Stampa Articolo

Precarizzazione. Sul futuro incerto degli esperti nel settore demo-etno-antropologico

 

coverdi Linda Armano

David Platzer e Annie Allison (2018) riflettono sulla precarietà dei dottorandi statunitensi in antropologia socioculturale. Sebbene il 90% degli studenti laureati in discipline antropologiche affermi di aspirare ad una carriera accademica (Ginsberg 2016), gli studiosi mettono in luce quanto la scarsità e la competitività di queste posizioni siano oggi scoraggianti. Essi affermano infatti che il raggiungimento di una posizione di ruolo è più praticabile nei dipartimenti di alto livello delle istituzioni d’élite.

In termini di curriculum, di ambito di lavoro e di tutoraggio, la formazione universitaria in antropologia mira a produrre studiosi, operatori sul campo e, in misura molto minore, insegnanti, la cui eccellenza viene misurata da borse di studio, articoli pubblicati, contratti con case editrici prestigiose e, in definitiva, dal lavoro di ruolo. 

Questa discrepanza tra aspirazione ed una realtà sempre più instabile solleva, per Platzer e Allison, la seguente domanda: se la maggior parte degli studenti laureati e dottori di ricerca in antropologia, alla fine del loro percorso di studi, intraprende un percorso diverso rispetto ad un’occupazione di ruolo nelle università, perché i programmi di laurea e di dottorato li stanno formando quasi esclusivamente per vestire i panni di un professionista che pochi ricopriranno? Inoltre, è giusto ed etico che i dipartimenti continuino a formare studenti laureati per una professione che così pochi alla fine potranno esercitare? In che modo docenti e neolaureati danno un senso ad un “fallimento” così pervasivo nel mercato del lavoro? In quale misura gli studenti gestiscono l’incertezza del futuro professionale a seguito di quello che può essere un lungo ed estenuante periodo di formazione universitaria? E, poiché la fattibilità del nostro attuale modello di riproduzione professionale diventa sempre più insostenibile, quale alternativa, semmai, sta emergendo?

Con queste domande i due autori si interrogano sul gap tra le dinamiche che supportano standard di successo nei dipartimenti di antropologia negli USA e i ruoli professionali che effettivamente sembrano essere irraggiungibili dalla maggior parte degli antropologi. Analizzano pertanto l’impiego dei laureati in antropologia sia in termini di vocazione sia in termini di lavoro, rifacendosi alle riflessioni che Max Weber (1970) propose quasi un secolo fa nella sua analisi dello spirito capitalista. Riprendendo quindi la scuola del marxismo post-operaio (cfr. Lazzarato 2007), essi indagano la precarietà intesa come lavoro incerto e instabile. A questa definizione gli autori accompagnano la considerazione che la precarietà produce frustrazione delle aspettative oltre che una insostenibile insicurezza economica. In altre parole, la precarietà è una condizione di instabilità e di incertezza che si ripercuote su tutti gli ambiti di vita, tanto che, in questi casi, si parla di precarietà esistenziale o sociale (Fumagalli 2007, Murgia 2010; Coin et al. 2017).

1_z8cfofgsikqavjxfxtly5gIl termine precarietà è emerso, negli ultimi anni, come una categoria preminente nelle discussioni sul lavoro e l’occupazione contemporanei, sulla classe sociale, sulla trasformazione delle condizioni materiali e sulle soggettività presenti nelle società contemporanee. Oggi, la parola è ampiamente utilizzata nella ricerca accademica e, a volte e in contesti particolari, si insinua in un discorso pubblico più ampio o irrompe sulla scena attraverso proteste e movimenti sociali (Choonara et al. 2022). Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dall’emergere di un vasto corpus di letteratura sui processi di precarizzazione (cfr. Millar 2017). Si è sviluppato su questo tema un vivace dibattito che ha cercato di identificare le forze strutturali convergenti per erodere il regime occupazionale fordista per una quota crescente della forza lavoro (Kalleberg e Vallas 2018).

A tal proposito Platzer e Allison richiamano l’esempio dei lavoratori in Giappone, negli Stati Uniti e in alcune zone dell’Europa occidentale i quali, sotto il fordismo e fino alla seconda metà del ‘900, facevano affidamento sulla sicurezza del lavoro per garantirsi uno stile di vita rispettabile e borghese, considerato, per giunta, quale consolidato valore normativo nelle loro comunità. Quando però questi lavori divennero sempre più irraggiungibili, i lavoratori iniziarono non soltanto a lottare sotto il peso della contingenza, ma anche a sperimentare sé stessi come “devianti” in quanto incapaci di garantire un lavoro socialmente legittimo (Berardi 2009). Rifacendosi a questo esempio Platzer e Allison concentrano la loro attenzione non solo sulle dimensioni concrete in cui si ritrovano i dottorandi di antropologia, ma anche sugli standard in base ai quali un antropologo professionista viene giudicato dai suoi pari attraverso la capacità personale di ottenere una cattedra di ruolo. Definendo precario il mercato degli antropologi, i due studiosi intendono sottolineare come intrinsecamente e insidiosamente questi fattori, ossia il rigido aggrapparsi ad un’aspirazione e la sua realistica realizzazione, possano essere connessi.

Nell’ultimo ventennio circa, i profondi mutamenti normativi (le Leggi 230/2005 e 240/2010) e i tagli alla spesa per l’Università e la Ricerca hanno infatti avuto come effetto che le rare “porte d’ingresso” alle carriere accademiche, ma anche a ruoli strettamente compatibili con il sapere antropologico, si siano trasformate, ancora più che in passato, in vere e proprie strettoie. I difficilissimi percorsi di ingresso e stabilizzazione nella carriera universitaria ed extra-accademica in cui gli esperti in antropologia dovrebbero essere, per formazione richiesta, impiegati, hanno infatti prodotto una quantità notevole di lavoratori in forte isolamento lavorativo, nonché di rischio costante di espulsione (temporanea o definitiva) sia dall’ambito accademico che da altri ambiti istituzionali. Eppure, nonostante le notevoli e crescenti difficoltà, questi precari del sapere antropologico sono determinati, svolgono con passione il loro lavoro (e, spesso, una parte del lavoro dei docenti “strutturati” o di altre figure all’interno di istituzioni pubbliche e private), inventano creative strategie di vita (per esempio sul piano economico fino ad arrivare anche alla sfera della genitorialità) e mettono in pratica forme di resistenza e di sense making per tentare di seguire la loro aspirazione.

1024px-universita_liquida_tutto_-_no_gelmini_protests_30_oct-_2008_milan_italyIn qualche modo, connesse a queste premesse, si pongono le riflessioni di Letizia Bindi (2022) e di Lia Giancristofaro (2022) contenute rispettivamente negli articoli “Oleg sulla tavola del vernissage. Nuove collezioni, mercato delle culture e sistemi esperti nella ri-progettazione culturale del MUCIV” e “La valutazione interna dei demo-etno-antropologi tra corporativismi e forze centrifughe”, pubblicati sul numero 57 di Dialoghi Mediterranei. Se la Giancristofaro focalizza l’attenzione sulla questione relativa alla valutazione ASN demo-etno-antropologica rifacendosi alle discussioni emerse durante l’incontro tenutosi a Fisciano (Salerno) a luglio 2022 ed intitolato Intersezioni. Primo forum dell’antropologia italiana, il contributo di Letizia Bindi, riprendendo il caso del Museo delle Civiltà di Roma, ripropone l’annoso problema della costante assenza di antropologi in contesti istituzionali in cui essi potrebbero offrire il massimo contributo di competenze e di affidabilità. Questi due casi esposti sono, in qualche modo, in relazione muovendo entrambi da una preoccupazione comune riguardo a come l’asfittico mercato del lavoro dell’antropologo indicizzi problemi più ampi sotto vari aspetti. Volendo quindi categorizzare questi discorsi, potremmo ricondurli agli ampi dibattiti, caratterizzati da diversi approcci e da diverse focalizzazioni, promossi negli ultimi anni tra gli studiosi in riferimento al nesso tra precarietà e accademia, come anche tra precarietà e altri ambiti istituzionali.

La riforma della governance universitaria in Italia è stata definitivamente varata con la Legge 240/2010 che ha eliminato la figura del ricercatore a tempo indeterminato rendendo strutturale e permanente il precariato accademico (Coin et al. 2017). Questa svolta va ricercata nel processo di idee e di proposte, iniziato dagli anni Ottanta e Novanta, nato a seguito della riforma del settore pubblico verso una New Public Management (Ferlie et al. 1996). Sottolineano Coin et al. (2017) che proprio a partire dagli anni Novanta, i resoconti della OECD (2004a, 2004b) e di organismi sovrannazionali come OCSE, UE, FMI, Banca Mondiale, hanno iniziato a considerare sotto una nuova luce il ruolo importante dei saperi nel mercato quale presupposto indispensabile per uno stimolo verso un cambiamento della conoscenza anche all’interno delle università, affinché i dipartimenti non continuino a mantenersi delle torri d’avorio in cui si insegna e si apprendono saperi considerati superflui. Con queste riforme quindi gli atenei devono dimostrare di aver fatto buon uso delle risorse e di aver prodotto un capitale umano spendibile per il mercato. Inoltre devono consegnare un tipo di ricerca-prodotto con una velocità e una logica d’impresa la quale possa essere anche spendibile nei settori pubblici e privati.

In effetti questo nuovo processo si aggancia anche alle logiche di finanziamento europee rivolte ai singoli ricercatori (es. Marie Curie Fellowship, ERC-European Research Council ecc.) che, come denuncia Lia Giancristofaro (2022), hanno riplasmato il modo di pensare e di progettare le ricerche, ma anche hanno evidenziato un gap tra “mode” scientifiche finanziabili, per esempio, attraverso i fondi europei e l’attuale selezione della Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) nel settore demo-etno-antropologico. Se quindi da un lato i finanziamenti europei richiedono una maggiore interdisciplinarietà della figura dell’antropologo, le valutazioni nazionali rimangono un passo indietro mantenendo lo status quo, irretite nella rigidità mono-disciplinare che penalizza anche la ricerca applicata. La stessa studiosa inoltre sottolinea come la ASN non consideri nemmeno le attività strutturalmente svolte da parte di studiosi non strutturati né le pubblicazioni non strettamente antropologiche ma edite su riviste scientifiche di altri settori, come invece richiede un tipo di finanziamento sovranazionale. Questo aspetto, osserva la studiosa, avrebbe provocato, nell’ambito MDEA, anche un aumento della concorrenza tra ricercatori a causa della mancanza di sottosettori della disciplina antropologica.

mini_magick20190123-29669-1u5498lIn generale comunque, dal punto di vista diacronico, tali problematiche possono essere fatte rientrare nella riforma della governance universitaria che risale agli anni Novanta, quando i ministri dell’istruzione di 29 Paesi cominciarono a discutere su come integrare assieme sistemi diversi di istruzione europei. Questa serie di incontri, tra i quali spicca, per esempio, il Processo di Bologna (Coin et al. 2017), posero le basi per il mutuo riconoscimento europeo dei titoli di studio nazionali, per la creazione di una giurisprudenza internazionale in materia di istruzione terziaria e per la istituzione di uno Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore. La logica di fondo alle varie riforme di governance, affermatasi negli anni Novanta e sempre più rinforzata, sta nel reinterpretare le università come sistemi aziendali che garantiscano la competitività, la produttività, la elaborazione di innovazioni, la promozione della sostenibilità e della crescita inclusiva. In questo modo, le energie sono state destinate e finalizzate alla costruzione di un sistema sempre più competitivo in grado di concentrare gli investimenti nei settori capaci di portare ricadute economiche, usando le forme di sapere atte a sviluppare determinate competenze di cui il mercato necessita.

Riprendendo le riflessioni preliminari di Platzer e Allison (2018), si può dire dunque che l’attuale governance universitaria ha determinato uno spartiacque netto rispetto all’università istituita in epoca fordista, attraverso una logica fondata sulla verticalizzazione della dirigenza, sulla diminuzione dei finanziamenti statali per la didattica e per la ricerca e, in generale, tramite il passaggio verso un tipo di criteri di valutazione più competitivi (Coin et al. 2017). Coinvolta nei trend economici globali, l’università è stata descritta come McUniversity (Parker e Jary 1995), per sottolineare il crescente orientamento alla standardizzazione e alla massiva produttività di pubblicazioni, di ricerche e di numero di laureati. All’interno di questo quadro, il precariato universitario non si caratterizza solamente per una dinamica dentro/fuori di natura esclusiva. Il lavoro accademico è spesso accompagnato da attività lavorative e professionali esterne all’università, che si affiancano o si sostituiscono alle attività svolte con contratti precari all’interno degli atenei (Pellegrino 2016). Oltretutto, svolgere un lavoro non retribuito sembra essere una pratica piuttosto diffusa tra il precariato universitario (Coin et al. 2017).

A fronte di questi complessi problemi, Lia Giancristofaro suggerisce di riflettere su che cos’è oggi l’antropologia culturale e quali cambiamenti deve affrontare in Italia per rimanere al passo con le più ampie dinamiche, anche di carattere sovranazionale, affinché altre discipline non la inglobino e non la svuotino di ruoli e funzioni. Sottolinea la studiosa che la modifica del sistema ASN, varata nel 2022, dovrà necessariamente passare, anche per ottimizzare le risorse disponibili, attraverso accordi all’interno degli atenei spinti, sempre più, ad allinearsi con la settorializzazione ERC che, nel caso specifico dell’antropologia, riguarda la categoria SH3 The Social World, Diversity, Population Sociology, social psychology, social anthropology, demography, education, communication [1]. Questo aspetto richiederà infatti la considerazione di una maggiore interdisciplinarietà della disciplina antropologica che dovrà pertanto essere tenuta in considerazione anche nella prossima ASN.

murgia_precarietaGli aspetti sin qui discussi, non hanno esiti solo all’interno del mondo accademico. Segnala infatti Letizia Bindi un problema centrale che va a minare la valorizzazione dei saperi antropologici anche in altri ambiti. Discutendo del Museo delle Civiltà di Roma, Bindi descrive, nel suo articolo, la volontà del direttore del museo di concretizzare un nuovo programma di attività e una nuova modalità espositiva. In particolare, annota la studiosa, tali obiettivi convergono verso la ri-concettualizzazione di dibattiti post-coloniali, intrecciando narrazioni sul genere e sulla razza, avendo però, come preoccupazione dominante, un certo riguardo verso tematiche che possano avere una funzione pedagogica e uno spazio interculturale. Pur tentando di superare un approccio positivista, Bindi solleva però alcune perplessità soprattutto riguardanti le figure specializzate assunte per apportare tali cambiamenti. Riportando un passaggio dell’articolo di Bindi si possono leggere le parole del direttore del museo: 

«Il team interno del museo, sia a livello di ricerca scientifica che di restauro, è formato da funzionarie e funzionari che dedicano anni, a volte decenni, a processi basati su una paziente ricerca, svolta in collaborazione con altre istituzioni museali e accademiche nazionali e internazionali. Nel prossimo quadriennio è previsto un rafforzamento del team di comunicazione, di quello per la catalogazione e gli studi sulla provenienza finalizzati all’avvio di un’azione fattuale di restituzioni, e per la concezione e produzione di progetti basati sulla ricerca di lungo termine affidata ad artisti, operanti in varie discipline, e curatori» (Bindi 2022). 

La studiosa nota il riciclo di funzionari/e già assunti nell’organico relegati a «ruolo di riordinatori e schedatori del patrimonio» a cui si affiancano altre figure che possano rinforzare le capacità comunicative intrinseche agli obiettivi pedagogici del museo. Si tratta di un problema molto dibattuto, soprattutto nell’ultimo decennio, tra gli antropologi: 

«Sembra dunque confermarsi quella tendenza alla progressiva dismissione e invisibilizzazione delle specificità disciplinari che era stata sollevata negli ultimi anni dalle associazioni e società di studi demoetnoantropologici in merito alla necessità di riposizionare le mansioni di cura e progettazione/ricerca nelle mani di esperti specificamente formati, ivi compresi, in questo caso gli specializzati nelle scuole di perfezionamento demo-etno-antropologiche come luoghi deputati alla formazione di figure di esperti in ricerca, inventariazione e allestimento di mostre, collezioni e interi musei DEA» (Bindi 2022). 

Questo aspetto, seppur intrinsecamente italiano, può essere rilevato in generale anche in altri contesti. Affermano infatti David Platzer e Annie  Allison (2018) come, soprattutto negli ultimi dieci anni, sempre più esperti in antropologia stiano tentando di entrare nel mercato del lavoro nonostante esso si stia contraendo. Pur essendo certamente consapevoli del fatto che i lavori, di ruolo o in altre istituzioni pubbliche o private, in cui applicare e investire il sapere antropologico siano difficili da trovare, nella loro ricerca Platzer e Allison hanno scoperto come pochi dei loro interlocutori, tutti laureati o dottori di ricerca in antropologia, hanno accesso ai dati concreti sulla collocazione degli esperti nel loro settore all’interno di varie istituzioni.

Il punto centrale dell’articolo di Bindi resta quindi il problema di come utilizzare le competenze fruttuose degli antropologi, le quali però sono solitamente date in mano ad esperti di ricerca ambientale e delle scienze della vita oppure a studiosi e storici dell’arte per affrontare anche tematiche eminentemente antropologiche. Non a torto, la studiosa afferma: 

«La capacità del tutto originale e per certi versi esplosiva delle antropologie si gioca esattamente nella capacità di far risaltare le inversioni e le manipolazioni dei vuoti significanti identitari, nel far parlare i gesti, gli oggetti, le icone, i semi, gli animali, i tessuti, ma soprattutto quei “muti della storia” di demartiniana memoria che si vorrebbe fossero sempre meno ‘parlati’, ma parlanti. É un progetto di ‘lavoro culturale’ etnografico inteso come incontro di soggettività multiple – umane, animali, vegetali – dialoganti: non tanto ‘spettacolo’, ma caleidoscopica complessità del guardarsi e ri-guardarsi» (Bindi 2022). 

precari-1Tra le questioni, seppur marginali, sollevate in questo contributo ci sono senz’altro la frammentarietà e l’incertezza che hanno chiaramente delle conseguenze nelle scelte professionali e di vita del precariato universitario e, in senso stretto, all’interno del settore delle scienze demo-etno-antropologiche. Molti studi – come abbiamo documentato – mostrano infatti come un’alta percentuale di laureati e di dottori di ricerca non hanno trovato alcuna collocazione né in ambito accademico, né all’interno di istituzioni attinenti con la loro formazione. Per di più, un elevato numero svolge mansioni in cui non utilizza per nulla le competenze maturate nel corso del suo lavoro dentro l’università (Coin et al. 2017). Tra le maggiori motivazioni ad abbandonare sia il lavoro accademico, sia occupazioni che richiamano competenze antropologiche, rientrano la strutturale instabilità e la conseguente incertezza di una prospettiva di crescita professionale (Platzer e Allison 2018).

Nella consapevolezza di sollecitare urgentemente seri dibattiti su questo tema, possiamo fin da adesso parlare di una sorta di “precarizzazione istituzionalizzata” che riguarda gli esperti del settore demo-etno-antropologico, una condizione caratterizzata da una polverizzazione di esperienze che, pur nella loro similitudine, sono spesso vissute in una situazione di isolamento rispetto all’istituzione di riferimento, rispetto ai colleghi, o anche all’interno di istituzioni extra-accademiche in cui il ruolo dell’antropologo giocherebbe un ruolo centrale.

Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022 
Riferimenti bibliografici
Berardi, F. (2009), The Soul at Work: From Autonomy to Alienation. Translated by Francesca Cadel and Giuseppina Mecchia, Los Angeles: Semiotext(e). 
Bindi, L., (2022), Oleg sulla tavola del vernissage. Nuove collezioni, mercato delle culture e sistemi esperti nella ri-progettazione culturale del MUCIV, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 57, settembre. 
Choonara, J., Murgia, A., & Carmo, R. M. (Eds.), (2022), Faces of Precarity: Critical Perspectives on Work, Subjectivities and Struggles (1st ed.), Bristol University Press. 
Coin, F., Giorgi, A., Murgia, A., (2017), In/disciplinate: soggettività precarie nell’università italiana, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari. 
Ferlie, E. Pettigrew, A. Ashburner, L. Fitzgerald, L., (1996), The New Public Management in Action, Oxford: Oxford University Press. 
Fumagalli, A. (2007), Precarietà». Transform! Italia (a cura di), Parole di una nuova politica, Roma: XL Edizioni. 
Giancristofaro, L., (2022), La valutazione interna dei demo-etno-antropologi tra corporativismi e forze centrifughe, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 57, settembre. 
Ginsberg, D., (2016), Fieldnotes on the Profession: Anthropologists in and out of Academy, Anthropology News, November 10.
 Hipp, L. (2019), Precarious Work by Kalleberg, in A. L., & Vallas, S. P. (Eds.), Work and Occupations, 46(1): 103–105. 
Lazzarato, Maurizio, (2007), The Political Form of Coordination, Translated by Mary O’Neill. transversal, July. Originally published in 2004. 
Millar, K.M., (2017), Toward a critical politics of precarity, Sociology Compass 11(6). 
Murgia, A., (2010), Dalla precarietà lavorativa alla precarietà sociale. Biografie in transito tra lavoro e non lavoro, Bologna: Odoya. 
Parker, M., Jary, D., (1995), The McUniversity: Organization, Management and Academic Subjectivity, Organization 2(2): 319-38. 
Platzer, D., Allison, A. (eds) (2018), Academic Precarity in American Anthropology: a forum, Cultural Anthropology. 
Weber, M., (1970), L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Milano, Rizzoli.

 _____________________________________________________________

Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali. Ha pubblicato recentemente la monografia Esplorare valore e comprendere i limiti, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 3, Cisu editore (2022).

______________________________________________________________

 



[1] https://erc.europa.eu/sites/default/files/document/file/ERC_Panel_structure_2020.pdf

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>