di Antonietta Iolanda Lima
In via Caltanissetta l’inizio
Volto levantino per via degli occhi, guance dal colorito di bambino ancora, sorriso d’improvviso aperto, voce che sembrava andare di fretta. Poco più che quarantenne, di aspetto raffinato ed elegante, così mi apparve, per la prima volta, un venerdì mattina, e la sua alta misura mi parve coprire per intero lo spazio. Sparì quasi subito in quel nebbioso giorno di novembre, e subito sentii che mi intrigava – avevo 18 anni allora e si preparava quell’anno a dare l’alba al ’58 del Novecento, e io ero lì, in via Caltanissetta, ad imparare l’architettura in una Facoltà di cui quattordici erano gli anni trascorsi dalla sua fondazione.
Dovevo ‘scoprirlo’ questo Giuseppe Caronia, capire quale il tragitto che da quando uscito nel mondo lo conduce ad essere un giovane appassionato di vita e di architettura, Pippo per compagni e amici e colleghi poi, il nome con cui è chiamato sin da piccolo. Seppi di lui che da due anni, trasferito da Ingegneria, era diventato professore di Composizione Architettonica. Noto di chimica, era il professore che aspettavo. C’era allora in quella giovane e dimensionalmente piccola Facoltà, una mirabile mescolanza di professori e allievi e mi pareva che in tutti avesse trovato stabile casa la passione. Per questo noi c’andavamo contenti.
Come nei tanti condomini di oggi c’era il buco dei rifiuti. Lo chiamavamo ‘il tunnel verticale’ e ricordo che Mazzarella di Scienza delle Costruzioni gli buttava le esercitazioni di un allievo dicendo a voce altissima: “Pasquale (Culotta) torna a Natale”. Era l’unico docente che ci faceva venire ‘i brividi sulla schiena’.
Ma quale il contesto con cui in essa si confrontava pressocché quotidianamente Giuseppe Caronia? Preside il padre, cattedratico di Urbanistica Edoardo Caracciolo sin dal dicembre del 1956, e lo era di Storia e Stili dell’Architettura, primo di Bruno Zevi 2° ternato –, Guido Di Stefano dal 25 gennaio del 1961, di grande competenza e autorevolezza entrambi, di Composizione Giulio Roisecco, cui seguì la nascita dei primi quattro istituti di Composizione, Storia dell’Architettura, Scienze e tecnica, Urbanistica a cui tra luglio e dicembre si aggiunsero quelli di Costruzioni e di Elementi architettonici e di Costruzioni, l’uno diretto da Salvatore Guercio, l’altro da Luigi Vagnetti, cattedratico di Architettura e rilievo dei monumenti.
È il 1962, data dolorosamente indimenticabile per la Facoltà, di perdita e di necessari cambiamenti. Muoiono due ‘pilastri’: Edoardo Caracciolo e Guido Di Stefano. Grande la loro competenza. Il primo ha dato all’urbanistica quella rara dimensione umana da lui stesso posseduta donandole una tale singolarità da rendere ’lei’ e il suo artefice unici nell’intero panorama peninsulare; il secondo, che occuperà la cattedra, lasciata vuota da Caracciolo, sino al ’67, già distintosi nei secondi anni Quaranta nei concorsi per il Lido di Venezia, partecipe di interventi con progettisti già di noto talento – tra essi Zevi, Piccinato, Samonà, e Scarpa con cui nel 1953 aveva allestito una mirabile mostra su Antonello da Messina e la pittura del Quattrocento in Sicilia. Intenso, vivace, colmo di positivi fermenti il mondo dell’Architettura degli anni Cinquanta. Recente, vegeto e oggetto di confronti e rimandi il frutto generato dai ‘Maestri’ del Movimento Moderno.
Della mescolanza, dicevo. Si perse via via questa magnifica corrispondenza tra studenti e docenti che sin dalla sua istituzione era di casa nella facoltà di Venezia animata da un raro crogiolo di libere, brave e appassionate intelligenze. L’inizio per Palermo fu il definitivo passaggio nel 1965 a Casa Martorana in via Maqueda, per fugare poi e per sempre nella nuova sede di Parco D’Orleans preceduta da un lungo dibattito e da una altrettanto lunga fase di proposte progettuali. Nel febbraio del 1978 una di queste – blocchi edilizi –, insieme ad altri colleghi facenti parte del gruppo di Gregotti-Pollini, sarà a firma di Giuseppe Caronia. Insegna a Palermo, a Roma abita e apre lo studio, forse perché è lì che maggiormente sente vivere la pienezza di arte e cultura. In parte del mondo viaggia.
La famiglia, la scuola: dalle medie all’università
Nel pieno del veleno fascista e nazista, Giuseppe (1915-1994) vive infanzia e adolescenza. Non ha ancora coscienza di cosa sia giusto e cosa sbagliato. «A casa nostra il fascismo non entrò mai» mi dice Giulia. Ma il tempo di Giulia, una delle figlie, è lontano da quello in cui è immerso il padre, da bambino. Il pensiero e l’agire mussoliniano entrano invece nella scuola e nel quotidiano della famiglia a cui appartiene. Le dà lustro Salvatore Caronia Roberti, preside della Facoltà negli anni del fascismo e da esso senza distanza alcuna, pensandolo forse come ‘una vera rivoluzione’. È personaggio nutrito dalla cultura classica, attento al pensiero intelligente. Ama la letteratura, ma privo, a me sembrava, dei dubbi benefici che vengono dalla filosofia.
Giuseppe – chiamato Pippo sin dalla nascita – vi è immerso, sicché generando un contatto precoce con l’architettura anch’essa inizia a trovare posto nel suo immaginario insieme a quei dettagli che se pur marginali possono avere ruolo che dura nel farsi di ciascuno di noi. E questo suo modo di vivere infanzia e adolescenza diventa protagonista del procedere nel tempo della Storia accompagnandolo più o meno consapevolmente nel costituirsi del suo destino.
Ancora non adolescente, crea e dirige “Il Giornale”. La sede è a Palermo, in via Pacini 12. Dieci gli inediti: n.7 avuti da Giulia, sono manoscritti in carta uso bollo. 1927, la data. Pippo è quindi dodicenne. Diciotto le pagine, nove i fascicoli. Quadri-partita la struttura e i contenuti: cenni di politica, grandi uomini, romitaggi siciliani, «per ridere e per finire». Interamente permeati dalla retorica di regime con cui lo plagia la scuola. Benito Mussolini è il condottiero capace di rendere grande l’Italia e tra ‘i grandi’ che lo inserisce, insieme a Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso. Firmato Giuseppe Caronia, “Le avventure di Raul Leroi” – un racconto a puntate su un conte in cui riverbera un immaginario nutrito soprattutto da Kipling, Verne e Salgari.
Degli anni liceali non so nulla perché nulla traggo dalle interviste con i figli ‘disponibili’: Luigi, Giulia, Elena. Si è ancora nel pieno del fascismo – nel 1933 la promulgazione delle leggi razziali – e l’insegnamento della sua ideologia, per i motivi che ho evidenziato, è entrato nel suo immaginario. L’inizio dell’affrancamento penso avvenga in Pippo nella fase liceale per divenire poi definitivo in quella universitaria.
Progetto e cantiere
Si accresce il pensiero sollecitando l’ansia di verifica del suo progettare. Si muove nell’alveo di una tradizione costruttiva consolidata, legata al magistero del fare. Raramente, qualche rimando a Terragni e Gropius. Permanenza di alcune tecniche costruttive, e, nell’ambito dell’intervento sulle preesistenze, ricerca di continuità piuttosto che di fratture. La ragion d’essere della sua architettura non si basa solo su motivazioni di ordine funzionale, tecnico e tecnologico, comunque implicite. Essa si trova in se stessa, nell’essere architettura. Dirà: «Se poi qualcuno mi chiede cos’è architettura, rispondo: datemi un tema e un luogo e io vi do un progetto». Così formulata trovo sia una definizione priva della complessità che dovrebbero possedere l’essere architetto e architettura; una complessità permeata anche dal dubbio e, se necessario, dal sapere dire ‘no’. Non appartengono a Giuseppe Caronia. Lui è andato di fretta, e questo ha nociuto.
Frenetica infatti la sua attività appena chiusa la tragedia della guerra. Con essa, i primi balbettii in una Palermo profondamente danneggiata che attendeva di essere curata in modo autentico dalle sue gravi ferite. Quattro progetti di cui uno di un certo interesse per il suo collegarsi ad un evento rilevante, il Palazzo dei congressi e dei ricevimenti per l’Esposizione Universale del 1942. Negli anni compresi tra il 1946 e il ’50 è la genesi del suo rapporto con la committenza privata: Palazzi La Lomia in via Agrigento n. 3; Tripoli in via Mariano Stabile n. 261; in via Donizetti. Intrecciandosi con un agire connesso ai temi della città e del territorio che per Palermo si apre con il piano di Ricostruzione del 1947, si rivelerà prevalente nell’intera sua attività.
Su una quarantina di progetti del decennio Cinquanta dieci saranno infatti quelli a carattere condominiale. Interventi anche in altri urbani della Sicilia: S. Angelo di Brolo (Messina), Butera, Pachino e Noto con chiese parrocchiali, Termini Imerese (PA) e Misilmeri (PA), Monreale, S. Martino delle Scale. Da segnalare la partecipazione a concorsi di carattere urbanistico e la realizzazione di tre opere di un certo interesse: il Cinema Fiamma; 1953; il Palazzo per gli uffici dell’Ispettorato dell’Agricoltura; 1956-1967 e il Nuovo Istituto d’Igiene del Policlinico, 1957-1966, in cui punte di asimmetria donano un po’ di vitalità.
Ancora per Palermo, i venti che progetta, in una città in cui alle rovine che persistono si aggiungono le nuove create da una mafia in crescita la cui risposta ai nuovi piani urbanistici in fase di elaborazione – regolatore e di risanamento – è la notturna demolizione del villino Deliella. Nonostante abiti e abbia studio a Roma, un assolo la villa a val di Rufina. In quella parte di territorio dove il costruito sembra una piccola Olgiata, in posizione collinare, segnata dal rosso del laterizio, con una ampiezza di 900 mq. Vi abitano i figli con l’istitutrice.
Otto a Palermo di cui sette di urbanistica e alcuni interventi puntiformi a Taormina e ad Agrigento, le elaborazioni degli anni Settanta. Quantitativamente minori, li vive in un clima segnato da lunghe nefaste mani sulla città. Macchiato di sangue prepara l’avvio di una crisi politica e istituzionale che diverrà grande dai Novanta ad oggi, trasformandosi a mio parere in un vero e proprio abisso. Ma in Giuseppe Caronia che da tempo ha definito orizzonti e scelte di vita, acquisteranno maggiore rilevanza la ricerca e l’azione architettonica per la quale il classicismo, come ho già evidenziato, è fonte mai messa in discussione e quindi limite ad un avvicinamento espanso e di lunga durata alle potenzialità gettate dalle avanguardie storiche. Evidente l’assonanza con il padre con il quale ha molti i punti d’incontro: logica, chiarezza, rigorosa definizione geometrica. Fanno parte delle sue idee portanti. Con esse crea le sue forme, nei casi migliori nutrite da un processo di semplificazione che però solo raramente mostra varietà, contrasti, sfumature che non inficiano la convenzionalità degli spazi da lui generati nell’alveo di una tradizione costruttiva consolidata.
Sollecitazione di «allungare il passo verso il futuro» (traggo da Giovanni Puglisi a proposito del suo dire sulla capacità della letteratura). Avviene, a me sembra, solo una volta. Con il restauro della Zisa, suo consulente nel progetto Paolo Marconi. Esemplare infatti – lo si vedrà a breve – il suo lavorare a un monumento di eccezionale valore che riportandoci molto indietro nei secoli è rara testimonianza del mirabile ideare e fare della cultura islamica. Vi si coglie la consapevolezza della “responsabilità” del lavoro intellettuale nei confronti del “resto del mondo”. Difende la tradizione qui riuscendo a trasfigurarla, ma non tradendola, anzi attualizzandola, ed è quello che non è riuscito a realizzare facendo architettura, avendogli nuociuto la quantità a discapito della qualità. Sicché pochi i progetti ‘meritevoli di interesse’.
Tra gli interventi a Palermo ne individuo tre: il cinema Fiamma del 1953; il palazzo di via Leanti del 1958, inserimento di mattoni rossi che rimanda – commenta il figlio Luigi – a un modo in uso a Roma tra i progettisti; la sede dell’Assessorato dell’Agricoltura, nel suo razionalismo geometrico misurata e riuscita articolazione di volumi con qualche inaspettato scarto di leggerezza nelle parti alte. Dei non realizzati, la sistemazione del rione Villarosa, in giovane età, 1947; successivamente un padiglione all’Aquila caratterizzato dalla sequenza di volumi a guisa di grandi cannocchiali, simili a container; un borgo sviluppato secondo la lunghezza, planimetricamente articolato con fondale una chiesa; albergo in via Granatelli agli inizi degli anni Ottanta.
Quando è libero dall’insegnamento in Facoltà, c’è Roma vitale e colma d’arte. Dai ricordi del figlio Luigi, bambino che Giuseppe porta con sè in cantiere, emerge quindi uno studio in piena e feconda attività (intervista del 17/11/2023). Al triennio’65-’67 datano due opere, una in via Francesco dell’Ongaro, l’altra a Latina, alla cui riuscita nuoce la pessima esperienza economica subita. Due palazzine di altezza diversa contribuiscono insieme alla passerella che le collega a dare forma alla prima in uno spazio della città acquistato da Giuseppe insieme a Censi Cabianca.
Si costruiva allora in laterizio a vista e in legno avvicinandosi così a un modo di fare ecologico e questo ancor prima della crisi petrolifera che nel 1973 avrebbe dovuto orientare in tal senso il pensare e l’agire di tutti, soprattutto i gestori del potere. Giuseppe per quel che attiene l’architettura lo fece ancor prima nella sua citata Via dell’Ongaro: in mattoni rossi il prospetto che vi si affacciava con servizi coperti da frangisoli, ma dimenticandolo poi quando iniziò a prevalere nello scenario architettonico il tardo razionalismo. Avvenne in quasi tutti coloro che continuarono a progettare, tranne rari personaggi, come Giancarlo De Carlo.
Collabora con Giuseppe Caronia, Luigi ora giovane attento. E in lui, anima e corpo si intridono della esperienza quotidiana con il padre che avviene nello studio di via Corsini. Anche per Luigi è destino la scelta dell’architettura, respirata sin da bambino, riproponendosi così quanto già accaduto tra il suo genitore e il ‘nonno Salvatore’. Studente, vive l’esperienza progettuale del Piano Regolatore di Gela. Sono gli anni ’75-’76. Giuseppe è stanco dell’Università. Dopo l’importante ruolo di direttore del Dipartimento di Urbanistica, quanto vissuto durante la sua presidenza, meno di un biennio, ha lasciato tracce in lui negative. Fa capolino l’idea di lasciarla. Avviene nell’Ottanta maturandosi la decisione di andare in pensione. Ha 65 anni e a breve avrà l’incarico di elaborare il restauro della Zisa. Si accende la passione, e ne chiarirò il come, quando inizierà a dialogare con la storia attivando un processo di conoscenza e riflessione che troverà il suo riverbero anche in un libro che dice al mondo della multiforme e complessa galassia che è l’architettura islamica, ridefinendone i significati nel contesto che l’ha generata.
Nei medesimi anni un’importante sfida in Arabia Saudita. Gli viene dal figlio Salvino, «primo maschio in un ambiente segnato dal patriarcato» (Giulia Caronia), architetto nutrito dalla fecondità di plurimi saperi: letteratura, cinema, teatro, pittura. Si trova in Arabia Saudita e conosce un emiro che vuole la realizzazione di una città progettata da un gruppo di architetti. Immediato il rivolgersi di Salvino. Ne nasce il coinvolgimento, con Claudio Dell’Olio, Manfredi Nicoletti, di Guido Gigli e di Paolo Portoghesi che con la Strada Novissima alla Biennale di Venezia ha generato un vivace dibattito su come pensare l’architettura di questo determinante costitutivo urbano.
Impianto centrico l’ideazione della città araba, con una doppia e simmetrica viabilità che per intero l’attraversa diagonalmente. In continuità con il pensiero architettonico del padre, l’attività progettuale di Giuseppe Caronia è supportata da una solida conoscenza costruttiva. La fonda lo studio della classicità, orientata verso una dimensione funzionalista. Testimonianza di tale continuità la chiesa dello Spirito Santo in via Filippo Juvarra, e il palazzo La Lomia in via Agrigento – attuale Hotel Europa –, entrambe opere palermitane.
Ventennio ’70-80’: convergenza progettuale e storica su un mirabile lascito del passato
Quando dopo secoli di trasformazioni lo acquisisce la Regione Siciliana nel 1955, un esteso degrado avviluppa il Palazzo della Zisa, documento di assoluto valore di un modo di architettare proprio di un’area culturale estesa dal Maghreb all’Egitto islamico. Nulla nei due successivi decenni nei suoi confronti. Ci vorranno il crollo della sua ala settentrionale nel 1971 e le conseguenti sollecitazioni di studiosi e intellettuali a condurre all’incarico del progetto di restauro e consolidamento. A tale fine, l’ARS decide a favore di Giuseppe Caronia, pensando forse a quanto di acutezza di indagine e di capacità interpretativa gli aveva dato la quotidiana scuola del padre. Ne racconta genesi dinamiche e conclusioni il libro che pubblica nel settembre del 1982. Strutturato in quattro parti restituisce il contesto e quindi le architetture di Palermo pressoché a lui coeve, la vicenda costruttiva comprensiva degli intonaci, delle finestre e degli elementi decorativi, la legge di simmetria, intesa come fondamentale chiave di lettura estetica, la decadenza, rivolgendosi infine alla puntuale descrizione del restauro dando luce, ma sottolineandone anche i limiti, ai rilievi effettuati e ai problemi e alle scoperte del cantiere.
Interamente lo vertebra la coralità nell’agire – coinvolgimento di collaboratori e specialisti – il rifiuto di risarcimenti mimetici e di una ricomposizione in stile, il metodo scientifico che non espunge il ricorso moderato, quando ritenuto necessario, a confronti analogici.
Quanto Giuseppe Caronia dirà nel giugno del 1991 con l’apertura al pubblico, ben esprime il senso del suo intervento: «…amo pensare che nella Zisa restaurata, la verità storica, trovi la sua piena conferma più che nell’esplicitazione dei singoli interventi che, in ogni caso, non devono compromettere lo scrupolo del restauratore». Ma quale il suo intendimento di ‘verità storica’? Afferma: Quattro i valori e le qualità che le devono appartenere:
«la coerenza del messaggio figurativo, l’identità di un’opera architettonica, destinata per sua natura a resistere agli agenti atmosferici e al deterioramento fisiologico, il rinnovamento ed il consolidamento. Rappresentano condizioni irrinunciabili (per la durata nel tempo e nello spazio) delle forme e del significato di un monumento architettonico e cioè: della sua più genuina ed autentica realtà, tuttavia diviene pericoloso riproporre la psicologia della progettazione (Viollet le Duc) e quindi strumentalizzare la Storia per mettersi nei panni dei costruttori medievali, magari correggendone gli errori…».
Per complessità, strategia, competenza nel procedere e ampiezza degli interventi – progetto di sistemazione urbanistica del parco antistante il castello della Zisa nel 1982, seguito due anni dopo da opere di pronto intervento nell’edificio che fiancheggia il castello della Zisa – il restauro della Zisa di Palermo nata, all’interno del Genoard come dimora estiva dei re normanni, mi rimanda a un vero e proprio Piano particolareggiato. Riuscito per aver saputo generare un paesaggio, con a fondamento la consapevolezza della distanza storico-critica fra passato e presente, e un fine contrario alla restituzione di una eterna, ma certamente falsata, giovinezza, bensì teso a tutelarne i valori storici e artistici, dando voce al magistero di una mirabile arte del costruire. Con esso avviene un tuffo in profondità ed è con esso che, immergendosi nel silenzio colmo di magnifici rumori, come ho già sottolineato, mette in luce origine, dinamiche, germogli continui di potenzialità.
Non ho una competenza tale da darmi la sicurezza di un mio giudizio fondato. Sono un architetto e come tale progettista e storica dell’architettura e da questo mio essere mi giunge voce di un paesaggio significativo, sensoriale anche, che lega al presente, attualizzandolo, un passato di parecchio lontano facendolo rivivere. Il come si augura di averlo attuato il suo ‘artefice’, con un collaboratore nella fase realizzativa più tarda: l’architetto Vittorio Noto che presto si rivela competente e sensibile e attento alle ‘voci’ molteplici del monumento. Ed è l’avergli ri-dato la sua vera endogenesi progettuale, il senso di questo ‘come’, che è altra cosa rispetto al semplice consolidamento e salvaguardia nel tempo. Significava questa endogenesi la restituzione alla sua vera realtà storica che nel legare funzionalità e soluzioni bio-climatiche aveva dato voce alla bellezza. Ne rimase positivamente colpito, – cito da Noto,
«l’americano di origine argentina Machado, famoso per le sue originali architetture ed il suo impegno didattico nelle principali università degli Stati Uniti; apprezzò moltissimo le qualità semantiche del restauro, incoraggiando il professore a completare il restauro facendo rivivere le fontane e le canalette con l’acqua, senza la quale il palazzo appariva incompleto. Lo scrittore inglese Releigth Trevelyan storico della Seconda guerra mondiale nonché appassionato studioso dell’Alhambra, ebbe un ricordo indimenticabile della visita alla Zisa, compiuta con il Prof. Tanto da inviargli una lettera di ringraziamento unitamente al suo volume: Shaedes of the Alhambra».
Nella missiva, lo ringraziò per averlo letteralmente sommerso con la sua generosa accoglienza, e del dono del suo romanzo storico: Il Normanno, disse in proposito di averne parlato con Julius Norwich in un incontro a Taormina e che insieme si ripromettevano di esaminarne le potenzialità storico-mediatiche, in un prossimo incontro a Londra. Iniziava in quel periodo la rivisitazione fantastica del mondo medioevale. Pavon Basilio Maldonado, uno dei maggiori esperti viventi dell’architettura ispano moresca, trasse dalla visita alla Zisa, diversi spunti per i suoi saggi relativi ai rapporti tra l’architettura, l’arte medievale siciliana e spagnola. Il direttore del Museo di Tunisi, Prof. Chabbou nel corso di una sua visita, spiegò nei minimi particolari, il funzionamento del sistema di bio climatizzazione in uso nelle abitazioni nord africane, paragonandolo a quello evidenziato alla Zisa; volle anche contribuire al completamento del restauro, regalando, la chiusura traforata in stucco, di una delle finestre del Palazzo, realizzata da artigiani maghrebini. Eminenti orientalisti della Università di Napoli: Gabrieli ed Oman cercarono di reinterpretare le epigrafi arabe del vestibolo.
Diventa così un classico, in senso calviniano, il libro edito da Laterza che racconta l’intera vicenda del restauro della Zisa. Si ri-legge e si scoprono cose nuove. Stimola domande disegnando nel frattempo profondità della sua biografia, al cui raggiungimento aveva contribuito un voluto e necessario rallentare il numero degli incarichi, rendendo meno ‘folle’ la sua corsa.
Ed è un’opera di durata permanente, la Zisa. Paul Valéry in Tel Quel, del 1941, affermava: «Un’opera dura … solo se ha in sé la possibilità di infinite interpretazioni; altrimenti deve possedere una qualità indipendente dall’autore, determinata non da lui ma dal periodo o dalla nazione in cui vive, una qualità che acquista valore allorché periodo o nazione cambiano».
Consapevole della sua unicità, ha dialogato, Caronia, con competenza e passione con questo edificio, dando luce ai problemi molteplici che lo intridono e dando ad essi risposte, con una accuratezza che dà ali nuove all’armonia con cui è ‘impastato’, come ha cercato di fare, spesso riuscendoci magistralmente, con i personaggi dei suoi libri, con la scelta dei termini, con l’intelligenza delle interpretazioni, con il ritmo delle frasi, con l’utilizzo degli aggettivi anche. E in tutti converge l’importanza del ‘senso dell’ordine’, ritenuto necessario sul piano dell’estetica, sia per l’architettura che per l’urbanistica. Già prime testimonianze da poco laureato in Appunti per una estetica dell’urbanistica, aprile 1944; Sul senso dell’ordine in urbanistica.
Il colloquio con la storia: libri e Taccuini di viaggi
Sono i Taccuini di viaggi a darla. Un modo per evadere dal consueto, per sentirsi appieno libero di entrare anche in se stesso. Ri-generarsi. Ritrovati dal figlio Luigi quasi per caso in un vecchio scatolone, tutti inediti – racconta Elena Caronia, fotografa e anche lei viaggiatrice: «Così abbiamo fatto una serata dedicata a papà e di questo ringraziamo Luisa La Colla per lo spazio e il supporto messi a disposizione. Abbiamo voluto ricordarlo non in modo scientifico ma come nostro padre, per far rivivere la memoria che noi figli conserviamo di lui. Abbiamo così messo in mostra questi appunti per far rivivere il suo amore per la bellezza. Il ricordo della sua passione». «Mio padre disegnava ovunque – aggiunge Luigi. Non era solo il suo lavoro, era un amore fortissimo. Gli bastava avere una matita e un foglietto di carta e disegnava tutto ciò che aveva di fronte. Spesso lo faceva pure sul pacchetto delle sigarette».
Nati per caso durante una passeggiata in barca, un viaggio a Hong Kong, ad Atene o in guerra, all’interno di un accampamento. Tutti senza firma ma solo con il nome e la data del luogo visitato e vissuto. A quattro anni dalla laurea in Ingegneria Civile Edile e contemporaneamente in Architettura presso l’Università di Roma. 1940, la data. Giuseppe, venticinquenne, è al ‘Fronte Greco’ e in due disegni restituisce il fuori e il dentro: casolari tra alti alberi e sotto una tenda cinque soldati, alpini dal cappello, di cui uno suona la chitarra. Nella patria del mito e del classico tornerà ripetutamente. Nel 1978 a Lindos, paese di Rodi, nell’’80 ad Assos, a Corfù – periferia isole ionie, a Paxsos, a Delfi periferia della Grecia Centrale, ad Atene, a Simens e a Rodi.
Il 1977 e il ’79 sono dedicati all’Italia, con qualche puntata successiva – anni ’81 e ’82 a Parma e a Cefala Diana. E successivamente è a Porto Venere in Liguria, a Peschici sul Garda, a Lerici, in quattro paesi della Puglia: Rodi Garganico, Polignano a Mare, Trani, Alberobello, Sperlonga, Mantova, Urbino, Roma, Palermo, Monreale. L’Irlanda nel 1982: Listowell, Blarney di cui ritrae il castello, Kylemore e Dublino, la capitale. Ma c’è anche Budapest nello stesso anno e, tranne il castello di Calatubo nei dintorni di Alcamo, la contea del Somtsel nel Regno Unito occupa il ’79. Un interesse il suo concentrato in un solo paese: Bath, centro termale.
Rapide permanenze, nel 1983, forse di passaggio, a Castellorizzo in Turchia dove sette anni dopo lo si trova al tempio di Sidi. In Germania nell’83 il taccuino testimonia la visita in un solo paese – H. Nicolaus –, al contrario della Francia. Paese per lui di grande interesse, pregno ancora della centralità culturale del decennio precedente, vi sosta in più anni: nel 1983, nell’86 e nell’89: Aix en Provence, Arles, Carcassonne, Vance – il castello, Chambery, Annency, Nernier, Ginevra, Yvoire – il lago, Messery. Ho chiesto ai figli sul perché di questi luoghi. Lo sconoscono. Per quel che è di essi noto, il fascino di alcune potrebbe essere la medievalità dei loro spazi, la loro misura umana, in altre come Carcassonne e Vence, l’intatta bellezza delle cinte murarie e il castello, per altre ancora lo stretto legame con il mare come Messerey o la svizzera Ginevra il loro carattere mediterraneo.
Tranne pochi, di timbro espressionista, inchiostrati dal nero segno del pennarello, restituiscono limpidezza e chiarezza espressiva, lontani da ciò che di lui emerge nel cuore della famiglia, a detta dei tre figli con i quali ho parlato. Veloci, rapidi come il suo parlare, sono istantanee di spazi costruiti da corti e scale esterne, molti dei quali assimilabili a quelli che Luciana Natoli in un suo magnifico libro chiama “città paesi di Sicilia”. Nutriti da un’ottima capacità di sintesi, con pochi tratti ne restituiscono la complessità morfologica e spaziale, l’essenza, e come i semi delle piante, travalicando tempi e spazi, dalla geografia configurano la propria indipendenza.
Un insistito sguardo su Medioevo e Rinascimento
Lo fa impegnandosi nella scrittura, racconto anche del progetto nella fase di sua massima formazione/evoluzione quando si dedicherà soltanto alla ri-generazione della Zisa di Palermo attraverso il sui restauro. Tranne i primi contributi testimoni degli esordi che qui tralascio, in tutti stimolante il pensiero. Positivamente ne caratterizza gli esiti.
Come quando era ancora ragazzino, la scelta è quella dei ‘grandi uomini” ‘o di opere esemplari del suo amato Medioevo. Ai ‘rinascimentali’ dedica tre saggi tra l’85 e ‘l’87 con l’editore Laterza a cui si aggiunge un racconto su Michelangelo, e ne diventa in gran parte anche la sua, la biografia, o quantomeno il racconto di quello che avrebbe voluto essere. È il suo daimon, il sublime artista.
Ma andando a ritroso dentro la Storia all’interessato guardare di Giuseppe Caronia, così pregno con la classicità anche di medioevo, non può certo sfuggire la figura di un altro grande – Federico II – che rese la Sicilia luogo di plurimi incontri culturali e dalla cui Scuola si generò una poesia talmente elevata da essere apprezzata anche da Dante congiuntamente all’utilizzo – il primo, dopo ‘il provenzale’ – di una lingua romanza. Il Normanno. Romanzo storico (Edizioni Giada, Palermo 1985) è il tributo che gli dà.
Ben ne evidenzia il senso Vittorio Noto. Scrive:
«…nella ricerca di quel medioevo fantastico dal quale non riusciva più a distaccarsi, anticipando scrittori come Ken Follet e Dan Brown, si immerse nella scrittura del racconto storico: note veloci, tracciate con il suo caratteristico pennarello, quasi una criptata grafìa a metà tra il disegno e la scrittura, che soltanto la figlia Giulia, riusciva a tradurre. Nasceva così un romanzo nel quale dipingeva tutto il suo fantastico immaginario, rivivendo gli avvenimenti e le realtà del suo tempo in una quasi immutabile dimensione siciliana: un viaggio attraverso il tempo, lo spazio dove re e regine, santi e cavalieri, uomini e donne di Sicilia, architetti e monaci, popolani e uomini di terre lontane, talvolta storicamente esistiti o trasposti dalla realtà, costituivano i personaggi di due mondi paralleli, virtuali ed attuali, distanti nove secoli».
La città l’architetto e gli altri. Confluendovi quanto scritto nelle pagine di quotidiani – tra essi il Corriere della Sera -, e di riviste nazionali ed internazionali, trova posto nelle sue riflessioni la questione urbanistica, ciò che ha di irrisolto e le risposte che da essa si attendono. Si coglie in tutti «l’empito di una propria ricerca originale» tesa a dare vita ai grandi protagonisti che nel vivere la ‘storia’, l’hanno costruita o rinnovata. Anche la passione dà ad essi alimento e ancor più la si coglie nel più volte da me citato Il restauro della Zisa ed anche in due suoi ultimi libri, La Cuba di Palermo: Arabi e Normanni nel XII secolo e L’Architettura dei Sicelioti. Il primo ne raccontava storia e restauro. Particolarmente apprezzato da un certo Beat Brenk, professore universitario di Basilea, per esso Vittorio Noto fu mandato
«in missione in Spagna per studiare i sistemi di canalizzazione a pavimento delle fontane e dei bacini dell’Alhambra di Granada e dell’Alcazar di Siviglia; poi in Francia: a Cluny, centro spirituale monastico, ma anche di nuove sperimentazioni per gli edifici religiosi; e a St. Denis, la cui cattedrale fu costruita dall’abate Suger, grande amico di Ruggero II, in sincronia con la cattedrale di Cefalù, entrambe realizzate come mausolei dinastici. In Normandia e Inghilterra infine, sui passi di Guglielmo il Conquistatore (padre di Giovanna, regina di Sicilia). Caen (chiese e castello) e Londra (White Tower) mostravano stringenti similitudini, con le contemporanee realizzazioni dei Re di Sicilia».
Uno scavo ben condotto il secondo. Interrogandosi sul perché della nostra ‘sicilitudine’ ne restituiva anche il ‘come’.
In un voluto retrocedere nel tempo, uno sguardo a Urbanistica come civiltà
Nella copertina di questo libro c’è l’astrattismo con i suoi colori primari di Mondrian, nelle sue pagine rivivono insieme Lewis Mumford ed Edoardo Caracciolo e il grande valore che essi danno alla dimensione umana portatrice di benefiche relazioni, la cui mancanza nel rendere infeconda la città ne oscura l’ancoramento con la realtà fisica, storica, sociale, politica del suo intero territorio siciliano.
Nel procedere della riflessione, interamente incentrata sulla Sicilia, Giuseppe Caronia dà grande spazio al paesaggio rurale e urbano, le cui considerazioni alcune volte di notevole acutezza interpretativa lo condurranno all’insegnamento di Urbanistica presso la Facoltà di Architettura di Palermo (sino al 1980) ottenendone la cattedra nel 1967, quando ne diventa preside per un anno appena. Il perché non mi viene chiarito dai figli, ancora piccoli allora. Penso lo dia lui stesso definendosi ‘libero uomo di cultura’.
Quattro parti lo strutturano: “Politica ed urbanistica nell’ambiente regionale”, “la pianificazione regionale al quarto congresso Nazionale di Urbanistica”, “La ridistribuzione della popolazione nelle zone della riforma agraria”, La cultura delle città”, “La città e l’uomo”, “Il nuovo piano regolatore di Palermo”, “Il quartiere nella città moderna”, “Su alcuni aspetti economici e territoriali dei piani regolatori”. Un interessante insieme di illustrazioni conclude il libro congiuntamente ad alcune considerazioni sui “problemi del turismo in Sicilia” nella specificità di “un piano di opere”.
Nell’intervento sulla città con l’uomo c’è la società, nella sua struttura, nelle sue esigenze, nei movimenti. Ma la società è mutata e «l’urbanistica deve diventare determinante di una nuova società». Deve soprattutto sanare le dannose ferite prodotte da un urbanesimo incontrollato, dovuto all’ingrandimento della città, generatore della sua trasformazione in enorme macchina burocratica, impiegatizia, affaristica. Quale quindi la sua forma? Meglio città nuove e indipendenti invece di tanti nuovi e soffocanti quartieri. Una conferma l’Agropontino, ma occorre migliorare. Potrebbe costituirsi un anello di urbani satelliti viventi di vita propria, entro una distanza massima di 20 km da Roma capitale. Sul piano funzionale, aumentare il potenziale industriale e l’attività edilizia pubblica, (si cfr. negli stessi anni il progetto di Mesa city di Paolo Soleri). Conseguenti le riflessioni e le proposte sui criteri per queste nuove fondazioni con implicite il concetto di limite
II 1957 è la data di edizione del libro. L’Italia ha affrontato la ricostruzione di un Paese devastato dalla follia della guerra. Nel sud le macerie fanno ancora parte del paesaggio. Ma nel sottosuolo del Paese iniziano i negativi fermenti di quello che diverrà materialismo e consumismo via via crescenti e a un livello tale da procedere senza freno alcuno, senza barlume di una qualche ragionevolezza. A Giuseppe Caronia mancano tre anni per giungere ai Sessanta. Il suo studio a Roma è in piena attività.
Molti di coloro che avevano giurato fedeltà al regime proseguono il loro mestiere. Sono i gestori del potere politico e gli intellettuali, e tra essi i ‘grandi’ per acutezza di pensiero come, l’alter ego di Benedetto Croce, Giovanni Gentile. Il cui riferimento dà avvio nel libro di Giuseppe alla prefazione di Edoardo Caracciolo. Nella profondità di interpretazione, nella forza evocativa della sintesi, nella chiarezza e padronanza linguistica e lessicale, c’è il travaso conoscitivo e culturale della mirabile personalità del suo autore. In riferimento alla riflessione di Gentile, con la quale inizia, sulla tarda permanenza nella cultura architettonica siciliana di lasciti illuministici e materialistici nel primo Novecento, precisa la sensibilizzazione ad essa apportata dai due Basile portatori entrambi di un crogiolo di idee significative: Schinkel e Semper ma anche «le nuove esperienze belghe, tedesche, austriache, francesi», evidenziando infine la successiva crisi nel ventennio 1920-’30, per lui dovuta all’incapacità del suo ‘massimo trainatore’ – Ernesto Basile – e di gran parte dei suoi allievi «di intendere e approfondire quel vasto movimento di idee che trovava splendida affermazione dal De Sanctis a Croce», diversamente da quanto accadeva nel Nord dell’Italia. Con esso barriere. Ma cadranno anche se in un processo temporale non brevissimo, palesando via via il precipuo carattere dell’urbanistica: la ‘civiltà’. E di questo è consapevole Giuseppe Caronia che con tale termine nel titolo del libro che dà alle stampe ci dice che in tal modo deve intendersi l’Architettura.
Intreccio di storia e progetto nel restauro della Zisa
Con avvio nel decennio Settanta, occupa per intero il successivo, lo studio, l’indagine, l’analisi di Giuseppe Caronia verso questa mirabile architettura palaziale di matrice nordafricana, e di una vasta area ad esso contigua. Edificata nella seconda metà del XII secolo, ne avviene la conclusione il 14 maggio del 1991, giorno in cui l’Assemblea Regionale Siciliana consegna il Palazzo all’Assessorato ai Beni Culturali. Entrata nel 2015 Nella lista del patrimonio mondiale UNESCO dal 2015, l’obiettivo dell’intervento così lo espresse il suo progettista a pubblico e studiosi: «…amo pensare che nella Zisa restaurata, la verità storica, trovi la sua piena conferma più che nell’esplicitazione dei singoli interventi di restauro che in ogni caso, non devono compromettere lo scrupolo del restauratore». Triplice il fine: «coerenza del messaggio figurativo; identità di un’opera architettonica, destinata per sua natura a resistere agli agenti atmosferici ed al deterioramento fisiologico; rinnovamento e consolidamento. Rappresentano condizioni irrinunciabili (per la durata nel tempo e nello spazio) delle forme e del significato di un monumento architettonico e cioè: della sua più genuina ed autentica realtà. Tuttavia diviene pericoloso riproporre la psicologia della progettazione (Viollet le Duc) e quindi strumentalizzare la Storia per mettersi nei panni dei costruttori medievali, magari correggendone gli errori…».
In riferimento e connessione a quanto già espresso sugli altri libri scritti da Giuseppe Caronia, emerge, confermandolo, il suo appassionato interesse per gli artefici della ‘storia’, non solo per i ‘classici’ della fase rinascimentale, ma anche per coloro che hanno costruito il ‘suo medioevo’ che quando approda all’arte, come diceva Goethe, si svela nella dignità della musica, scienza delle proporzioni armoniche governata dal numero. Architettura nel tempo, si riverbera nella musica nello spazio che è l’architettura. Come mi dice Paolo Emilio Carapezza, eminente musicologo, «le stesse proporzioni numeriche (armonia) reggono melos (altezza) e ritmo (lunghezza e larghezza) della melodia e dell’architettura». In Le pietre che cantano, titolo che mutua da quello del grande Marius Schneider, mette a fuoco tutto questo centrandolo nella restituzione armonica delle pietre della Zisa nel loro farsi architettura e decorazione. Nella loro figuratività infine sorella della musica, di quest’arte mirabile il cui senso Giuseppe Caronia trasferiva nel suo indagare progettuale e la cui bellezza aveva spesso condiviso con Antonello Neri, musicista che Elena, figlia anch’essa, aveva sposato.
Dal profondo dell’inconscio? Mini-bilancio in tarda età
«Il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me». La nota autobiografica di Kant, la fece sua nutrendolo, da architetto e storico, anche il greco e l’arabo. Li vedeva anche nel ‘suo amato cielo’ che chiamava “meticcio” – così mi disse un giorno – cogliendovi l’insieme molteplice e multiforme di plurime culture. Austerità e rigore hanno avuto dimora nella sua vita. Ma c’era anche una certa propensione verso la mondanità a contraddirli. Si confrontava così con gli altri e lo faceva con un voluto affabulare, senza però perdere la consapevolezza dei propri limiti. Li individuava principalmente nelle intemperanze caratteriali. Le percepiva ma non per questo le eliminava. Forse nemmeno voleva. Cenni su esse me li fece nei nostri ripetuti incontri romani, quando andavo spesso in autunno inoltrato alla sua casa-studio, percorrendo via del Corso dove una pioggia fitta sembrava far camminare gli ombrelli.
Mi appariva ora meno burbero e più aperto, con un muoversi e parlare che a me sembrava derivasse da quanto gli aveva dato la lunga immersione nel respiro della Zisa, nella musica delle sue pietre che così acquisivano forza rigeneratrice. Era quanto aveva ricevuto da quell’edificio straordinario: il senso di quel ritmo che aiuta a stabilire una autentica relazione con se stessi, con gli altri, con le cose tutte. Ma vi si univa anche il contagio con le prime avvisaglie saggie della vecchiaia. Emergeva più di un senso di colpa verso i figli tutti, individuandola nel carattere e nella assenza. E si commosse dicendomi che nonostante tutto questo, con calore lo festeggiavano e colme di interessate partecipazioni erano le romane gite domenicali. Ma ricordò anche il cogente rimprovero di Elena, ragazzina ancora, inviatogli in una lettera da Palermo a Roma dove, lo ripeto, Giuseppe lavorava e prevalentemente abitava, ritenendola attraversata da più significativi fermenti contagiati dal respiro europeo. Gli pareva che i suoi interessi, trovando conferma del loro esserci, avrebbero potuto cementarsi dando così alimento alla sua coscienza culturale e quiete all’iniziale ansia di comprendere quale strada avrebbe dovuto percorrere al fine di una sua propria significativa ricerca.
Ri-tornando al suo ricordare, vi coglievo una vera e propria introspezione. Mi consentiva di entrare in qualcosa di importante del suo spazio privato. E l’intimità che ne veniva, mi consegnò la certezza di una esigenza di condivisione. Gli anni di entrambi avevano annullato il tempo ed era come se Giuseppe Caronia e io appartenessimo alla stessa generazione e quindi non più lui professore e io studentessa. Percepivo di trovarmi di fronte qualcosa di importante, e quel momento mi sembrò di una profondità tale da farmi pensare che un tocco ‘magico’ gli appartenesse.
Un timido accenno dell’imbrunire si avviava a diventare sera quel giorno. Parlammo a lungo e il ricordo del suo raccontarsi, ma soprattutto del suo fare una sorta di bilancio di una lunga, direi frenetica, attività, non so perché, mi fece tornare in mente un suggerimento ultimamente letto di Roman Krznaric, filosofo polacco, Come essere un buon antenato (Edizioni Ambiente): «Comprendere che siamo un battito di ciglia nel tempo cosmico».
Il 28 dicembre del 1994, in un mattino carico di freddo, giunse la morte. Come avviene, penso, con ciascun essere umano, portò con se l’inafferabilità del senso autentico di Giuseppe Caronia, uomo e architetto: luci, penombre, ombre e oscurità della sua anima.
L’anno dopo la famiglia ha donato l’archivio – che ne documenta l’attività professionale dal 1937 – alla Facoltà di Architettura aggiungendosi in tal modo a quello del padre Salvatore. Nel 2016 – 12 luglio-10 settembre – gli rendono omaggio mostre e convegno: “La progettazione come attività integrata di professionismo e cultura” promosso dal DARC insieme all’Ordine degli Architetti di Palermo. Franco Miceli, allora presidente, lo definì «di una modernità rassicurante, austera e formale, certo, ma padrona delle regole compositive del “buon antico”». Condivido, aggiungendo in lui la concretezza che è anche della vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Fonti
Archivio di Giuseppe Caronia; Fondi DARC UNIPA; interviste a Giulia, Elena e Luigi Caronia; Confronti con l’architetto Vittorio Noto sul restauro del Palazzo della Zisa. A ciascuno di loro un partecipato grazie.
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Antonietta Iolanda Lima, architetto, già professore ordinario di Storia dell’Architettura presso l’Università di Palermo. Sostenitrice della necessità di pensare e agire con visione olistica, sua ininterrotta compagna di vita, è quindi contraria a muri, separazioni, barriere. Per una architettura che sia ecologica, sollecita il rispetto per l’ambiente e il paesaggio, intrecciando nel ventennio ‘60-‘70 l’elaborazione progettuale, poi dedicandosi alla formazione dei giovani. Ad oggi continua il suo impegno a favore della diffusione della cultura e di una architettura che si riverberi positivamente su tutti e tutto: esseri umani, animali, piante, terra; perché la vita fiorisca. Promotrice di numerose mostre ed eventi, è autrice di saggi, volumi e curatele. Tra essi, qui si ricordano: L’Orto Botanico di Palermo, 1978; La dimensione sacrale del paesaggio, 1984; Alle soglie del terzo millennio sull’architettura, 1996; Frank O. Gerhy: American Center, Parigi 1997; Le Corbusier, 1998; Soleri. Architettura come ecologia umana, 2000 (ed. Monacelli Press, New York – menzione speciale 2001 premio europeo); Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia. Fonti e documenti inediti XVI-XVIII sec., 2000; Monreale, collana Atlante storico delle città Europee, ital./inglese, 2001 (premio per la ricerca storico ambientale); Critica gaudiniana La falta de dialéctica entre lo tratados de historia general y la monografìas, ital./inglese/spagnolo, 2002; Soleri; La formazione giovanile 1933-1946. 808 disegni inediti di architettura, 2009; Per una architettura come ecologia umana Studiosi a confronto, 2010; L’architetto nell’era della globalizzazione, 2013; Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo. Significato e valore di una presenza di lunga durata, 2016, voll. 2; Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici Architettura dei Pica Ciamarra Associati, 2017 (trad.ne inglese, Londra e Stoccarda, Edit. Mengel; Bruno Zevi e la sua eresia necessaria, 2018; Giancarlo De Carlo, Visione e valori, 2020; Frugalità Riflessioni da pensieri diversi, 2021. Il suo Archivio è stato dichiarato di notevole valore storico dal Ministero dei Beni Culturali.
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