Adorno, Minima moralia, cit., § 152: 303.
[5] Ivi, § 149: 285.
[6] Ivi, § 5: 17.
[7] Ivi, § 66: 114.
[8] Ivi, § 130: 244.
[9] F. Faeta, Appunti per non ricominciare. La cultura, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 47, gennaio 2021: 174.
[10] T.W. Adorno, Minima moralia, cit., § 132: 250.
[11] Ivi, § 134: 253.
[12] Ivi, § 153: 304.
[13] T.W. Adorno – E. Canetti – A. Gehlen, Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano, a cura di U. Fadini, Mimesis, Milano 1995: 96.
[14] Ivi: 94.
[15] Ivi: 104.
[16] L. Gallino Nota 1991 a H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata (One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Beacon Press, Boston 1964), trad. di L. Gallino e T. Giani Gallino, con una nota di L. Gallino, Einaudi, Torino 1991: 274.
[17] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit.: 247.
[18] Ivi: 96.
[19] Ivi: 205. Questo è un mio accenno di risposta alle questioni anche linguistiche poste da Faeta nel suo testo, a proposito ad esempio del fatto che «le masse popolari hanno diritto a Beethoven oltre che alle mondine»; Appunti per non ricominciare. La cultura, cit.: 177.
[20] Ivi: 25.
[21] Ivi: 254-255.
[22] Ivi: 253.
[23] Ivi: 261.
[24] Ivi: 249.
[25] Ivi: 265.
[26] Ivi: 59-60.
[27] G. Debord, La Société du Spectacle, Gallimard, Paris 1992 [1967], § 34: 32.
[28] Ivi, §§ 4 e 6: 16-17.
[29] J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà (Le crime parfait, Galilée 1995), trad. di G. Piana, Raffaello Cortina Editore 1996: 143 e 137.
[30] G. Debord, La société du spectacle, cit., § 66: 61.
[31] Id., Opere cinematografiche, Bompiani, Milano 2004: 135.
[32] Id., La société du spectacle, cit., § 2: 16.
[33] J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, (L’échange symbolique et la mort, Gallimard 1976), trad. di G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2007: 77 e 81.
[34] Ivi: 79.
[35] Ivi: 35.
[36] M. Horkheimer, Il crepuscolo. Appunti presi in Germania (1926-1931) (Dämmerung. Notizen in Deutschland, Oprecht und Helbling, 1934), trad. di G. Backhaus, Einaudi, Torino 1977: 68-70.
[37] M. Horkheimer – T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, cit.: 261.
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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Sociologia della cultura. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Nel 2020 ha pubblicato due libri: Tempo e materia. Una metafisica (Olschki Editore), Animalia (Villaggio Maori Edizioni).
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