Tanto nella prima quanto nell’ultima sua postuma opera (Naturalismo e storicismo nell’etnologia, 1941; La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, 1977) Ernesto de Martino si interroga sul finire dei mondi assumendo il termine apocalisse secondo l’accezione comunemente attribuita ad esso:
«La nostra civiltà è in crisi: un mondo accenna ad andare in pezzi, un altro si annunzia […..] ciascuno deve scegliere il proprio posto di combattimento, e assumere le proprie responsabilità. Potrà essere lecito agire male: non operare, non è lecito» (De Martino 1941: 12).
«Nella vita religiosa dell’umanità il tema della fine del mondo appare in un contesto variamente escatologico, e cioè o come periodica palingenesi cosmica o come riscatto definitivo dei mali inerenti alla esistenza mondana […..]In contrasto con questa prospettiva escatologica, l’attuale congiuntura culturale dell’occidente conosce il tema della fine del mondo al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza, e cioè come disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile: una catastrofe, che narra con meticolosa e talora ossessiva accuratezza il disfarsi del configurato, l’estraniarsi del domestico, lo spaesarsi dell’appaesato, il perder senso del significante, l’inoperabilità dell’operabile» (De Martino 1977: 469-470).
L’etnologo napoletano preferiva in entrambi i casi sorvolare sulla seconda accezione del termine, quella giovannea di disvelamento, di un momento dell’esistenza umana in cui una visione più lucida si determina e le cose appaiono come realmente esse sono, sottraendosi alle rappresentazioni e alle narrazioni prima ritenute attendibili, dischiudendosi in tal modo la possibilità di dispiegare uno sguardo meno opaco sulla propria presenza nel mondo.
Viviamo in un’epoca assai strana. Da più parti si sente di continuo parlare di “valori non negoziabili” mentre la realtà che abbiamo sotto gli occhi ci rivela quotidianamente che qualunque valore, financo il più intimo e prezioso, è diventato negoziabile, anzi più che negoziabile, è una consolidata merce di scambio attraverso la quale si consumano le transazioni più invereconde.
Su uno dei piatti della bilancia ci stanno sempre il denaro o il potere che hanno, nel corso del XX secolo, sempre più ridotto alla propria misura qualunque altra realtà, qualunque altro valore, qualunque idealità o strategia l’animale uomo abbia elaborato ed espresso nel corso della storia per conferire senso alla propria vita e al mondo che lo circonda per sfuggire alla propria natura attraverso forme di cultura capaci di farlo interagire con i propri simili.
Il panorama che fa da sfondo alle nostre giornate storiche è caratterizzato da una pluralità di “povertà”, ossia di privazioni a vario titolo di mezzi materiali, di risorse culturali, di energie etiche e spirituali con cui fronteggiare le criticità del presente e attraversare – più o meno indenni – la crisi di valori che investe oggi, tra le altre, anche la società italiana.
L’origine di tali povertà va forse fatta risalire, almeno nei suoi tratti salienti, alla mutazione antropologica avvenuta – nel nostro come in altri Paesi – intorno alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, allorquando una parte rilevante di società si ritenne infastidita e come rallentata nella sua corsa dall’esistenza dei vecchi modi di vita, in gran parte basati su attività spesso ”gratuite”, incentrate sulle possibilità di controprestazioni più che sulla ricerca del profitto, come tali non più in linea con i valori che si volevano rendere dominanti. Da ciò l’esigenza, avvertita dai gruppi dirigenti, di affrettare la scomparsa della cultura tradizionale attraverso la subdola quanto efficace divulgazione di valori nuovi e ben diversi: il consumo come fine, l’effimero, la tendenziale mancanza di coinvolgimento psico-somatico nei processi lavorativi, il profitto incurante dei costi ecologici e della qualità della vita, l’ascesa sociale e la “lotta per la vita” aventi come unica finalità il potere, ritenuto al contempo fonte e indicatore di felicità; questi in sintesi i valori affermatisi nei decenni che ci stanno alle spalle, nei quali è venuto avanzando un deserto che ha visto celebrare ossessivamente il rito produzione-consumo, un rito i cui officianti devono non solo consumare allegramente quanto viene prodotto ma anche credere che questo nostro sia il migliore dei mondi possibili.
Tale crisi si è ulteriormente accentuata con l’avvento della globalizzazione, caratterizzata per un verso dall’estrema velocità e pervasività dei messaggi e delle merci, per altro verso da una sostanziale sclerotizzazione degli assetti socio-politici, che non hanno reso disponibili a strati più vasti della società le nuove risorse tecnologiche e i frutti dell’umanesimo contemporaneo, sortendo viceversa – a livello planetario – una distanza sempre maggiore tra chi ha troppo e chi ha troppo poco.
Da qui le nuove forme di “povertà”, che non investono ormai solo la sfera connessa al possesso e al consumo dei beni, ma si radicano nelle sempre maggiori dipendenze da surrogati della vita reale, ovvero in una serie di impoverimenti delle facoltà espressive, dei linguaggi, delle forme di percezione della realtà, del mondo, del pianeta, dei fatti dell’esistenza. Le trasmissioni televisive basate su talk show mostrano pressoché uniformemente quanto tali “povertà” – anche nella sfera dei sentimenti, nella qualità e nell’estensione della loro gamma – abbiano ormai colpito larghissime fasce della società.
Occorre dunque sforzarsi di stimolare a livelli sempre più ampi una riflessione critica su tali tematiche, cruciali – a me pare – per il momento che viviamo in quanto una maggiore consapevolezza su di esse potrebbe aiutare tutti a ricostruire una profondità smarrita, a recuperare dimensioni nei rapporti interpersonali da troppo tempo desuete.
Parlando di dipendenze, si pensa solitamente a quelle relative alle sostanze stupefacenti; esiste però un altro gruppo – estremamente ampio e variegato – di dipendenze non riconducibili all’uso di droghe.
In questi ultimi anni sempre più spesso è emerso il problema di nuove dimensioni della dipendenza, di quelle cioè che vengono definite nel mondo anglosassone le “new addictions”. Si tratta – come ognuno potrà osservare direttamente dalla vita quotidiana – di comportamenti non sottoposti a censure di tipo giuridico, e anzi in genere socialmente accettati o tollerati: le dipendenze dal gioco d’azzardo, da internet, dallo shopping, dal lavoro compulsivo, dal sesso e dalle relazioni affettive scomposte; realtà tutte queste che, ricercate o esercitate in modo ossessivo, irrelato, privo di aperture verso valori da condividere e anzi compulsate in maniera solitaria e “avara” (nel senso che Don Milani attribuiva a tale termine), anziché svolgere un ruolo sociale, comunitario, finiscono con l’isolare l’individuo rendendolo schiavo. Non è detto peraltro che gli effetti derivanti da tali dipendenze siano meno devastanti di quelli che provengono dal consumo delle droghe.
Cosa ci rende dipendenti, quali sono le nostre zavorre? E perché tali dipendenze, piuttosto che gratificarci ci rendono “scontenti”, tristi, sostanzialmente incapaci di apprezzare la nostra esistenza e il mondo in cui viviamo?
Una risposta a tale domande potrebbe essere quella che attribuisce al comune sentire la fiducia riposta verso un’idea di avanzamento illimitato della civiltà, che ascende (come sosteneva il buon vecchio Croce) “de claritate in claritatem” riservando al genere umano sorti sempre più magnifiche e progressive. Già nella metà del secolo scorso però Claude Lévi-Strauss ci ammoniva sulla inconsistenza di tale atteggiamento:
«Lo sviluppo delle conoscenze preistoriche e archeologiche tende a disporre nello spazio forme di civiltà che eravamo propensi a immaginare come successive nel tempo. Il che significa due cose: anzitutto che il «progresso» (se questo termine è ancora adatto a designare una realtà diversissima da quella a cui era stato in un primo tempo applicato) non è né necessario né continuo; procede a salti, a balzi, o, come direbbero i biologi, per mutazioni […..]. L’umanità in progresso non assomiglia certo a un personaggio che sale una scala, che aggiunge con ogni suo movimento un nuovo gradino a tutti quelli già conquistati; evoca semmai il giocatore la cui fortuna è suddivisa su parecchi dadi e che, ogni volta che li getta, li vede sparpagliarsi sul tappeto, dando luogo via via a computi diversi. Quello che si guadagna sull’uno, si è sempre esposti a perderlo sull’altro, e solo di tanto in tanto la storia è cumulativa, cioè i computi si addizionano in modo da formare una combinazione favorevole» (Lévi-Strauss,1967:115).
Già settant’anni or sono veniva in tal modo messa in dubbio la concezione unilineare e progressiva dello sviluppo delle civiltà. Circa un decennio più tardi, in Italia, Pier Paolo Pasolini, nella forma poetica che gli era propria, contestava l’identificazione tra “sviluppo” e “progresso”, segnalando profeticamente come la società dei consumi avrebbe sortito – come poi è di fatto avvenuto – quella devastante “scomparsa delle lucciole” che ha progressivamente impoverito gli orizzonti naturali e culturali dei nostri angoli di mondo, facendo smarrire le identità locali e producendo una perniciosa mutazione antropologica che ha arrecato danni alla qualità della vita e ai rapporti delle comunità con gli ecosistemi in cui esse sono inserite.
I moderni critici del consumismo e teorizzatori della decrescita felice (Nicholas Georgescu-Roegen, Serge Latouche, Cornelius Castoriadis, Jeremy Rifkin, Zygmunt Bauman e, qui in Italia, Maurizio Pallante), epigoni di quei lontani testimoni che hanno pionieristicamente avviato un processo di demitizzazione dello sviluppo fine a se stesso, partono proprio dalla considerazione che non ci sia rapporto di conseguenza tra crescita economica e benessere, e che anzi il consumo (o, meglio, il suo eccesso) conduce al peggioramento della qualità dell’esistenza degli uomini e della vita dell’intero pianeta.
Come cambiare mentalità, in tale contesto? L’esperienza mostra che assai spesso, per coscienze rese ottuse dall’orgoglio di “essere per sé e non essere per gli altri”, non risultano efficaci i modi tradizionali di gestire la politica; a ciò si aggiunga il fatto che alcuni solerti moralizzatori sovente ritengano di dover assumere toni apocalittici verso tutto quanto fa parte della modernità che ci circonda, come se essa fosse di per sé dannosa e fuorviante. È viceversa indubbio che nuove forme di solidarietà sociale possano essere esperite, soprattutto verso i più lontani dal benessere (dal lavoro, dalle sicurezze di una casa e di un futuro), puntando a conferire nuovi significati al mondo di oggi, dialogando con questo mondo e sforzandosi di far emergere, per entro le contraddizioni che segnano la nostra modernità, un disegno di emancipazione e di crescita civile “partecipata”.
Naturalmente, condizione essenziale a che tale processo di mobilitazione delle coscienze non sia fine a se stesso è che nessuno sia più disposto a chiudere i propri occhi di fronte alla realtà. Non si può pensare di lavorare per un futuro più a misura d’uomo senza prendere posizione rispetto a scelte “politiche”, in senso lato (dal prendere coscienza sulla situazione geo-politica del pianeta al ponte sullo Stretto, dalla mancanza di lavoro alle nuove dipendenze, dal traffico ai servizi sociali, dalle mafie agli evasori, dai cattivi politici alle occasioni mancate) che incidono tanto profondamente sulla vita civile, sulla convivenza e la serenità delle persone, sulla loro capacità di coltivare ed esprimere utopie (e cioè di essere sempre pronti a intravedere, evangelicamente, cieli nuovi e terra nuova).
Un diverso impegno per tutti i cittadini nella vita dei nostri angoli di mondo non può dunque esaurirsi né confondersi in un impegno politico e partitico che assai spesso nel passato ha abbandonato lungo la strada le radici democratiche che ne avrebbero dovuto ispirare la prassi, ma deve sortire una vigilanza e un rigore che valgano a orientare le azioni nostre e altrui, rendendoci tutti un po’ più lucidi, consapevoli, determinati. Mai rassegnati, e soprattutto disposti a puntare – nell’eterno chemin de fer che è l’esistenza umana – più sul tableau dell’essere che su quello dell’avere.
Mezzo secolo fa Erich Fromm, uno dei maggiori rappresentanti della psicologia post-freudiana, nel suo Avere o essere? operava una fondamentale distinzione tra due atteggiamenti fondamentali posti alla base delle visioni del mondo e dei comportamenti umani: quelli orientati a una maggiore valorizzazione della dimensione del possesso, e quelli viceversa scaturenti dalla consapevolezza che l’uomo in tanto ha un valore in quanto “è”, in quanto conferisce senso all’esistenza attingendo a risorse e quadri valoriali esistenti al proprio interno. In tale prospettiva avere ed essere sarebbero modalità esistenziali, essendo entrambe potenzialità della natura umana. Mentre alla base della modalità esistenziale dell’avere ci sarebbe un fattore biologico, la spinta alla sopravvivenza, alla base della modalità esistenziale dell’essere ci sarebbe viceversa il bisogno di superare il proprio isolamento, visto da Fromm come una condizione specifica dell’esistenza umana.
Nel nostro tempo la società contemporanea registra una dicotomia analoga ma con una significativa sfumatura aggiuntiva: la modalità esistenziale dell’avere si è in larga misura trasformata, pirandellianamente, in quella dell’apparire. Nella società post-capitalistica (o contrassegnata da un capitalismo talmente asfittico che saremmo portati a credere ormai crepuscolare), in cui i ricchi sono sempre più ricchi e sempre più pochi, e i poveri si fanno sempre più poveri e sempre più numerosi, in cui quindi la dimensione del possesso avrebbe dovuto ragionevolmente – almeno per la maggioranza del genere umano – lasciare posto a quella valorizzatrice dell’essere, si è invece affermata la dimensione dell’apparenza: non potendo avere, rimane in ogni caso da giocare la carta dell’apparire. Non si è ricchi, ma si pone ogni sforzo nell’assumere atteggiamenti, nel seguire mode, nel mostrare un complessivo système des objets che facciano apparire tali agli occhi della gente. Ci si sentirà in tal modo gratificati perché, così almeno si ritiene, si risulterà essere vincenti nella grande rappresentazione che si svolge e si consuma nel teatro del mondo. Questa opzione ha evidentemente dei costi, psicologici e sociali. Intanto tutte le realtà che declinano la dimensione dell’avere comportano un fatale contraltare non indifferente nella prospettiva del benessere complessivo del pianeta. Il potere, inteso come dominio sulla natura, porta con sé pericoli ecologici e rischio di conflitti; l’abbondanza materiale è sempre limitata ai soli Paesi ricchi, al cui interno sempre meno persone ne risultano beneficiarie; la felicità, come soddisfazione di tutti i desideri, essendo percepita come fine ultimo di una struggle for life, sortisce al contempo alienazione e solitudine; e anche la tanto vantata libertà personale non si sottrae alle varie forme di manipolazione che mass media, governi, industria mettono in atto per creare, appunto, masse di consumatori convinti che il consumare sia il fine ultimo dell’esistenza. Non a caso scriveva quindi Fromm:
«Gli individui cauti, che fanno propria la modalità di vita dell’avere, godono della sicurezza ma sono per forza di cose assai insicuri. Dipendono da ciò che hanno: denaro, prestigio, il loro io – in altre parole da qualcosa che è al di fuori di loro. Ma che ne è di loro se perdono ciò che hanno? […..] Se quindi sono ciò che ho e ciò che ho è perduto, chi sono io?» (Fromm 2022: 124-125).
Ma come sviluppare nuove modalità di guardare al mondo che ci circonda se esso è punteggiato quotidianamente da occasioni di crisi, fratture, disconoscimenti ripetuti della dignità della persona, conflitti atroci in cui si smarrisce qualunque senso di “appaesamento” con il pianeta che ci ospita?
Hannah Arendt ci ricorda che «la guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri», ed Ernest Renan osserva tristemente che «è con i poveri che i ricchi si fanno la guerra». Su tutti il Mahatma Gandhi ci ammonisce che «o l’umanità distruggerà gli armamenti o gli armamenti distruggeranno l’umanità».
Di fatto, il nostro presente appare spesso dilacerato tra due cruciali e alternative opzioni: quella di chi sostiene che per assicurare la pace occorra, in qualche modo, essere sempre pronti a combattere, secondo quanto suggeriva il motto latino “Si vis pacem, para bellum”; e quello, viceversa, di chi pensa che ogni atteggiamento volto a “preparare la guerra” prima o poi sfoci nell’entrare concretamente in una delle tante guerre che insanguinano il nostro pianeta.
Pace e guerra, dunque. Chi le vuole, chi le combatte? Certamente vogliono le guerre, o almeno una condizione continua di “pace armata”, coloro che dalle guerre traggono profitto o potere: i mercanti di armi e i tiranni di ogni risma, che attraverso la guerra (la chiamata in guerra) trovano spesso un espediente per rimuovere nella coscienza dei propri sudditi i guasti della società in cui essi vivono. In questi casi in genere, si assiste a un larghissimo impiego delle retoriche e delle logiche patriottarde.
Chi commercia e traffica con le armi non ha neanche bisogno di tale alibi. Si tratta infatti, per costoro, di un business come tanti altri. Chi combatte la pace sono gli integralisti di ogni genere, i quali ritengono che l’affermazione di un’identità etnica, religiosa o di qualunque altro genere sia un motivo sufficiente per sopprimere la vita di chi in tale identità non si riconosce. Chi combatte le guerre sono i cosiddetti pacifisti, i quali ritengono che ogni guerra sia una specie di faida elevata alla potenza; che ogni guerra cioè si porti appresso tante e tali distruzioni che la pace che ne segue non potrà mai essere duratura, né duratura potrà essere la “libertà” che ne consegue. In tale prospettiva, la famigerata enduring freedom americana delle guerre irachene appare oggi in tutta la sua tragica fragilità, ove si rifletta sulla polveriera sempre accesa che il Medio Oriente costituisce.
Anche i militari che vanno in guerra spesso ci vanno “per difendere la pace”, per garantire la sicurezza, l’integrità territoriale e la libertà del proprio Paese. In questo senso, essi non combattono la pace, ma combattono per la pace. Il problema è però quello di accertare se sia sempre così, al di là della buona fede dei molti che credono di agire in tal senso. Il discorso si sposta allora sui vertici, sui Generali, sugli Stati Maggiori. Quanto le logiche della strategia, del potere, degli interessi dei gruppi economici (e non dei popoli) giocano nelle decisioni che vengono prese? Quanto pesano le ambizioni dei politici, le pressioni dei mercanti di armi, le ideologie basate sulla logica del “Deserto dei Tartari” (attendere armati fino ai denti l’arrivo di un nemico che forse non esiste)? Sono, questi, temi cruciali che toccano da vicino la qualità della nostra vita, la percezione che noi possiamo avere sulle sorti del nostro pianeta e soprattutto la nostra concezione del mondo, che si riverbera tanto nelle macro quanto nelle micro-circostanze. Dopotutto, il tema della guerra è strettamente connesso a quello dell’aggressività, da alcuni ritenuta una “dote” naturale dell’uomo (come il giovane Alex del film Arancia Meccanica di Stanley Kubrick), da altri una deviazione destinata a creare sofferenza e infelicità, da Caino in poi. Forse il tema centrale è proprio questo: il valore che ognuno di noi attribuisce alla vita umana, alla persona umana.
Altro tema che induce a credere che il nostro pianeta, e l’Occidente in particolare, sia destinato a una nuova apocalisse, allo smantellamento sistematico dei parametri che hanno governato la vita delle comunità, è costituito dai flussi migratori che hanno ormai da decenni interessato gran parte dei luoghi “opulenti” del pianeta. Di fronte a tale sentimento diffuso del “finire” di un mondo, verrebbe da dire: Migranti. E chi non lo è, da Abramo in poi?
Da alcuni decenni i nostri paesaggi urbani si sono arricchiti e differenziati. La presenza di numerose comunità di migranti, giunti nel nostro Paese per i motivi più disparati – quasi sempre riconducibili a drammatiche necessità di sopravvivenza a carestie, guerre, pulizie etniche, povertà – con la speranza di trovare qui, in Paesi ritenuti civili e al riparo dalle diverse forme di barbarie che affliggono le loro patrie, un luogo in cui tornare a costruire, a progettare (e anche in cui tornare a essere cittadini), ci ha posto, forse per la prima volta nella nostra storia, nella condizione di condividere la vita quotidiana con genti “altre da noi”. Genti in qualche misura intenzionate e disposte a ricominciare a vivere presso culture anch’esse segnate dalla diversità dei costumi, delle fedi, delle ritualità, degli stili di vita.
Senonché, come già Dante Alighieri aveva sperimentato, lo scendere e salir le altrui scale sa sempre di sale, la ricerca di una nuova patria non è mai indolore, deve passare attraverso una lunga e faticosa macerazione nel crogiolo delle culture “ospitanti”, dovendo misurarsi, quasi sempre drammaticamente, con gli egoismi, i pre-giudizi, le varie e false forme di “identità” di cui si ammantano – a mo’ di luttuoso sudario – le comunità di ogni tempo e sotto ogni latitudine; un sudario che consegna alla morte definitiva, cristallizzandole in stereotipi e luoghi comuni, le forme di cultura “consolidate”, pregiudicando loro la possibilità di aprirsi all’esperienza dell’altro.
Ma, come lo studio dei fatti interculturali ci mostra, si entra nella Storia degli altri se si è capaci di entrare nelle loro storie quotidiane. Si può partecipare concretamente di un genius loci solo laddove se ne torni a declinare l’identità smarrita ovvero se ne declini una nuova.
Il problema dei migranti e del loro reale status sociale è pertanto inquadrabile nei termini di una sostanziale alternativa. Essi possono essere da noi “autoctoni” percepiti quali presenze precarie, ancorché utili a svolgere compiti particolari che la nostra cultura etichetta come non più congrui per i propri citoyens. In quanto tali, essi rischiano di essere nient’altro che “ombre” che solo per accidente abitano le nostre medesime giornate storiche, in quanto con essi non è possibile pensare la costruzione di una storia e di un’identità comuni.
Essi possono viceversa essere considerati ciò che i vecchi siciliani definivano un’acciànza, ovvero una chance, un’opportunità, un’occasione non prevista né prevedibile ma – infine – benefica di arricchire attraverso declinazioni di esistenza differenti dalle nostre gli estenuati modelli culturali, le riposanti quanto pigre certezze che ci fanno da corazza nell’affrontare i problemi complessi e le sfide della modernità.
Qual è dunque la società che sogniamo? Una società apartheid, in cui uomini e donne di razze e culture diverse si passano fianco a fianco senza mai interagire (se non attraverso il denaro), o una società aperta al confronto, allo scambio, alla contaminazione benefica dei gusti e dei cuori? La risposta a tale interrogativo potrebbe essere data dalla possibilità di sviluppare, o tornare a coltivare, una nuova e diversa concezione del tempo.
«Nella modalità dell’avere, il tempo diviene il nostro dominatore. Nella modalità dell’essere, il tempo è detronizzato, cessa di essere l’idolo che governa la nostra vita. Nella società industriale, il tempo domina sovrano» (Fromm 2022: 145).
«L’uomo dimentica. Si dice che ciò sia opera del tempo; ma troppe cose buone, e troppe ardue opere, si sogliono attribuire al tempo, cioè a un essere che non esiste. No: quella dimenticanza non è opera del tempo; è opera nostra, che vogliamo dimenticare e dimentichiamo» (Croce 1922: 22).
La fisica moderna ha definito il tempo come distanza tra gli eventi calcolata in entrambe le coordinate spazio-temporali, distanza che dipende dalla posizione e dalla velocità dell’osservatore rispetto a essi. Se condividiamo quanto Einstein ha presupposto, l’esistenza cioè di un continuum spazio-temporale, è evidente che il tempo culturale – quello vissuto da noi uomini – sia l’esito di un’operazione volta a creare un discretum, una parcellizzazione che ci consenta di distinguere un prima e un poi nelle nostre giornate storiche. Molto acutamente Ernesto de Martino annotava: «L’umana cultura o civiltà è la potenza formale di far passare nel valore ciò che in natura corre verso la morte» (De Martino 1975: 246).
Esiste poi un tempo interiore, il tempo rappresentato della memoria, quello della Recherche, che ci permette di ripercorrere, variamente trasfigurati, i frammenti di divenire cui annettiamo particolare valore. In ogni caso, che si tratti di tempo unilineare, che si dipani all’infinito, ovvero di tempo ciclico, che si riavvolga periodicamente in se stesso, si tratta sempre di una dimensione che ci interpella, dalla quale non ci viene chiesto di evadere quanto piuttosto nella quale siamo chiamati a farci creatori di senso.
La riduzione del tempo di lavoro e le ambiguità del tempo libero, che quasi mai si trasforma in tempo liberato, sono alcuni tra i temi che toccano le nostre società, anche se oggi, purtroppo, il tempo libero è assai spesso un tempo vuoto, non occupato da attività di sorta perché pare che la società non abbia bisogno di persone che lavorino ma di persone che attendano di poter lavorare. Se teniamo conto dell’investimento di senso che comporta il nostro rapporto con il tempo, parrebbe che esso sia il nostro bene più prezioso. Esso ci si presenta fortemente interconnesso, oltreché con lo spazio – altra dimensione che ci in-abita – anche con la memoria e i suoi meccanismi. È dunque assai arduo trovare le ragioni per cui il tempo sia per noi, di fatto, la realtà che più di ogni altra viene – senza rammarico – negletta e sprecata, a onta delle straordinarie prospettive offerte dalle moderne Banche del Tempo, le quali a ben vedere sono tra le poche istituzioni disposte ad attribuire al tempo un qualche valore “oggettivo”.
Da cosa dipende tale nostra incapacità di vivere pienamente il tempo che attraversiamo durante la nostra esistenza? Come pensiamo di fare i conti con esso? E, soprattutto, ne siamo consapevoli, ci accorgiamo che (come ci canta De Gregori) “il futuro passa e non perdona”?
Siamo prigionieri o padroni del nostro tempo? Lo viviamo certamente in modo più frenetico dei nostri padri e di qualunque altra generazione ci abbia preceduto. Lo viviamo proiettati verso un futuro che non riusciamo mai a raggiungere, avendo in gran parte rimosso il passato e consumando in modo onnivoro il presente. Come possiamo “riconciliarci” con il divenire, imparando a vivere in modo più pieno il nostro presente?
Non si tratta di capire fino in fondo i misteri del tempo, insondabili come tutti i misteri, ma di avviare una riflessione su tale specialissima placenta al cui interno viviamo (e ci consumiamo), onde valutare se per avventura si riesca – magari progettandolo insieme – a conferire al tempo che ci rimane una pienezza nuova. A recuperare per noi e per gli altri, secondo la splendida definizione di Johann Sebastian Bach, “un tempo giusto, con amore”.
Tornando a compulsare altre modalità di “apocalisse diffusa” non si può non pensare ai guasti che per opera umana negli ultimi decenni si sono addensati sul pianeta che ci ospita. Guasti che, ad esempio, il neopresidente USA si rifiuta di scorgere, posto che ha già dichiarato di voler recedere dall’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Gran parte (si calcola tra la metà e il 90%) della deforestazione delle foreste tropicali del nostro pianeta è in mano alla criminalità organizzata. Di fronte a tale realtà rischiano di vanificarsi tutti gli sforzi della comunità mondiale contro i cambiamenti climatici, e appaiono sempre più improbabili le forme di tutela florifaunistica e la lotta stessa contro la povertà pur meritoriamente intraprese dagli organismi più consapevoli dei Governi nazionali. A lanciare tale allarme è un rapporto di pochi anni fa del programma Onu per l’ambiente (United Nations Environment Programme) e dell’Interpol.
Da parte sua il WWF (Living Planet Report) ha a più riprese denunciato che ci troviamo in una condizione di “recessione ecologica”, in quanto l’eccessivo consumo delle risorse (un terzo in più di quelle disponibili) ci conduce fatalmente verso un debito ecologico destinato a tramutarsi in collasso.
Che percezione abbiamo del mondo che abitiamo? Di una landa desolata in cui, per volere di un dio malevolo, siamo stati scagliati? O, viceversa, di un paradiso donatoci perché insieme ad altri organismi (viventi e non) potessimo coesistere, rendendolo sempre più “domestico”, accogliente, buono da abitare e buono da pensare?
Il problema ambientale è divenuto sempre più grave e cruciale per la definizione della qualità della vita di ognuno di noi, nella misura in cui – nel corso dell’ultimo secolo ma in modo dirompente negli ultimi decenni – si è progressivamente andato delineando un rapporto conflittuale tra le attività umane (cui quasi sempre è sottesa una logica di profitto) e l’ambiente (l’ecosistema, che come una rete immateriale – o un’avvolgente placenta – tutti ci tiene insieme, uomini animali e piante).
Se dalla preistoria in poi l’uomo ha avvertito l’esigenza di adattare l’ambiente per renderlo più accogliente e sicuro, è però solo con la crescita demografica della popolazione mondiale e il (cosiddetto) progresso tecnologico della storia contemporanea che si è prodotta la fatale accelerazione che ha finito col porre a rischio l’intero sistema di cui anche l’uomo è parte integrante.
L’inquinamento, il buco nell’ozono, l’effetto serra, le piogge acide sono i fenomeni più macroscopici e, per così dire, eclatanti, quelli che interpellano la tenuta del sistema a livello planetario. Ma “fare pace con il pianeta” è un compito che concerne – purtroppo – anche altri ambiti che toccano la nostra quotidianità, le nostre giornate storiche, i nostri costumi, le nostre più pervicaci e intime tare di occidentali evoluti ormai per nulla disposti a sacrificare un briciolo della parvenza di benessere del quale ci ammantiamo per garantire un equilibrio più umano dei luoghi e delle realtà animate che li abitano.
Far pace con il pianeta, in tale prospettiva, comporta dunque recuperare uno sguardo nuovo sulle cose, acquisire una consapevolezza sulle conseguenze della nostra boria, di una crescita illimitata che ormai dovrebbe apparirci in tutti i suoi aspetti grotteschi e mistificanti. Il rispetto della natura e delle forme di vita che la abitano, la ripulsa verso ogni disboscamento, ogni cementificazione, ogni spreco, ogni uso improprio delle risorse naturali, tutto ciò dovrebbe far parte del corredo elementarmente umano di tutti quanti intendano vivere – e non vivacchiare – da donne e uomini liberi.
Per ottenere tutto ciò occorrono certamente nuovi modi di intendere la politica, rispetto ai quali è sempre valida l’aurea massima lasciataci in eredità da Don Lorenzo Milani: “Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia” (Barbiana 1967:14).
Un confronto su tali temi è tanto più urgente e necessario, quanto più il nostro presente appare affollato da un esercito di “avari” che ritengono di poter arraffare dal pianeta tutto quanto serva loro e, come cantava ne l’Avvelenata Francesco Guccini, “a culo tutto il resto!”.
Per inciso, mentre correggo la stesura di questo mio scritto mi giunge notizia che la banana di Maurizio Cattelan è stata acquistata all’asta da un miliardario americano per 6,2 milioni di dollari. Una normale banana attaccata alla parete con del nastro adesivo… E proprio in questi giorni il neo presidente USA, il cui mentore è il tycoon Elon Musk, si accinge a togliere autonomia e indipendenza alla Federal Reserve, la Banca Centrale degli Stati Uniti. Lo scopo di tale manovra è quello di sostituire al denaro “reale” e far circolare nel mondo intero le criptovalute, riducendo progressivamente la sovranità degli Stati e alterando fatalmente la distribuzione del reddito. Al denaro guadagnato con il lavoro si sostituirebbe in tal modo quello proveniente dalle diavolerie di pochi spregiudicati burattinai che sullo sviluppo planetario di tali asset privi di un superiore controllo arricchirebbero, non più virtualmente ma assai concretamente, le loro sterminate sostanze, a danno di quanti credono che l’economia si fondi sulla produzione di ricchezza derivante dall’impegno concreto, dalle lacrime e sangue di chi lavora per produrre sostentamento e benessere per sé e per la società in cui si vive. Questo diabolico scivolamento dalla realtà alla virtualità di algoritmi governati da pochi è forse il panorama drammatico che ci attende nei prossimi decenni.
Sono oltremodo consapevole di aver richiamato e cercato di porre in relazione un groviglio inestricabile di realtà complesse, con le quali noi tutti entriamo volenti o nolenti in relazione nella gran parte delle nostre giornate storiche. Quello che ho cercato, forse ingenuamente di fare, è auspicare una sempre maggiore lucidità di sguardo sui rischi ventilati molto tempo fa da Antonio Gramsci: «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati» (Gramsci 1975, I: 311).
A tale rischio di “passare con ciò che passa” abbandonandosi alle lusinghe dei fatui governanti oggi in auge, altro non saprei rispondere se non tornando a ripensare a un passo di Italo Calvino a me assai caro:
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (Calvino 2024: 160).
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Riferimenti bibliografici
Apocalisse di San Giovanni, Torino, Einaudi, 1997.
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).
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