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Progresso, gerarchia, evoluzione e – mannaggia – potere

 Melville Herskovits

Melville Herskovits

di Pietro Vereni 

Leggendo le riflessioni di Fabio Dei su Dialoghi Mediterranei di settembre 2024, non sono riuscito a trattenere una serie di considerazioni che vorrei condividere. Non si tratta di critiche (condivido nella sostanza tutto quello che Fabio ha scritto) ma piuttosto di implicazioni e conseguenze che io considero tali, e che invece non è affatto detto che siano condivise da chi concorda con Fabio. Il mio è insomma una specie di spin-off dal testo che ho letto (se fosse un video, sarebbe un reaction), e non mi aspetto che trovi necessariamente il consenso di colui che quel testo originario ha scritto.

«C’è qualcosa che non convince», dice giustamente Fabio, nella retorica della nostra disciplina quando nega qualunque valore al concetto stesso di “progresso”, da decenni liquidato come prospettiva esclusivamente etnocentrica e occidentale – un’ideologia folk da bianchi colonialisti – che non merita neppure la dignità di serio oggetto d’indagine. La scaturigine di questo “qualcosa” poco convincente è senz’altro l’esasperazione del relativismo etico, che entra in contraddizione con l’universalità dei diritti. Dallo statement di Melville Herskovits in poi, l’intento era (o avrebbe dovuto essere, non mi è più chiaro, di questi tempi) quello di denunciare l’intolleranza culturale a favore di quelle società e istituzioni che invece praticano la tolleranza e difendono la diversità. Quindi, deduce, Dei, l’antropologia aveva chiara la convinzione che si possano e anzi si debbano individuare culture migliori e culture peggiori.

Abbiamo dunque, noi antropologi, una “qualche diversa concezione di progresso”? Non sono sicuro che lo statement (e tutta l’antropologia che vi si appoggia) possa realmente essere concepito in questo senso. Il “progresso” implica infatti un qualche tipo di movimento, di trasformazione, di cambiamento da una condizione peggiore a una migliore, mentre Herskovits sembrava piuttosto proporre una classificazione o un ordinamento delle culture sulla base della loro relativa tolleranza, e pone in testa quelle considerate più rispettose della diversità.

Storicamente, l’antropologia culturale (e insisto sull’aggettivo, molto statunitense nella sua genesi) ha faticato a concepire qualche idea di progresso come movimento, per via della radice idealista a cui si è abbeverata da quando Boas ne piantò i virgulti per contrastare il determinismo biologista e razzista che dominava lo studio della diversità materiale (cfr Stocking 1974; 1985). Le culture sono state piuttosto concepite come nuclei herderiani (e ben presto financo mazziniani), accumuli visibili della creatività dello Spirito nei diversi contesti geografici e sociali. Quel che l’antropologia culturale ha sempre preteso di dimostrare (pena l’accusa di determinismo) è stata la fondamentale libertà della creatività culturale, con l’unica, seppure mastodontica, eccezione del marxismo, che si è intrufolato nella teoria antropologica con il suo ingestibile determinismo economicista, variamente declinato nel proliferare di più o meno ortodossi “modi di produzione”.

stolkingIl nucleo portante è rimasto così idealista, e prima di tutto anti-biologista, visto che la cultura è alla fine un prodotto dello spirito umano in certe circostanze materiali, come diceva Lévi-Strauss quando ancora gli toccava dichiararsi “di sinistra” [1], e non può certo essere ridotta alla nostra condizione animale (questa seconda, correlata, accusa potenziale di determinismo – o anatema anti-biologista – è divenuto un dogma nell’antropologia culturale dopo lo sfacelo morale della Seconda guerra mondiale).

È vero, cioè, che il tradizionalismo e il degenerazionismo sono “di destra” nelle scienze sociali, solo a patto di riconoscere che il progressismo di cui vuole parlare Fabio è difficilmente collocabile in qualunque “sinistra”, a meno di non essere tuttora d’accordo con il Cesare Luporini che, nel 1950, polemizzava con De Martino per la sua fascinazione verso il mondo contadino “magico” e “primitivo” e che – diceva appunto Luporini – non riusciva a comprendere il valore del mondo operaio che, in quanto dotato di coscienza di classe e proteso verso la rivoluzione, era in possesso «di una dottrina di avanguardia, di una scienza di avanguardia, il marxismo, che è il prodotto più avanzato, più elevato del sapere umano, e non una cultura subalterna»(Luporini 1950: 87).

Intendo dire che dopo la fine dell’evoluzionismo e la scarsissima presa da noi del funzionalismo britannico (facilmente bollabile come “sociologista”), l’egemonia intellettuale del marxismo nel secondo dopoguerra ha prodotto il curioso effetto di confondere l’idea di progresso con quella di rivoluzione, anche se dovrebbe essere chiaro a tutti, in particolare agli antropologi, che progresso e rivoluzione troneggiano su due campi semantici rivali, e su due spazi morali di fatto antitetici (cfr. Thomassen 2014).

In questa luce, la destra e la sinistra sono accumunate da un medesimo disprezzo per le miserie del presente, con la destra (ossessionata dalla Tradizione) a rimpiangere il passato; e la sinistra (con il triste mito della Rivoluzione) a prevedere (scientificamente, ci mancherebbe) le meraviglie del futuro. Una volta che ci si è dovuti arrendere all’evidenza (il futuro sognato dai nostri intellettuali “progressisti” era di fatto l’incubo presente di molte zone del pianeta liberate dall’oppressione capitalista), non è rimasto alla sinistra null’altro che l’amarezza per il presente, e quindi si è potuta “recuperare” (dice Fabio Dei, ma forse sarebbe più preciso ammettere: legittimare finalmente) anche a sinistra il «repertorio anti-progressista della destra».

coverQui Pinker e Graeber possono entrare in scena come i dioscuri di una crisi annunciata. Il primo ha gioco fin troppo facile nello smascherare l’anti-progressismo della sinistra con i suoi ripetuti “ve l’avevamo detto, noi moderati” che cioè la china della rivoluzione, una volta consunta, non poteva che lasciare spazio alla palude del wokeism, dell’anti-specismo, della menzogna sistematica e della rottamazione di qualunque ragionevolezza, altro che Ragione. Il secondo, invece, che di quella sinistra utopista e sovversiva era figlio con tutti i blasoni, si è dovuto rifugiare in un passato mitologico, quando faceva lo studioso, o arrendersi all’idea che l’anarchia si potesse realizzare solo in microscopici spazi protetti, qualche Occupy, qualche tenda stagionale in un campus progressista, qualche cottage sperduto del fuoricorso fricchettone ma figlio di papà.

Non insisto sulla lieve soddisfazione che mi ha dato leggere di Fabio Dei, obtorto-quantunque-collo, trovare qualche consonanza con Steven Pinker. Dopo aver chiarito la distanza intellettuale incolmabile che li separa, Dei deve riconoscere che Pinker dice il vero quando dimostra con facilità che la povertà non è più quella di una volta e che, addirittura, il sistema capitalista (anzi: il neoliberismo!) «ha prodotto benessere per masse di persone» e che quindi quel modello è tutt’altro che fallito perché quel benessere è in gran parte garantito da condizioni di vita migliori anche sul piano morale.

Mi interessa di più una excusatio non petita di Fabio a proposito di Graeber, perché mi permette di andare al punto di queste mie righe: “Graeber non è mai stato un antimodernista”. Ecco, qui credo si annidi un punto cruciale: chi ha mai accusato Graeber di essere antimodernista? In tutta la sua opera, e in modo sempre più evidente nei tre ponderosi snodi teorici della sua carriera (Debito, Il potere dei re, L’alba di tutto), Graeber attacca non tanto la modernità, quanto piuttosto l’idea stessa di un potere umano che produce gerarchia. Un’idea, in verità, che lui vede incarnata nella sua forma più diabolica nel sistema politico-economico che chiamiamo capitalismo occidentale. Non c’è bisogno di essere antimodernisti per pensare, come Graeber, che viviamo nel peggiore dei mondi possibili, e che possiamo al massimo barricarci in qualche Mompracem dell’anarchia, lasciando che il resto vada a ramengo. Per pensarla così, basta essere radicalmente anti-occidentali e simpaticamente nietzschiani, vale a dire nichilisti con il sorriso (che facilmente si torce in ghigno).

hollandIl nesso tra modernità e razionalità, che Fabio Dei riconosce essere la carta vincente dell’argomentazione di Pinker, si basa però purtroppo su una premessa fallace, che cioè quella modernità sia divenuta razionale a discapito del pensiero religioso giudaico-cristiano. Senza scomodare di nuovo Benedetto Croce e il suo Perché non possiamo non dirci Cristiani (e liberandoci una buona volta di Nietzsche e della sua menzognera Genealogia della morale), abbiamo ormai sufficienti dati storici per sostenere piuttosto l’idea di fatto opposta, che cioè la razionalità occidentale ha la sua radice nel pensiero cristiano (Holland 2019) e che l’Occidente capitalista ha progressivamente smesso di essere razionale quanto più smetteva di essere fedele alla sua visione del mondo improntata dal Cristianesimo come risultante dell’incrocio tra giudaismo e classicità. Nello spazio che mi rimane proverò a portare argomenti a favore di questo punto, perché mi pare che facendo luce in questa direzione sarà possibile sbrogliare almeno qualche nodo nella questione del progresso come è stata posta da Fabio Dei.

Nel modo in cui l’antropologia “laica” tratta i temi dell’antropologia religiosa si annida una parte significativa della questione, vale a dire la natura “culturale” dell’antropologia culturale e l’errore teoretico di identificare progresso e rivoluzione. Man mano che l’antropologia culturale si pensava sempre più nettamente progressista e l’antropologia religiosa consolidava il suo tradizionalismo, ha trovato sempre meno spazio quel pensiero moderato o “centrista” che invece aveva fatto nascere l’antropologia come scienza moderna, contro gli irrazionalismi, i finto-razionalismi e le razionalizzazioni di destra e di sinistra. Il filone evoluzionista che aveva generato quell’antropologia (allora più sociale che culturale, animata più da archeologi e giuristi che non filosofi o letterati) – per il quale aveva senso parlare di progresso senza pensare che fosse anatema – è tornato a presentarsi come paradigma teorico e di ricerca nelle scienze sociali (questa volta sotto il primato della psicologia sociale, dell’economia comportamentista e della primatologia) offrendo nuovo vigore e nuovo spessore epistemologico alle scienze naturali dell’uomo con la rivoluzione genetica.

La scoperta del codice genetico ha collegato per sempre biologia, evoluzione e informazione nel quadro della cibernetica. La genetica ha così ridato senso al concetto di evoluzione, che a sua volta ha liberato spazio per una rinnovata concezione di progresso, ora ancorabile nella saldezza materiale dell’adattamento. La biologia evolutiva e presto la psicologia evolutiva sono potute uscire dalle nebbie dei miti di fondazione (l’orda primitiva; il matriarcato; la catena dell’essere; il buon selvaggio, homo homini lupus, eccetera) per divenire discipline in grado di formulare ipotesi testabili. Studiosi come Stephen Jay Gould e Richard Lewontin hanno liberato la biologia dal suo destino meccanicista e le scienze umane dalle pastoie dell’idealismo culturalista che doveva fare a meno del corpo biologico per spiegare la vita umana, rifugiandosi nel dannato «corpo come rappresentazione» [2].

La genetica (e non il genetismo, che sperava di spiegare le ragioni della varietà dei comportamenti umani individuando il “gene dell’alcolismo” o “del crimine” con la stessa ingenuità con cui la frenologia cercava il bernoccolo di qualunque caratteristica umana) ha costretto la porzione degli studiosi di scienze sociali meno ossessionata dalla politica e più interessata alla conoscenza del mondo a mettere veramente in gioco le proprie competenze sul funzionamento del linguaggio, del dispositivo simbolico e della naturale socievolezza degli esseri umani. “L’interazione uomo-ambiente” è diventata quel che doveva essere, un programma di ricerca e non un flatus vocis dietro cui nascondere la nostra mancanza di comprensione dei fenomeni sociali.

L’epigenetica, poi, ha confermato quel che Boas poteva solo intuire e verificare empiricamente, vale a dire che il destino delle culture non è segnato dalla geografia, ma si realizza nella geografia, vale a dire in contesti specifici, come risposta più o meno adattiva, più o meno efficace. Questa risposta originariamente sorta per ragioni adattive può trascinarsi altrove nel tempo e nello spazio grazie a quella isteresi dell’habitus compresa da Pierre Bourdieu, ma tale spostamento implica qualche forma di – ecco la parola magica – evoluzione o involuzione adattiva.

È solo dentro questa concezione evolutiva della cultura che il concetto di progresso riprende ad avere un senso. La sinistra e la destra, come abbiamo detto, sono state entrambe ossessionate dal rifiuto del presente, mentre questo “centro” della scienza evolutiva è piuttosto neutro nella sua valutazione morale di qualunque periodo storico, e preferisce concentrarsi sulle dinamiche del mutamento: piuttosto che vedere il tempo come un punto da detestare (presente), rimpiangere (passato) o cui agognare (futuro), l’approccio evolutivo vede il tempo come una sequenza di passaggi, vale a dire linee di mutamento. Il suo sguardo non pregiudizievole sulle condizioni del qui e ora (che sono solo due disposizioni spazio-temporali tra le infinite documentabili) consente a questa prospettiva di evitare gran parte delle seduzioni metaforiche tramite cui l’Altro è troppo spesso filtrato dalle prospettive che tengono di fatto lo sguardo fisso sulla terribile condizione attuale.

Ecco allora che si può parlare (di nuovo o, finalmente, davvero per la prima volta) di progresso perché si è spostato il fulcro dell’attenzione. La destra leggeva il progresso come una finzione consolatoria rispetto all’evidente degenerazione del presente; la sinistra rivoluzionaria lo confondeva con il ribaltamento dello stato di cose, a qualunque costo; il radicalismo anarcoide di moda oggi vede il progresso come la costruzione e la salvaguardia di bolle sociali via via più omogenee internamente e di raggio sempre più ristretto.

L’unica antropologia che possa parlare sensatamente di progresso è allora una disciplina che ha, da un lato, un’unità di misura cognitiva (vale a dire gli strumenti per registrare adeguatamente azioni e pratiche umane); e dall’altro ha un’unità di misura morale, che consenta, almeno per alcuni ambiti di pratiche, di dire ciò che è bene e ciò che è male. Hic Rodus, hic salta: le scienze sociali (e prima di tutte la scienza professionista nelle diversità culturali) devono raccogliere la sfida che il concetto di progresso pone agli esseri umani. Se cioè ci interessa ancora ragionare sul concetto di progresso e utilizzarlo come strumento di lavoro (ed è un “se” grande come una casa, me ne rendo conto) dobbiamo dire le cose come stanno, che cioè non possiamo più credere alla finzione che Fabio deve porre come petizione di principio: «Né Dio né l’epistemologia possono offrire soluzioni esterne o neutrali rispetto a specifiche tradizioni culturali o morali».

Possiamo cioè decidere di non avere un metro cognitivo e un metro morale uniformi, ma questo implica ammettere che non possiamo più domandarci seriamente cosa sia quel “qualcosa che non ci convince” quando ci viene detto che «non è legittimo trovare un accordo su un criterio di valutazione qualitativa delle culture».

Se invece pensiamo (scegliamo) che questa valutazione sia legittima, non possiamo cavarcela aggiungendo il corollario che il metro di giudizio non debba essere esterno, perché se compariamo culture per valutarle, quale che sia il tratto da comparare, il metro non può che essere lo stesso tra le diverse culture in esame, e quindi necessariamente esterno a tutte.

Per sintetizzare la mia argomentazione fin qui: il disagio che molti (anche antropologi) provano di fronte al relativismo morale e al costruttivismo radicale (quel “qualcosa che non convince”) si può gestire (non dico risolvere, mi accontento di parlarne senza finzioni) solo se accettiamo un metro transculturale. Solo un’unità di misura comune consente infatti di esplicitare il contenuto di quella comparazione da cui nasce il disagio, dato che il disagio resta una sensazione inarticolata fin quando non trova modo di esprimersi in una sequenza ordinata di enunciati. Insomma: per poter affrontare in modo non impressionistico e non patemico quella mancanza di convincimento abbiamo bisogno di esplicitare l’atto comparativo, cioè dobbiamo misurare (anche solo qualitativamente: questo è migliore, questo è peggiore) qualche differenziale.

Per articolare quindi il senso di disagio e riuscire a farne un contenuto comunicabile, dobbiamo accettare qualche metro non locale. “Accettare” – ecco il punto critico – significa riconoscere in linea di principio l’eventualità che vi sia qualche tipo di gerarchia di pratiche e di valori in cui l’Occidente non sia preventivamente al fondo della scala di misura che abbiamo adottato. Se hai diverse scatole di bastoncini di diverso colore, e vuoi essere sicuro che, per ogni scatola, quello bianco sia sempre e per forza il più corto, il metodo migliore da adottare è quello di non avere alcuna unità di misura, o di dire che non esiste un’unità di misura che valga per misurare tutti i bastoncini. Se infatti decidi per questa o quella unità di misura, potrà sempre accadere che, per qualche scatola, il bastoncino bianco non sia il peggiore…

Non convince (o almeno: non mi convince, e vedo e sento di non essere proprio da solo in questo mio disagio) il pregiudizio anti-occidentale che anima gran parte delle critiche a intellettuali come Pinker e delle lodi riservate sistematicamente a intellettuali come Graber. Non convince, in tutta la critica culturale, ancor più se comparata, il cilicio preventivo, e la fustigazione a prescindere di modi di vita e di sistemi di valori considerati null’altro che il prodotto secondario o il cascame di un modello economico aberrante, senza alcuna intenzione di vederli come il distillato complesso e dal cangiante sapore di una civiltà plurisecolare.

9788832855104_0_536_0_75Trovo insomma del tutto condivisibile la proposta di Fabio di aprire un «dibattito antropologico sul progresso» (anche se il Nanni Moretti che mi porto dentro avrebbe da ridire a questo proposito), ma mi chiedo se saremo mai davvero capaci di farlo, visto che non siamo molto chiari nell’articolare che cosa, sul serio, “non ci convince”, e i più di noi si contentano di una palude poco chiara di sensi di colpa inespressi o di spirito di rivalsa per procura.

Chiudo quindi con una provocazione. Possiamo iniziare a parlare di progresso (cioè di un movimento che induca qualche aspetto peggiore a divenire migliore) solo se abbiamo qualche tipo di gerarchia (cognitiva e morale, come dicevamo) e quindi suggerisco un ribaltamento induttivo per vedere se possiamo elaborare una nostra nozione di progresso discutendo di gerarchie interculturali su temi specifici: se la parità di genere è un valore, possiamo comporre una gerarchia tra culture su questo tema e dire, francamente, quali Paesi o culture sono più arretrati e quali più progrediti? Se la tolleranza per la diversità è un valore in sé (come insisteva la buonanima di Herskovits) possiamo stabilire se un Paese/una cultura/un sistema politico/un sistema ideologico è più o meno tollerante di altri? Se la libertà di espressione è un valore che possiamo usare come metro comparativo, possiamo dire in quali parti del mondo questo diritto trova con più difficoltà una sua espressione?

Finisco quindi collegandomi ancora all’ultimo Sahlins (2023), quello a suo modo “ontologico”, per chiedere provocatoriamente se c’è spazio per una riflessione non secolarista dei mondi culturali che studiamo: se le religioni (intese tranquillamente come sistemi culturali geertziani, non c’è bisogno di spingere troppo sull’acceleratore del relativismo, in questo caso) sono strutture discorsive che fondano valori e pratiche che hanno effetti generali sulle società in cui si riflettono, saremo mai in grado di proporre una gerarchia delle religioni misurata sul metro di quella “ragione umana” citata da Fabio alla fine del suo testo (ma chiaramente aleggiante in ogni riga, come radice ultima di quel “non mi convince” da cui era partito) come «strumento e garanzia della conoscenza pubblicamente condivisa»?

9788882340865_0_536_0_75Saremo cioè mai pronti, come antropologi, a fare i conti una buona volta con quella “motivazione esterna” che molto chiaramente Simonicca e Dei (1998) avevano individuato come la ragione predominante dell’attenzione critica degli antropologi per la religione fin dall’evoluzionismo? Riusciremo cioè a comprendere che la vis polemica anti-cristiana con cui gli evoluzionisti si sentivano obbligati ad attaccare le istituzioni religiose e il loro dogmatismo (siamo all’alba del darwinismo e della sua schiacciante vittoria intellettuale) non ha più ragion d’essere in un mondo che chiamiamo post-secolare (Casanova 2013) anche e soprattutto perché l’emergere di una epistemologia e di una logica di ricerca neo-intellettualista non consente più di usare corrivamente “la religione” come trucco ipnotico del potere ma ne ha finalmente messo in luce il valore di strumento cognitivo basilare?

Se la religione non può più essere liquidata come retaggio di un modo primitivo o almeno ingenuo di pensare, ed è invece vista in relazione dialettica con la ragione e con la politica, di cui può essere, a seconda dei contesti e dei tempi, alleata o nemica, avremo allora il coraggio di proporre gerarchie di religioni più o meno progredite, almeno su specifici temi (diritti umani, libertà individuali, utilizzo degli strumenti di ragione come il pensiero argomentato)?

bergerSe c’è una cosa che “convince” molto poco, che convince anzi sempre meno, quanto più le nuove tecnologie di archiviazione e soprattutto di retrivial consentono di maneggiare corpora di testi dottrinali un tempo riservati a una ristretta casta di esperti (Patristica, Tafsir e Hadit, Talmud, commentari dei Veda come i Brāhmana e gli Āraņyaka) è proprio l’idea banale e ottocentesca che “la religione” sia una disposizione umana dettata dalla paura e/o dall’ignoranza e che “la ragione” consentirebbe di aggirare quella disposizione se non di superarla del tutto. È arrivato forse il momento di fare i conti con queste concezioni ingenue della religione e ricominciare, anche noi antropologi, a parlare di religioni al plurale, che possono essere confrontate e comparate su diverse scale.

Abbiamo bisogno di un nostro Peter Berger, che abbandoni le secche del secolarismo e del costruttivismo radicale (Berger, Luckmann 1969) per transitare verso una valutazione più onesta della dimensione morale della fede (Berger 2008), vale a dire meno livorosa e meno gonfia di etnocentrico anticlericalismo. Oppure abbiamo bisogno di un nostro Robert Bellah (2017), in grado di confrontarsi sul serio in tarda età con il concetto di evoluzione e applicarlo alla religione, per comprendere che il secolarismo, signora mia, non può più essere quello di una volta.

Solo quando avremo superato lo scoglio del pregiudizio anticristiano (che è la versione trascendente dell’immanentissimo antioccidentalismo per partito preso) avremo abbastanza strumenti concettuali e metodologici per reintrodurre il concetto di progresso nella nostra cassetta degli attrezzi, andandolo finalmente a ripescare, giustamente pentiti, nel secchio della spazzatura della storia, dove l’avevamo troppo frettolosamente gettato. 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
Note
[1] Si veda come demoliva questa posizione finto-marxista, ad esempio, Carlo Tullio-Altan (1966).
[2] Racconta Camille Paglia in una interessante conversazione con Jordan Peterson registrata nel 2017 (https://youtu.be/v-hIVnmUdXM?si=r_1Q0JkLknI1F7QE) che nei dipartimenti di Women studies che si iniziavano ad aprire nei college americani degli anni Settanta venne esclusa a priori l’eventualità di assumere docenti con una formazione medica o biologica, proprio per non dare spazio ad alcuna forma di “determinismo biologico”. 
Riferimenti bibliografici
Bellah, R.N. 2017, Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age, Cambridge - New York, Harvard University Press.
Berger, P. 2008, Questions of faith: A skeptical affirmation of Christianity, John Wiley & Sons.
Berger, P. L., Luckmann, T. 1969, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il mulino.
Casanova, J. 2013, Exploring the postsecular: Three meanings of” the secular” and their possible transcendence London, Polity Press.
Holland, T. 2019, Dominion. How the Christian revolution remade the world, Basic Books, New York.
Luporini, C. 1950, “Intorno alla storia del mondo ‘popolare e subalterno’”, ristampato in P. Clemente, M.L. Leoni, M. Squillacciotti, Il dibattito sul folklore in Italia, Edizioni di cultura popolare, 1976: 82-92.
Sahlins, M. 2023, La nuova scienza dell’universo incantato. Un’antropologia dell’umanità (quasi tutta), Milano, Raffaello Cortina Editore.
Simonicca, A., Dei, F., 1998, Simbolo e teoria nell’antropologia religiosa, Lecce, Argo.
Stocking G. (ed) 1974, The shaping of American Anthropology, 1883-1911: a Franz Boas reader, New York, Basic Books.
Stocking G. 1985, Razza, cultura e evoluzione. Saggi di storia dell’antropologia, Milano, Il Saggiatore.
Thomassen, B. 2014, “Liminal Politics. Towards an Anthropology of Political Revolutions”, in Liminality and the Modern. Living Through the In-Between, London, Routledge.
Tullio-Altan C. 1966, “Strutturalismo e funzionalismo in Lévi-Strauss”, Studi di sociologia, IV, 4: 368-386. 
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Pietro Vereni, professore associato di Antropologia culturale nell’Università di Roma “Tor Vergata”, insegna «Urban & Global Rome» nel campus romano del Trinity College (Hartford, Connecticut). Dal 2018 è abilitato di prima fascia nel settore M-DEA/01 Discipline Demoetnoantrologiche. Ha effettuato ricerche sul campo sul confine della Macedonia occidentale greca (1995-97) e sul confine irlandese (1998-99). Si è occupato di antropologia politica e delle identità e antropologia dei media, e attualmente conduce ricerche di antropologia economica sulla diaspora della paternità bangladese, sul sistema carcerario in Italia, sulla diversità religiosa a Roma e sulla funzione politica delle occupazioni a scopo abitativo. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: “Come si rimane. Diaspore religiose e strategie di permanenza culturale”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, Rivista trimestrale, 1/2020. “Il nodo gordiano e il filo di Arianna. La forma dello spazio nella crisi del Covid-19”, in Documenti geografici, 1 (ns), gennaio-giugno 2020. “De consolatione anthropologiae. Conoscenza, lavoro di cura e Covid-19”, in F. Benincasa e G. de Finis (a cura di), Closed. Il mondo degli umani si è fermato, Roma, Castelvecchi, 2020; Perché l’antropologia ci aiuta a fare politica (e a vivere meglio), Roma, Castelvecchi, 2021.

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