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Proprietà Intellettuale e Cambiamento Climatico: riflessioni su uno sviluppo economico del futuro

FOTO Centrale a carbone in Indonesia (ph. Kemal Jufri, per Greenpeace)

Centrale a carbone in Indonesia (ph. Kemal Jufri, per Greenpeace)

di Giovanni-Clemente Rossi 

Cambiamento climatico e trasferimenti tecnologici 

L’arrivo inevitabile del cambiamento climatico, anticipato dagli attuali disastri ambientali che caratterizzano in special modo il cosiddetto Sud Globale, ci pone di fronte a una serie di questioni che mettono in discussione i nostri modelli di sviluppo economico e, in particolare, il rapporto tra investimento pubblico e privato per il finanziamento di energie rinnovabili, infrastrutture, trasporti e ripristino del territorio [1].

All’interno del dibattito politico ed economico contemporaneo emerge un marcato interesse per i trasferimenti tecnologici (chiamati anche TT) nel contesto della protezione della proprietà intellettuale. I TT costituiscono il processo attraverso il quale tecnologie, metodi, prototipi – di vario genere e uso – vengono condivisi e resi accessibili così da contribuire allo sviluppo di prodotti, applicazioni, servizi ecc. che sono di interesse per una ampia fascia della società.

In breve, nel Nord Globale questi – seppur claudicanti – tentativi di transizione verso un’economia più verde sono caratterizzati principalmente da pacchetti di politiche industriali costituiti da sussidi statali e incentivi, per stimolare lo sviluppo tecnologico e la produzione, sussidi che sono necessari per decarbonizzare l’economia [2]. I tentativi di eliminare gradualmente l’utilizzo dei combustibili fossili da parte di Paesi del Sud Globale devono fare affidamento su riforme in grado di attirare investimenti privati. L’esempio dell’Indonesia [3], uno dei maggiori emettitori di CO2 al mondo, è emblematico visti i tentativi del Paese di ridurre le emissioni. Il passaggio da centrali a carbone a basso costo ad energie rinnovabili richiederebbe, secondo recenti stime, l’investimento di circa 1,2 trilioni di dollari da oggi al 2050. Cifra al di fuori della portata dell’Indonesia che, come altri Paesi, dovrà operare una serie di riforme per eliminare gradualmente il carbone ed incentivare investimenti esteri che possano coprire parte delle spese necessarie alla transizione.

La recente emissione di un’obbligazione dal valore di 500 milioni di dollari da parte del Climate Investment Funds (CIF), organismo nato nel 2008, fa parte del tentativo di investire in economie in via di sviluppo. L’obiettivo è quello di stabilire più fonti di finanziamento in modo tale da superare instabilità politiche come quelle che la presidenza Trump causerà nella lotta contro il cambiamento climatico [4].

Infatti, le ristrettezze economiche che caratterizzano il Sud Globale fanno sì che le politiche industriali statali non siano attuabili per mancanza di risorse. Di conseguenza i Paesi del Sud devono affidarsi ad approcci normativi per ricevere investimenti esteri, tramite varie forme di partnership, tali da garantirsi il trasferimento delle conoscenze necessarie agli attori economici per innovare e risalire la catena del valore. Questo è stato per l’appunto l’approccio utilizzato da Paesi come Giappone, Corea e Taiwan; che, nella seconda metà del Novecento, erano tra le economie in più rapido sviluppo nel Sud Globale. Questi Paesi regolamentarono le attività delle imprese multinazionali per garantire il trasferimento di tecnologie e la creazione di circoli virtuosi che consentirono una diffusione più capillare delle informazioni dal Nord al Sud. In questo contesto i TT danno modo a questi Paesi di beneficiare dei più recenti sviluppi tecnologici facendo affidamento a forme di cooperazione che consentono, nei casi più riusciti, una costruzione di relazioni e di dinamiche politiche ed economiche virtuose che possono andare anche al di là del mero scambio di informazioni. I TT, tuttavia, vengono spesso contestati riguardo alla questione della proprietà intellettuale (PI) soprattutto dai Paesi del Nord Globale, con gli Stati Uniti in testa. Per spiegare le ragioni del disaccordo è importante riflettere su cosa è la PI ed inserire il dibattito all’interno del suo contesto storico. 

Tra gli anni ’80 e ’90 – all’interno dei GAAT agreement, ovvero gli accordi internazionali che dal dopoguerra hanno stabilito la liberalizzazione del commercio mondiale, vennero inseriti accordi per la diffusione di regole comuni sulla proprietà intellettuale. Secondo gli accordi i Paesi del Sud globale – sostengono i critici – si sono impegnati a rispettare i diritti della proprietà intellettuale.

Secondo il dogma neoliberista, la protezione della PI garantisce ai creatori un vantaggio competitivo che serve ad assicurare profitto alle loro invenzioni. Quando le aziende investono in ricerca e sviluppo possono ottenere brevetti, copyright, o marchi che danno loro un vantaggio sui concorrenti. Spingendo le imprese rivali a sviluppare alternative o miglioramenti che possano superare ciò che è stato già brevettato, promuovono così la competizione all’interno del mercato e, di conseguenza, un costante sviluppo tecnologico. La condivisione di tecnologie, tramite licenze obbligatorie ad esempio, viene vista come un’ingerenza nelle logiche di mercato che può disincentivare le aziende ad investire nella ricerca e portare meno guadagni. Per questo motivo, i trasferimenti tecnologici vengono considerati un processo che in qualche modo ostacola la competizione e che quindi dovrebbe essere penalizzato. La relazione, considerata spesso causale e diretta, tra proprietà intellettuale ed innovazione scientifica è stata messa in dubbio da numerosi ricercatori [5], che dimostrano come grandi cicli di innovazione scientifica siano fondamentalmente contingenti rispetto alle circostanze storiche, economiche e politiche. Questa relazione costituisce la base discorsiva che giustifica gli accordi relativi alla PI. 

Firma dell'accordo di Marrakesh dove il Trips fu ratificato, 1995 (photo WTO)

Firma dell’accordo di Marrakesh dove il Trips fu ratificato, 1995 (photo WTO)

Storicizzare la proprietà intellettuale 

La PI viene regolata attraverso un regime di “diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio” (TRIPS agreement o TRIPS in breve). L’ accordo, firmato nel 1995, ha definito un programma ambizioso per allineare le protezioni nazionali della proprietà intellettuale ai parametri globali. Il sistema, sostenuto dai Paesi del Nord Globale, ha avuto un ampio successo nel diffondere questo tipo di protezioni in tutto il mondo. Ma ha anche soffocato l’aggiornamento tecnologico nel Sud globale, aumentando i costi di acquisizione tecnologica e attirando su di sé quindi numerose critiche da parte dei Paesi del Sud. 

Il modello che caratterizza le politiche economiche neoliberiste rende evidenti le tensioni che si sviluppano tra quella che Wallerstein definisce “la duplice realtà del capitalismo storico” [6] ovvero: la concorrenza e il monopolio. Possiamo capire quindi come la PI si situi, nell’economia post-fordista, in mezzo a questi due poli in costante tensione tra di loro. La PI, creando una forma di scarsità artificiale, dovrebbe motivare gli attori economici a competere, il che, secondo la prassi neoliberista, favorisce l’innovazione e la crescita. Tuttavia, lo stesso meccanismo facilita la “natura” competitiva di questi attori che tendono a ricorrere a varie strategie di concorrenza sleale che finiscono per creare nel tempo monopoli. Si crea così un circolo vizioso in cui la concorrenza e il monopolio si alternano e si intrecciano all’interno in un ciclo paradossale.

Proprio il processo che ha portato alla nascita del GAAT Agreement e di conseguenza del World Trade Organization mette in evidenza le criticità storico-politiche della PI nel rapporto tra least developed countries, così definite dal World Trade Organization (WTO), e le loro controparti. Un rapporto che rimane ancora oggi gerarchico e di forte subalternità. Castells definisce “informationalism” o “informazionalismo” [7], il momento nel quale il management e il controllo di “data” diventano fondamentali nel processo economico. Questo costituisce precisamente il periodo di transizione tra gli anni ’80 e ’90.

Infatti, l’internazionalizzazione della concorrenza in quel periodo, evidente nell’emergere di nuove regioni di potere economico e di flussi commerciali, fu legata proprio all’uso dell’informazione. Alla fine degli anni della Presidenza Carter numerosi report che arrivavano alla Casa Bianca offrivano spiegazioni per il declino dei profitti dell’economia americana. Queste ultime vertevano principalmente sulla relazione tra ricerca e sviluppo, il settore privato e la proprietà intellettuale [8]. Senza i diritti di proprietà intellettuale, ciò che gli Stati Uniti producevano in termini di ricerca era facilmente replicabile da parte dei rivali economici, con maggiore efficienza e a costi inferiori. Semplificazioni storiche diventano miti che influenzano la narrazione pubblica. Il modello Fordista nordamericano era stato superato dal cosiddetto modello post-Fordista giapponese. Negli Stati Uniti questo tema veniva discusso come il problema dei “free rider” ovvero di coloro che beneficiano, in questo caso, di dati e informazioni senza tuttavia pagarne i costi. Esplicitando un’interpretazione politico-economica di gioco a somma zero che caratterizzava e caratterizza l’approccio dominante all’interno del sistema neoliberista.  

Per mantenere la competitività delle imprese statunitensi, gli Stati Uniti hanno legato i diritti di proprietà intellettuale ad accordi commerciali, firmando nel 1994 l’accordo TRIPS nell’ambito del GATT e di quello che oggi è il WTO, ristabilendosi così come potenza economica globale. Questo fu possibile grazie a programmi assistenziali come quelli dell’US Agency for International Development (USAID), che offrirono assistenza economica ai Paesi segnatari, e facendo leva sulla dipendenza degli stessi dal mercato americano, – che così potevano beneficiare di esenzioni dai dazi doganali [9]. Sfruttando questo sistema di incentivi, minacce, e influenza gli Stati Uniti sono stati capaci di negoziare accordi estremamente favorevoli per le proprie multinazionali.

Nel corso degli anni sono state sviluppate, in caso di necessità, strategie per aggirare o bypassare queste restrizioni. Emblematica in questo senso è stata la battaglia per l’utilizzo di tecnologie mediche durante la crisi dell’AIDS/HIV. Tuttavia, come per i TT, l’utilizzo di forme di flessibilità della PI come le licenze obbligatorie – per le quali si è a lungo combattuto – è stato comunque fortemente scoraggiato nel corso degli anni da partner commerciali e compagnie farmaceutiche. Questi esempi mostrano come l’utilizzo di soft power americano all’interno di relazioni internazionali contribuisca alla creazione di uno spazio di manovra estremamente ristretto all’interno del quale i Paesi del Sud Globale possono operare. Da un lato possiamo osservare una liberalizzazione del commercio globale, dall’altro notiamo come questa sia fortemente condizionale e basata su chiare gerarchie di potere. 

Proteste per il taglio dei fondi di USAID Melody Schreiber per il Guardian

Proteste per il taglio dei fondi di USAID Melody Schreiber per il Guardian

Prospettive future: Trump e protezionismo 

Questa breve discussione sulla questione dei TT e della PI mostra quindi come il gioco della politica internazionale sia fortemente condizionato da un modello di relazioni sociali antagonistiche e gerarchiche. Il mancato riconoscimento del cambiamento climatico come minaccia per l’esistenza umana ostacola i tentativi di transizione verde che necessitano di licenze obbligatorie e TT per avviare questo lento processo. Durante l’amministrazione Biden le politiche verdi sono state caratterizzate da direzioni contraddittorie che da un lato hanno spinto per mantenere gli Stati Uniti competitivi a livello globale, mentre dall’altro hanno predicato una riduzione delle emissioni ai Paesi più poveri. Mentre il governo Biden ha ostentato un impegno e coinvolgimento formale nei confronti della transizione ecologica, l’orientamento dell’amministrazione Trump sembra squarciare il velo delle apparenze ritirandosi ufficialmente dagli accordi di Parigi, accordi comunque insufficienti per contrastare l’aumento delle temperature.

Il recente taglio dei fondi ad USAID e ad altre agenzie di soft power americane, l’imposizione di aspre tariffe, e un generale sentimento di discordia verso Paesi storicamente partner da parte del Gabinetto reazionario di Trump, sembrano ribaltare le carte in tavola; aprendo ad una nuova era di protezionismo americano. Ciò che emerge nei discorsi di Trump e dei membri del suo governo è un malriposto senso di revanchismo nei confronti di un sistema internazionale che riceve molto dagli Stati Uniti senza dare niente in cambio. Questo movimento neo-reazionario americano, privo di memoria storica, dimentica come l’utilizzo di USAID e di altre agenzie internazionali di aiuto umanitario abbia fornito delle forti leve politiche che hanno contribuito notevolmente alla creazione di un’ampia sfera di interesse all’interno della quale gli Stati Uniti hanno operato fino ad oggi. Interessi che hanno spesso finito per destabilizzare e delegittimare numerosi contesti politici. Hattori, ad esempio, ha illustrato ampiamente come aiuti forniti da parte di Paesi esteri sono spesso specchio di dinamiche di potere che servono a mantenere una influenza politica all’interno del Paese ricevente. Dove la stessa relazione tra donatore e ricevente contribuisce alla creazione di una gerarchia sociale che viene imbevuta di significato morale, e che viene in questo modo legittimata e naturalizzata [10]. La dipendenza da aiuti umanitari, americani o meno, ha creato una crisi di legittimità dei governi nazionali, ostacolando la costruzione di processi di governance di lungo periodo.

La crisi alla quale, con ogni probabilità, la presidenza Trump darà inizio sarà un momento chiave della nostra storia politica. Nel breve termine è possibile immaginare scenari di forte peggioramento delle già marginali condizioni di vita di coloro che hanno beneficiato degli aiuti forniti. Con la speranza che una nuova o ritrovata autonomia possa consentire uno sviluppo locale che si muova al di fuori dell’influenza degli Stati Uniti. Una più ampia collaborazione sul tema del cambiamento climatico, capace di superare una visione orientata soltanto al profitto, è necessaria in uno scenario globale di crisi, dove le tempistiche per operare cambiamenti radicali si fanno sempre più ristrette. La diffusione di tecnologie verdi e un utilizzo più capillare delle licenze obbligatorie sarebbero un passo nella giusta direzione.

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Advait Arun, The Investment Climate, 2023
[2] Benjamin Bradlow, Alexandros Kentikelenis; Transfer and Transition, 2024
[3] FT, Indonesia’s ambition to quit coal hinges on policy reforms, 2025
[4] Reuters, Climate Investment Funds secures $500 million debut bond for clean energy transition, 2025
[5] Vedi: Vaver, 1990; Drahos, 2016
[6] Wallerstein, 2003, 34
[7] Castells, 2010
[8] Cooper, 2008, 26-27
[9] Drahos, 1995, 9
[10] Hattori, 2001. 
Riferimenti bibliografici 
Castells, M. (2010) The rise of the network society. 2nd ed., with a new pref. Chichester, West Sussex ; Malden, MA: Wiley-Blackwell (The information age : economy, society, and culture, v. 1).
Drahos, P. (1995) ‘GLOBAL PROPERTY RIGHTS IN INFORMATION: The story of TRIPS at the GATT’, Prometheus, 13(1): 6–19. Available at: https://doi.org/10.1080/08109029508629187.
Drahos, P. (2016) A Philosophy of Intellectual Property. 0 edn. Routledge. Available at: https://doi.org/10.4324/9781315263786.
Hattori, T. (2001) ‘Reconceptualizing Foreign Aid’, Review of International Political Economy, 8(4): 633–660. Available at: https://doi.org/10.1080/09692290110077610.
Vaver, D. (1990) ‘Intellectual Property Today: Of Myths and Paradoxes’, Canadian Bar Review, 69(1): 98–128.
Wallerstein, I.M. (2003) Historical capitalism with capitalist civilization. 11. impr. London: Verso. 

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Giovanni-Clemente Rossi è un dottorando al secondo anno nel programma di ricerca in Migrazioni, Differenze, Giustizia Sociale presso l’Università di Palermo. Ha conseguito una laurea triennale in Antropologia presso l’Università di Bologna e un master in Relazioni Internazionali presso l’Università di Groningen. La sua ricerca si concentra sugli studi sulle migrazioni e sulle frontiere, adottando una prospettiva di antropologia politica all’interno di un quadro postcoloniale. In particolare, è interessato alla politica del tempo in relazione ai modelli migratori contemporanei nel Nord Africa.

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