Introduzione
«En fait, Proust est un auteur simple, c’est la réalité qui est complexe; in realtà, Proust è un autore semplice, è la realtà che è complessa», afferma Jean-Yves Tadié [1]. L’opera e la persona di Proust coincidono non sul versante dell’appiattimento biografico del capolavoro ma su quello della trasfigurazione dell’autore nella sua scrittura. Una prova è il fatto che nessuno ha potuto identificare con certezza la “piccola ala di muro giallo” della Veduta di Delft davanti alla quale muore il personaggio di Bergotte, poiché in realtà lo scrittore muore davanti alla bellezza stessa, che non risiede nell’armonia a tutti evidente ma nel particolare invisibile che vibra alla mente. E tuttavia la Recherche è davvero – metafora celebre e plausibile, anche se abusata – una cattedrale inquietante e magnifica.
In questo luogo dello spazio e del tempo vivono, agiscono, amano, invecchiano, parlano, ricordano centinaia di personaggi che abitano una molteplicità di luoghi: Illiers/Combray, Parigi, Cabourg/Balbec, Amiens, Venezia. In questo saggio cercherò di presentare alcuni di tali personaggi, luoghi, temi. La prima parte è dedicata alla spesso sottovalutata ma in realtà primaria dimensione storica e sociologica dell’opera proustiana; la seconda a un sintetico percorso dentro la Recherche; la terza a una riflessione sulla struttura metafisica dell’opera.
La Recherche è uno spazio talmente ampio da rendere difficile scorgerne in una sola volta la varietà dei luoghi, la complessità degli itinerari, la ricchezza degli ambienti. Si crede, ad esempio, che sia un romanzo psicologico, un interminabile confronto del Narratore con la vita, con se stesso, con il tempo. E certamente ciò che chiamiamo psicologia riveste una funzione centrale nelle migliaia di pagine che compongono il libro. Ma sarebbe un errore assai grave pensare che la Recherche sia un romanzo psicologico. In essa infatti la storia, la geografia, la sociologia sono continuamente presenti; ne pervadono modalità, intenzioni, contenuti. Si tratta di un romanzo anche storico, si tratta di un’epica della società moderna, di un percorso nei paesaggi e nelle città della Francia e dell’Europa. La Recherche è storia, è mito, è poesia, intrecciate e di fatto cosmiche. La si può accostare ai poemi omerici, alla loro complessità, alla loro ricchezza, alla loro universalità.
I tre elementi storico-sociologici intorno ai quali ruota la vicenda sono la società di corte che sopravvive alla fine della monarchia francese; le élites borghesi che diventano sempre più padrone della vita collettiva; il popolo che rimane fermo nella sua identità nonostante i cambiamenti impetuosi. Quest’ultimo è un elemento talmente presente nella Ricerca del tempo perduto da fare di quest’opera «anche un romanzo del popolo» [2], come ben dimostra la pervasiva presenza dei domestici, molti dei quali sono contadini e contadine venuti dalle campagne e che costituiscono un fondamentale elemento della «comunità nazionale superiore a tutte le divisioni, a tutte le rivoluzioni, e anche a tutti i conflitti sociali» [3]; comunità dentro la quale Proust si sente immerso e che percepisce come parte di sé.
Lo provano anche i rapporti di amicizia, assai più che di padronaggio, che lo scrittore intrattiene con i propri domestici e, in generale, con persone, appunto, ‘del popolo’. Al pari di nomi assai noti nella mitologia della Recherche, e certamente molto più di decine di duchi, ministri, accademici, «Françoise è uno dei personaggi più importanti del romanzo» [4], è la domestica fedele e amica che accompagna il Narratore lungo il suo itinerario nell’esistenza. Contrariamente a quanto di tanto in tanto si legge, non c’è nessuno snobismo in Proust o meglio si tratta di una forma di snobismo che va molto al di là delle classi sociali, uno snobismo antropologico si potrebbe definire, come quello di Platone o di Nietzsche.
Nelle vicende finanziarie del Narratore si riflette, certo, la condizione economica dell’autore, che godette per tutta la vita della notevole rendita lasciatagli dai genitori. Nel 1905, anno della morte della madre, Proust può contare su un patrimonio che corrisponde a circa 3 milioni di euro attuali, che gli fruttavano una rendita di 200 mila euro all’anno. Ma il demone che lo abitava non se ne accontentava, inducendolo a mettere in atto spericolate operazioni finanziarie, a giocare in Borsa e a giocare d’azzardo, con perdite assai consistenti ma dalle quali veniva ripagato, come accade a tutti i giocatori e agli speculatori non professionisti (dal ‘gratta e vinci’ all’acquisto di ‘derivati’), con le dosi di eccitazione, con il piacere che in sé rappresenta il mettere a rischio il proprio denaro, un piacere che consente di equiparare il gioco al sesso. La speculazione in Borsa e il gioco d’azzardo sono per lo scrittore tanto più pericolosi in quanto «Proust non ha nessun senso del denaro; non conosce il prezzo delle cose» [5].
Gli eventi storici e politici che percorrono il romanzo sono soprattutto tre: l’affare Dreyfus, la separazione tra Stato e Chiesa, la Prima guerra mondiale. L’Affaire emerge carsicamente lungo tutta la Recherche. Alla guerra, in particolare a Parigi durante la guerra, è dedicata la prima parte del Temps retrouvé. Meno nota, ma emblematica delle intenzioni di tutto il pensare proustiano, è la questione della separazione tra Stato francese e Chiesa cattolica che nei progetti dei radicali avrebbe dovuto portare alla nazionalizzazione delle chiese e alla loro trasformazione in altro. Sin da un articolo su Le Figaro del 16 agosto 1904 Proust difende con lucidità le cattedrali francesi dai pericoli mortali che avrebbero corso se fossero state private della dimensione sacrale, della liturgia, del culto. Egli sostiene giustamente che l’anima di una chiesa è la sua vita liturgica, finita la quale dell’edificio rimane il corpo morto. Si può pensare, o sperare, che fu anche questa difesa a salvare le cattedrali francesi, la cui presenza epifanica – con i loro spazi, sagome, imponenza, campanili – si manifesta di continuo nel romanzo.
Che si tratti del caso Dreyfus, dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa o della Prima guerra mondiale, Proust «non crede alla narrazione ufficiale» [6], è ben consapevole dei limiti di ogni ‘verità’ che appare sui media, cerca di farsi un’idea propria a partire da una varietà di fonti. È un cittadino ben consapevole degli inganni sistematici attuati dalle autorità; è uno spirito libero che certamente nel caso del matrimonio – nel quale assolutamente non crede – ma anche su molte altre questioni «disprezza le istituzioni» [7]. Proust era un gaudente, la cui «attività amorosa incessante» e le numerose (varie decine) relazioni vissute non duravano più di due anni: «È stato il romanziere della coppia e degli amori effimeri, non dell’amore mistico da far diventare lo scopo della vita» [8].
Come si vede, in Proust non c’è salto tra privato e pubblico, interiore e sociale, pur essendo stato sempre geloso della propria intimità. Una continuità che emerge in modo assai forte nel racconto, nell’esperienza, nella rivelazione che fu per l’autore e per il Narratore la Guerra mondiale. Evento da Proust letto come un insieme di corpi in relazione di conflitto, aggressione, reciproca dipendenza, ferocia: «Nel suo insieme, la guerra non è forse un atto di sadomasochismo attraverso cui la società europea – il ‘corpo Germania e il corpo Francia’, come dice Proust – prova un sinistro piacere di autodistruggersi? La casa chiusa per omosessuali e sadomasochisti diviene l’indimenticabile immagine di una società sconvolta» [9].
Tutto questo conferma come Proust abbia vissuto e pensato al di là del bene e al di là del male. Anche dall’indagine sulla pervasiva presenza della storia, della sociologia, dell’elemento pubblico e della vita collettiva nella Recherche, emerge un uomo plurale, capace di tenerezza e di disprezzo, di estrema generosità e di pura malvagità, di autentico amore e di gelida indifferenza. Un uomo anche bizzarro, con delle abitudini singolari quali indossare cappotti e cappelli in piena estate e frequentare bordelli tra i più equivoci. Un uomo veramente amorale e che anche per questo è riuscito a creare un affresco molteplice e universale, per il quale e dentro il quale Proust «s’interessa alla differenza, non a stabilire una qualche superiorità» [10]] tra le classi sociali, tra i parigini e i francesi che abitano la provincia, tra le nazioni, tra principesse e prostitute, tra professori e ruffiani.
E quindi si può certamente affermare che nel caso della Recherche l’esistenza individuale – il Dasein – è ancora una volta e del tutto inseparabile da quella della comunità storico-sociale nella quale si inserisce, è nata, germina, si sviluppa, muore; è inseparabile dall’essere-con, dal Mitsein.
Linguaggio
Su tutto, sulla vita e sulla morte, sull’esser soli e sulla condivisione, sulla tenerezza e sul disincanto, appare e domina sempre l’elemento che fa della Ricerca del tempo perduto l’analogo dei poemi omerici: lo stile, la frase, il linguaggio. Non fattore estrinseco e nemmeno strumento o espressione di un piacere formale, non elemento ‘estetico’, il linguaggio della Recherche è la sua stessa sostanza, che sia rivolto a seguire i meandri della coscienza o a descrivere gli eventi pubblici, la società, la storia. La forma è il contenuto perché
«la superficie sta nella proposizione principale, le subordinate sono il luogo dell’analisi e della spiegazione. Non c’è solo la spiegazione logica; lo stile è anche il ricorrere costantemente a immagini inusuali. Proust percepisce molte cose allo stesso tempo e ne ha talmente tante da dire che si accavallano come onde, così che l’immagine gli permette di suggerire e di esprimere più aspetti contemporaneamente. […] Il mondo di Proust è anche, e anzitutto, la sua frase. È questa che permette di cogliere la realtà e interpretarla» [11].
Non sono forse questo la vita individuale e l’esistenza collettiva? Un infrangibile e inarrestabile flusso di eventi che si susseguono incessanti l’uno dopo l’altro, l’uno dentro l’altro, l’uno a spiegazione, effetto e causa dell’altro? Questo è lo stile di Proust, questo è la società che Proust racconta, questo è il mondo.
Un mondo intessuto di simmetrie, costituito di rimandi e paralleli che poi però lo scrittore fa saltare, deviare, perdere, per ricongiungerli infine in una imprevedibile sintesi. La scrittura di Proust accumula paperolles, personaggi, vicende, al di là del progetto iniziale e delle prime redazioni, scrittura che testimonia di una vicenda artistica e teoretica che somiglia a un labirinto, che è un labirinto. Come si situa quest’opera nella storia culturale europea?
La Recherche è romanzo ed è critica, è letteratura ed è filosofia. Vive nello iato fra tradizione e innovazione, fra continuità e rottura. «Proust non è né reazionario, né futurista» [12] e anche per questo la sua opera rimane inclassificabile. Il suo è l’ultimo romanzo organico dell’Ottocento ed è insieme il primo grande romanzo sperimentale del Novecento. E ciò proprio in forza della sua costitutiva molteplicità, che rende impossibile riassumerlo sotto un unico segno.
Baudelaire è centrale nella costruzione dell’estetica proustiana, un Baudelaire significativamente accostato da Proust a Racine come sintesi di misura ed eccesso, classicità e mutamento. Acquista quindi un significato non soltanto esistenziale il tema dell’omosessualità, del travestimento, dell’analogia tra ebrei e invertiti in quanto figure della compresenza, dell’ambiguità non riducibile a una sola delle sue componenti. Emblema e sineddoche di tale coniugazione è il barone di Charlus, e cioè l’autentico grande protagonista – dopo il Narratore – del romanzo. Altri elementi estetici e insieme ontologici sono la musica, in particolare Fauré; la lettura così intima del Rinascimento italiano; i lunghi inserti etimologici di Brichot; l’estetica militante di Mme de Cambremer; l’aggettivazione disuguale. Questi sono solo alcuni dei temi dai quali emerge la molteplicità di prospettive del romanzo, che cercherò adesso di presentare attraverso le sette parti che lo scandiscono.
Du coté de chez Swann
Il massiccio edificio del reale si sgretola nella luce di una prosa, di un linguaggio, di un ritmo narrativo che è aurora e insieme è l’imbrunire. Ricchezza sempre eguale e sempre nuova di paesaggi, sfumature, ombre, amori, infanzie, viaggi. L’affresco di un’aristocrazia non soltanto sociale. Dipinti, scritti, sonate che diventano il tessuto dei giorni. La passione di Charles Swann per Odette de Crécy come archetipo di ogni innamorarsi.
«Les êtres nous sont d’habitude si indifférents que, quand nous avons mis dans l’un d’eux de telles possibilités de souffrance et de joie pour nous, il nous semble appartenir à un autre univers, il s’entoure de poésie, il fait de notre vie comme un étendue émouvante où il sera plus ou moins rapproché de nous.
Gli esseri ci sono di consueto così indifferenti che, quando collochiamo in uno di essi simili possibilità di sofferenza e di gioia, esso ci sembra appartenere a un altro universo, si aureola di poesia, fa della nostra vita come una commovente distesa in cui sarà più o meno vicino a noi» [13].
Innamorarsi significa vivere una meraviglia e un incanto senza pari, che hanno poco a che fare con la natura reale dell’Altro. L’oggetto amoroso è in gran parte un’immagine mentale, è un riflesso della tenerezza di chi ama. È ben poco esperto di umanità chi, come la signora di Saint-Euverte, compatisce Swann – uomo molto intelligente – per essere tanto preso da una donna non soltanto equivoca ma anche sciocca.
La Recherche è anche una fenomenologia della nascita e del declino di vite e di storie, di eventi e di sogni, in uno sforzo di evocazione volto a ricreare il mondo e che ha il suo nucleo pulsante nella dinamica di identità e differenza tra il passato e il presente, tra ciò che non è più e ciò che rimane ancora poiché tutto in realtà accade dentro di noi. Un umano è vivo sino a che altri restituiscono linfa alla sua persona, la linfa potente del ricordo.
La memoria ricostruisce infatti la vita. La parola disvela il senso enigmatico della favola umana, in una fisicità intrisa di luce:
«Mais, quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la mort des êtres, après la destruction des choses, seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps, comme des âmes, à se rappeler, à attendre, à espérer, sur la ruine de toute le reste, à porter sans fléchir, sur leur gouttelette presque impalpable, l’édifice immense du souvenir.
Ma, quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo» [14].
La realtà non è il pratico e banale susseguirsi di istanti smarriti nel momento stesso in cui la vita fugge. La realtà è la scrittura che nell’infinito intrattenimento della memoria fonda l’esistere e il suo significato.
À l’ombre des jeunes filles en fleurs
L’adolescenza, quell’adolescenza che – come scrive Proust in una variante – pur riducendosi sempre più a un esile filo d’acqua spesso asciutto si prolunga tuttavia per l’intero corso della vita, è uno dei temi che percorre il secondo volume della Recherche.
Il Narratore adolescente si introduce alla vita di società, ai salotti mondani, ai “bagni di mare”, ai primi amori, alla solitudine profonda della sua natura, una solitudine tanto naturale quanto necessaria. Noi infatti «ne sommes pas comme des bâtiments â qui on peut ajouter des pierres du dehors, mais comme des arbres qui tirent de leur propre sève le nœud suivant de leur tige, l’étage supérieur de leur frondaison; non siamo simili a costruzioni cui si possano aggiungere pietre dall’esterno, ma a piante che traggono dalla loro propria linfa il nodo successivo del loro fusto, il piano superiore del loro fogliame» [15].
Anche l’apertura al mondo misterioso, dolce e terribile dei sentimenti è pervasa di un esplicito costruzionismo gnoseologico ed esistenziale. Albertine, il grande amore del Narratore, non è altro che una ‘silhouette’, una forma, un profilo, un avatar che è l’innamorato a riempire di qualità, di splendori e di miserie. Il carattere puramente soggettivo del sentimento amoroso consiste nel plasmare un doppio, una persona che si aggiunge a quella empirica che abbiamo davanti e che porta lo stesso nome, una persona le cui caratteristiche sono in gran parte inventate da noi come fa un vasaio che dalla creta grezza produce corpi, oggetti, figure.
E questo accade perché
«qu’en étant amoureux d’une femme nous projetons simplement en elle un état de notre âme; que par conséquent l’important n’est pas la valeur de la femme mais la profondeur de l’état; et que les émotions qu’une jeune fille médiocre nous donne peuvent nous permettre de faire monter à notre conscience des parties plus intimes de nous-même, plus personelles, plus lointaines, plus essentielles, que ne ferait le plaisir que nous donne la conversation d’un hommes supérieur ou même la contemplation admirative de ses œuvres;
quando siamo innamorati di una donna proiettiamo semplicemente in lei uno stato della nostra anima; di conseguenza, l’importante non è il valore della donna, ma la profondità dello stato d’animo; e le emozioni che una ragazza mediocre ci dà possono permetterci di far risalire alla nostra coscienza parti più intime di noi stessi, più personali, più lontane, più essenziali, di quanto non farebbe il piacere che ci dà la conversazione di un uomo superiore o anche la contemplazione ammirata delle sue opere» [16].
Una verità fondamentale e universale – per Proust come per altri narratori e filosofi – è che il sentimento amoroso sia appunto un riflesso della nostra tenerezza:
«Quand on aime, l’amour est trop grand pour pouvoir être contenu tout entier en nous; il irradie vers la personne aimée, rencontre en elle une surface qui l’arrête, le force à revenir vers son point de départ et c’est ce choc en retour de notre propre tendresse que nous appelons les sentiments de l’autre et qui nous charme plus qu’à l’aller, parce que nous ne reconnaissons pas qu’elle vient de nous.
Quando si ama, l’amore è troppo grande perché possa trovar posto tutto quanto in noi; s’irradia verso la persona amata, incontra in lei una superficie che lo arresta, lo costringe a tornare verso il punto di partenza, e questo rimbalzo della nostra stessa tenerezza noi lo chiamiamo i sentimenti dell’altro, lo troviamo tanto più dolce di quanto fosse all’andata, perché non sappiamo che proviene da noi» [17].
In Proust una profonda saggezza svela gli enigmi, le meschinità, lo splendore della società umana, i suoi meccanismi più nascosti, i dolori e le speranze più potenti. E mentre la cocotte Odette de Crécy, ormai diventata Madame Swann, incede sovrana nello spazio della pagina e del mondo: «Or, autant que du faîte de sa noble richesse, c’était du comble glorieux de son été mûr et si savoureux encore, que Mme Swann, majestueuse, souriant et bonne, s’avançant dans l’avenue du Bois, voyait comme Hypatie, sous la lente marche de ses pieds, rouler les mondes; Non meno che dall’apice della sua nobile ricchezza, era dal glorioso colmo della sua estate matura ed ancora così saporita che la signora Swann, maestosa, sorridente e buona, inoltrandosi lungo l’avenue del Bois, vedeva, come Ipazia, sotto il lento incedere dei suoi piedi, volgersi i mondi» [18], la piccola brigata delle fanciulle in fiore sboccia di una vita indeterminata e collettiva, voluttuosa e sorridente, candida e sensuale.
Nella Recherche il mondo aristocratico è vissuto dapprima nella esaltazione poetica di antichi nomi, di storie nascoste, di mitologiche origini, di sogni e vite inarrivabili. Poi viene penetrato dal calmo e implacabile disincanto del Narratore. Il duca di Guermantes, ad esempio, appare come una persona nello stesso tempo di una gentilezza commovente e di una durezza ripugnante, capace di dare molta più importanza a una serata in società che alla malattia e alla morte dei suoi amici.
Anche il barone di Charlus – il personaggio più riuscito dell’Opera, una scultura – nonostante il suo immenso orgoglio nutre un bisogno struggente degli altri, dello stare con loro. E la duchessa Oriane de Guermantes, la “dea” dall’esistenza misteriosa e inaccessibile, è oggetto di una parabola che parte dalla devota ammirazione e dall’amore del Narratore e giunge a una limpida condanna della sua ‘véritable méchanceté, autentica malvagità’. Questi personaggi vengono descritti come se si trattasse di un bestiario favoloso e variegato dentro il quale spira gelido il vento della menzogna e, infine, della delusione più fonda.
Molto altro percorre i Guermantes: l’identità, ancora una volta, tra l’amare e il soffrire, la fecondità dei superamenti, la pervasività del sentimento, la totalità della mente, il cui lavoro consente di comprendere l’intero, lo storico, il collettivo, il cosmico:
«Les niais s’imaginent que les grosses dimensions des phénomènes sociaux sont une excellente occasion de pénétrer plus avant dans l’âme humaine; ils devraient au contraire comprendre que c’est en descendant en profondeur dans une individualité qu’ils auraient chance de comprendre ces phénomenès.
Gli sciocchi si immaginano che le vaste dimensioni dei fenomeni sociali siano un’ottima occasione per penetrare più addentro nell’animo umano: dovrebbero invece comprendere che solo discendendo in profondità nell’interno di un individuo abbiamo qualche probabilità di capire la natura di quei fenomeni» [19].
E infine, e come sempre in quest’opera, appare la bellezza, la bellezza assoluta di una sera veneziana dipinta come solo un maestro della parola sa e può fare:
«Ainsi plus tard, à Venise, bien après le coucher du soleil, quand il semble qu’il fasse tout à fait nuit, j’ai vu, grâce à l’écho invisible pourtant d’une dernière note de lumière indéfiniment tenue sur les canaux comme par l’effet de quelque pédale optique, les reflets des palais déroulés comme à tout jamais en velours plus noir sur les gris crépusculaire des eaux.
Così più tardi a Venezia, molto dopo il tramonto del sole, quando sembra che sia notte completa, vidi, grazie all’eco in sé invisibile d’una ultima nota di luce indefinitamente tenuta sui canali come per effetto di qualche pedale ottico, il riflesso dei palazzi stampato come per sempre in un velluto più nero, sul grigio crepuscolare delle acque» [20].
Dalla lucida descrizione della “stirpe” di Sodoma e Gomorra alla sofferenza di vederne discendere Albertine, si compie la fase di vita del Narratore prima della drammatica rivelazione che muterà la sua esistenza. Dentro questo tempo la mondanità si rivela sempre più superficiale e insulsa decadendo, tra l’altro, dai Guermantes di Parigi alla «setta» dei Verdurin alla Raspelière.
Se la protagonista dei timori del Narratore è Albertine, sul lato maschile della «stirpe maledetta» trionfa nel suo fascino complesso e profondo la figura del Barone di Charlus, una scultura fatta di intelligenza e di lussuria, di smisurato orgoglio e di affettuosa umiltà, di malvagità e di cortesia.
Il Desiderio mostra come l’Altro sia sempre un essere di fuga, poiché il destino di chi ama è «de ne poursuivre que des fantômes, des êtres dont la réalité pour une bonne part était dans mon imagination; quello d’inseguire solo fantasmi, esseri la cui realtà per buona parte dimorava nella mia fantasia; vi sono infatti esseri [che] rinunciano a tutto il resto, mettono tutto in opera, si servono d’ogni cosa per incontrare un fantasma» [21], desiderio che è parte e forma della potenza stessa della Natura, dell’energia eternamente ritornante del «plaintive aïeule de la terre, poursuivante comme au temps qu’il n’existait pas encore d’êtres vivants sa démente et immémoriale agitation; querulo avo della terra, il mare, che proseguiva ancora, come nel tempo in cui non esistevano esseri viventi, il suo demente e immemore tumulto» [22].
Il quarto volume della Recherche si chiude con il presentimento tragico e fatale di inaudite sofferenze future ma anche con la percezione di una nuova vita, che sarà dedicata all’Adoration perpétuelle, al Tempo. È qui, nel nucleo geometrico dell’opera, che Proust disvela in modo impareggiabile ed esatto l’essenza dell’amore, la struttura del desiderio, la natura sacra e ironica delle passioni, l’illusione suprema che ci spinge verso l’Altro. Lo scrittore afferma infatti che quando incontrava le sue amanti non trovava nulla in loro che potesse spiegare il suo amore. E tuttavia non aveva altro desiderio che incontrarle, non viveva che per vederle. In ogni caso l’amore è per Proust un sentimento sempre sbagliato, qualunque ne sia la causa.
Il presentimento di sofferenza con il quale si era chiuso Sodoma e Gomorra si dispiega in una parte dell’affresco proustiano che forse meglio si sarebbe potuta intitolare “Il prigioniero”. Più che Albertine, infatti, è il Narratore a essere recluso nell’insaziabilità del desiderio, nell’illusione dell’amore dato e ricevuto, in una gelosia che quando sembra attenuarsi bastano una parola, un gesto, un’immagine a ricostituire. Tuttavia la dolorosa saggezza che dell’amore è sostanza prepara il Narratore alla rivelazione definitiva anche attraverso la musica e la letteratura, evocate dal “Settimino” del musicista Vinteuil e dalla morte dello scrittore Bergotte. L’arte si fa espressione di un’identità molteplice, capace di accogliere in sé elementi e individualità diverse.
La centralità di Albertine – non a caso definita «une grande déesse du Temps; una grande dea del Tempo» [23] – nell’itinerario della Recherche consiste nell’essere testimone della inevitabile crudeltà del sentimento amoroso, come se tra due persone esistesse una quantità d’amore prestabilita, tanto che il troppo preso da una implica la diminuzione dell’amore dell’altra. Sta anche qui la ragione della definizione, più sopra ricordata, dell’amore come un errore, sempre. Il Narratore sente che Albertine gli potrà dare sofferenza e non gioia e che è anche questa sofferenza a legarlo così tanto a lei.
L’impossibilità di conoscere e possedere l’Altro è un’allegoria – la fisicizzazione quasi – di una più vasta impossibilità, quella della verità, la quale si dissolve nell’intuizione che il mondo è identico per tutti e differente per ciascuno. L’impossibilità dell’amore e della verità fa sì che l’Altro non esista, che egli sia l’inafferrabile e mutevole risultato del cangiante moto dei nostri sentimenti, al di fuori dei quali egli è il niente. L’Altro c’è fino a quando il nostro amore perdura. Sparisce poi in quel nulla dal quale le nostre emozioni lo hanno tratto alla vita.
Uno dei momenti assoluti della Recherche è la fuga inaudita e poi la morte di Albertine. Né prima né dopo ho letto qualcosa di così potente e di così vero sulla realtà e sulla percezione dell’abbandono e del lutto. Lentamente e inesorabilmente gli aspetti più caduchi – caste sociali, illusioni, progetti, speranze, ambizioni – sembrano dissolversi.
Rimangono le potenze che guidano l’opera e l’esistere: la verità, impossibile da cogliersi; il tempo, intessuto di memoria e di oblio; la solitudine. Anche e specialmente di esse è fatta la nostra vita, la vita degli umani:
«Les liens entre un être et nous n’existent que dans notre pensée. La mémoire en s’affaiblissant les relâche, et, malgré l’illusion dont nous voudrions être dupes et dont, par amour, par amitié, par politesse, par respect humain, par devoir, nous depons les autres, nous existons seuls.
I legami fra una persona e noi esistono solamente nel pensiero. La memoria, nell’affievolirsi, li allenta; e, nonostante l’illusione di cui vorremmo essere le vittime, e con la quale, per amore, per amicizia, per cortesia, per rispetto umano, per dovere, inganniamo gli altri, noi viviamo soli» [24].
Questo è la nostra vita, questo è la vita degli umani. Il Narratore ne ha appreso la forza e i segreti attraverso il tempo e la cristallizzazione da esso operata intorno alla sua amata. Prima di ricapitolare il ritorno della realtà e il ritorno dell’io, prima di svelare l’inquietante enigma della sua narrazione, il protagonista ha lasciato dietro sé debolezze e sogni, ha intagliato – come un sole che al crepuscolo definisce meglio i contorni – disegni vasti, ironici e dolenti; ha scolpito mediante una scrittura colma di strazio e di gelo l’intera bellezza e potenza delle due forze che in un contrappunto costante guidano le vicende degli esseri che pensano: il dolore e l’oblio.
I nuclei narrativi che concludono il grande affresco sono tre: la guerra, l’opera, il tempo. Parigi durante la guerra, con i suoi misteriosi e grotteschi personaggi, i suoi segreti di città orientale, il suo volto raffinato e decadente, costituisce l’ultima grande aggiunta – suggerita e quasi imposta dagli avvenimenti stessi – all’originario progetto della Recherche. Qui il protagonista è ancora una volta il personaggio forse più amato dall’Autore: il barone di Charlus.
Il trionfo del Tempo si esprime attraverso tre intense immagini. La prima è la maschera che si posa sui volti, rendendoli negli anni irriconoscibili:
«Des poupées baignant dans les couleurs immatérielles des années, des poupées extériorisant le Temps, le Temps qui d’habitude n’est pas visible, pour le devenir cherche des corps et, partout où il les rencontre, s’en empare pour montrer sur eux sa lanterne magique.
Teatrino di marionette immerse nei colori immateriali degli anni, di marionette che esteriorizzavano il Tempo: il Tempo che, d’ordinario, non è visibile, che per diventar tale va in cerca di corpi e che, dovunque li incontra, se ne impossessa per mostrar su di loro la propria lanterna magica» [25].
La seconda sono i trampoli che crescono ogni giorno, ogni momento, di continuo, sotto ogni umano, trampoli sui quali le persone si muovono fino a quando non riescono più a reggere la distanza tra il mondo da cui sono germinati e il tempo al quale sono pervenuti. Il morire è una caduta dai trampoli del tempo.
La terza immagine che esteriorizza la potenza del tempo è un personaggio, l’ultimo ad apparire nel poema, la figlia di Gilberte Swann e Robert de Saint-Loup. Personaggio senza nome essendo una metafora nella quale convergono le due strade di Méséglise e di Guermantes, che erano apparse all’inizio dell’opera inconciliabili. In questa ragazza la cui bellezza è segno della giovinezza perduta del Narratore si celebra il trionfo della vita, del tempo e della dissoluzione; si celebra la vittoria di quella potenza che muta incessantemente le cose di questo mondo: gli imperi, i patrimoni, le situazioni politiche e sociali, i privilegi, le credenze, tutto.
Tempo e Opera si mostrano e sono inseparabili poiché l’Opera è il solo modo di ritrovare il Tempo perduto. L’arte riconcilia con il dolore e con la morte. Il dolore è l’ispiratore, la morte è la ragione stessa per la quale l’opera esiste. L’Adorazione perpetua, altra denominazione del tempo ritrovato, fa dell’opera e della vita una sola realtà: «la vrai vie, la vie enfin découvert et éclaircie, la seule vie par conséquent pleinement vécue, c’est la littérature; la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura»; «l’art est ce qu’il ya de plus réel, la plus austère école de la vie, et le vrai Jugement dernier; l’arte è il fatto più reale, la più austera scuola di vita, e il vero Giudizio finale» [26].
Il Narratore costruirà di notte la sua cattedrale di parole. Di notte perché i libri sono figli della notte e del silenzio. La gioia per l’Opera conclusa si coniuga alla modestia che induce il Narratore a rivolgersi a chi lo ha letto non come a un semplice fruitore di pensieri altrui ma come a un lettore di se stesso. Il libro sarebbe stato qualcosa di simile alle lenti che l’ottico di Combray offriva ai suoi clienti, una lente di ingrandimento grazie alla quale il lettore avrebbe scrutato nel profondo la propria persona, la vita. Proust non chiede di essere lodato o biasimato ma soltanto di dirgli se le parole da lui scritte sono le stesse che il lettore trova dentro di sé. Essendo uno di questi lettori, la mia risposta è: certo, Marcel, sono le stesse. Ed è anche per questo che leggendo la Recherche si legge se stessi e si impara a sconfiggere la sofferenza, a trionfarne.
Proust è dunque un sociologo, è un narratore, è un metafisico. Ed è, certo, anche uno psicologo. Uno dei nuclei intorno ai quali ruota la sua filosofia è, come abbiamo visto, il sentimento amoroso. Nella Recherche l’amore è soprattutto immaginazione e sofferenza. Immaginazione di ciò che l’altro non è e dunque sofferenza per la delusione che inevitabilmente lo accompagna. Ma non si tratta solo dell’amore. È l’intera realtà ad acquistare senso come materiale dell’immaginazione, in quanto siamo noi ad aggiungervi l’essenziale: un significato, un’attesa, un ricordo. In questo modo la Recherche si trasforma da romanzo della sofferenza a itinerario nella gioia/godimento, si trasforma in una radicale e complessa forma di jouissance, di gioia.
La profondità metafisica del romanzo si esprime anche nella relazione che in esso accade tra l’amore e il male, tema che tutto lo pervade. Il male è, semplicemente, il desiderio. È la gratuità e la potenza del desiderio sessuale, là dove esso manca di scopi, dove non è volto alla riproduzione. Ma sia Baudelaire sia Proust odiano la riproduzione sessuale. Ogni volta che nella Recherche appare una donna incinta il tono è immancabilmente sarcastico, la gravidanza è descritta come una malattia. L’amore è quindi ferocia, è una lotta tra i sessi che niente può riscattare. Se sterile, l’accoppiamento è sadismo. Se fecondo, è malattia. È un amore inseparabile dall’odio, sempre. Nello sguardo sensibile ma distante, gelido e ironico, arcaico e raffinato, di Proust si svela e si rivela il geroglifico della passione amorosa:
«Dans ces amours (je mets de côté le plaisir physique qui les accompagne d’ailleurs habituellement, mais ne suffit pas à les constituer), sous l’apparence de la femme, c’est à ces forces invisible dont elle est accessoirement accompagnée que nous nous adressons comme à d’obscures divinités. C’est elles dont la bienveillance nous est nécessaire, dont nous recherchons le contact sans y trouver de plaisir positif.
In questi amori (lascio in disparte il piacere fisico che d’altronde s’unisce abitualmente a essi ma non basta a costituirli), sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero» [27].
L’oblio, il dissolversi di ogni cosa, la difficoltà di rievocare l’essere stato è la condizione per accedere alla memoria più profonda – quella involontaria dalla quale si genera la gioia –, per l’avvento del tempo allo stato puro, per la reminiscenza che ha come strumento principe la metafora.
Metafora è riconoscere in un elemento il geroglifico e il significato di un altro elemento e dunque modificare lo spazio e il tempo del racconto trasportando narratore e lettore in uno spaziotempo altro, che non sta nei luoghi o negli istanti che si susseguono passivi e tutti uguali ma dentro il corpomente stesso che, producendo i propri ricordi, genera il tempo autentico della vita.
È anche per questo che la memoria è il luogo della gioia, è per questo che la letteratura è – secondo la formula più volte da Proust ripetuta e più sopra ricordata – la vita realmente e pienamente vissuta. Il lavoro letterario è infatti un lavoro sulla differenza, capace di trasformare la malinconia in pienezza.
Quale differenza? Differenza tra che cosa? Tra i fatti e gli eventi, tra ciò che sembra rimanere stabile ma la cui vera realtà consiste nell’incessante trasformazione che lo intride. Il tempo dei fatti è il tempo cronologico, è il tempo lineare, oggettivo, astratto e impersonale. E poi c’è il tempo degli eventi, che è tempo che si distende e si contrae, il tempo capace di toccare il futuro dell’attesa e dell’immaginazione sul fondamento della memoria viva, della memoria ogni volta costruita dall’intero corpomente che sente gli eventi attraverso le sensazioni del tatto, della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto. Il tempo vero e radicale è il tempo del corpomente. È il tempo che conosce l’identità di un oggetto, di un luogo, di una situazione perché riconosce la trasformazione degli oggetti, dei luoghi, delle situazioni. Una trasformazione che non li annulla ma li mantiene identici pur nella differenza, anzi proprio per mezzo della differenza. Conoscere significa riconoscere l’identità nella differenza.
Tutto questo, esattamente questo, è il Tempo perduto di cui Proust va alla ricerca:
«No, Albertine è tutta intera nelle sue metamorfosi: è uccello, pianta, paesaggio al tempo stesso; è un po’ Odette, un po’ Andrée e un po’ Marcel. Albertine è tutte queste cose insieme e contemporaneamente, senza che si possa mai dire che cosa veramente o essenzialmente sia. Al pari del mondo considerato nella sua totalità, essa corrisponde sempre a uno stato del divenire, a una certa composizione della materia che, entrando in contatto con altre, diventa qualcos’altro» [28].
Divenire significa diventare altro rimanendo identici. Divenire è quindi la sostanza di tutte le cose che sono. Essere è tempo, il tempo è la potenza della gioia, la potenza omerica di Marcel Proust.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
Note
[1] In Lire. Marcel Proust, Hors-Serie n. 8, Paris 2009: 19.
[2] J.Y. Tadié, Proust e la società (Proust et la société, Gallimard, Paris 2021), trad. di R. Capotorti, Carocci, Roma 2022: 12.
[3] Ivi: 21.
[4] Ivi: 32.
[5] Ivi: 51.
[6] Ivi: 140.
[7] Ivi: 149.
[8] Ivi: 153.
[9] Ivi: 70-71.
[10] Ivi: 77.
[11] Ivi: 163.
[12] A. Compagnon, Proust tra due secoli. Miti e clichés del decadentismo nella Recherche (Proust entre deux siècles, Éditions du Seuil, Paris 1989), trad. di F. Malvani con la collaborazione di P. Minsenti, Einaudi, Torino 1992: 306.
[13] Citerò la Recherche dall’edizione in un solo volume À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999; le traduzioni sono quelle dell’editore Einaudi, nei diversi volumi di cui l’opera si compone. Qui i riferimenti sono a Gallimard: 194; La strada di Swann, trad. di N. Ginzburg, Einaudi, Torino 1978: 251.
[14] Ivi: 46; Einaudi: 52.
[15] Ivi: 710; All’ombra delle fanciulle in fiore, trad. di F. Calamandrei e N. Neri, Einaudi, Torino 1978: 512.
[16] Ivi: 655; Einaudi: 436.
[17] Ivi: 482-483; Einaudi: 196.
[18] Ivi; 506; Einaudi: 229.
[19] Ivi: 1002; I Guermantes, trad. di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 1978: 357.
[20] Ivi: 857; Einaudi: 154.
[21] Ivi, 1517; Sodoma e Gomorra, trad. di E. Giolitti, Einaudi, Torino 1978: 439.
[22] Ibidem.
[23] Ivi: 1894; La prigioniera, trad. di P. Serini, Einaudi, Torino 1978: 398.
[24] Ivi: 1943; La fuggitiva, trad. di F. Fortini, Einaudi, Torino 1978: 36-37.
[25] Ivi: 2307; Il tempo ritrovato, trad. di G. Caproni, Einaudi, Torino 1978: 258.
[26] Ivi: 2284 e 2272; Einaudi: 227 e 211.
[27] Ivi: 1602; Sodoma e Gomorra, cit.: 560-561.
[28] M. de Beistegui, Proust e la gioia. Per un’estetica della metafora (La jouissance de Proust. Pour une esthétique de la métaphore, Editions Les Belles Lettres, Paris 2007), trad. di A. Aloisi, Edizioni ETS, Pisa 2013: 137.
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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Disvelamento. Nella luce di un virus (Algra Editore, 2022).
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