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Psiche e cultura nel bagaglio del migrante

11di Alfredo Ancora

Qualche persona “illuminata” tempo fa disse che “con la cultura non si mangia” banalizzando un termine tanto ricco e soprattutto composito.  Del resto, basti pensare come nella storia della politica italiana era considerato il Ministero della Cultura, massimo organo istituzionale, nella “spartizione” dei vari ministeri: un ente di serie B! Si dimentica con una certa superficialità la fortuna che è “capitata” all’Italia [1], sede di uno dei patrimoni artistico-culturali più ricchi ed unici della storia della umanità! Basterebbe considerarlo alla stregua di una risorsa fondamentale come se fosse petrolio!

La cultura, espressione di storia e tradizioni, è inscindibile dalla persona che la rappresenta. Essa conferisce valore e dignità e soprattutto rispetto, indipendentemente dall’importanza che riscuote. Non ci sono graduatorie (come vedremo in seguito) Questo è in contraddizione con quanto accade con i migranti, privati spesso dell’ “essere persona”, con buona pace di Marcel Mauss [2] che la considerava una categoria dello spirito!

I migranti spesso sono relegati solo a numeri, non rappresentanti di una determinata cultura. Un atteggiamento simile è il prodotto di comode e superficiali analisi e della atavica paura del “nemico sempre dietro la porta” , per confermare le proprie identità “minacciate”. Costruire un nemico infatti è importante non solo per definire la propria esistenza ma anche per “saggiare” i dispositivi di difesa contro gli “invasori” che vogliono assediare il nostro sistema di valori. Come ci suggeriva Umberto Eco [3] «quando il nemico non ci sta, occorre costruirlo». 

12La figura del migrante risponde “perfettamente” a questa rappresentazione: è uno che   sporca, porta malattie, ruba il lavoro. In verità è una figura anche “inquietante” perché irrompe nei nostri pensieri invitandoci o a riflettere o a rimuoverlo, relegandolo a un pericoloso estraneo. La costruzione di “una tale figura” obbedisce anche ad una logica, escludente ed emarginante sempre alla ricerca  del “diverso di turno” (Ancora) [4]. 

Esemplare sull’argomento un film di Dario D’Ambrosio “Il ronzio delle mosche” [5] in cui in un paese futuribile si studiano e proteggono gli unici tre “devianti” sopravvissuti sulla terra per non perdere il confronto da parte di chi ritiene di “essere normale”!

1000-8e61f0da780533b6505d3147448da6faDel resto è sempre presente il vizio culturale  del pensiero occidentale, classificante  e standardizzante, impegnato a creare la “categoria” migrante, declinata con nuovi termini: richiedente asilo, rifugiato, economico, forzato, irregolare, clandestino, ecoprofugo  etc. Una tale carrellata di “etichette ”è  il risultato di un pensiero pratico -organizzativo e anche di un approccio semplicistico ad un fenomeno complesso come l’emigrazione,  definita un terremoto dal filosofo e psichiatra Karl Jaspers [6]  in tempi non sospetti! 

Bisognerebbe incominciare ad interrogarsi anche sul perché il migrante – icona del nostro tempo – costituisca una figura inquietante. Forse perché smaschera le falsificazioni che si nascondono dietro la presenza dell’altro, “l’eterno altro”! Geoffrey E. L. Lloid [7] nel suo testo Smascherare le mentalità mette impietosamente a nudo come i nostri comportamenti obbediscano a visioni del mondo non veritiere ma necessarie a mantenere in piedi egemonie culturali.

L’idea che i migranti siano riducibili a problemi “organizzativi” o di “regolarizzazione” di numeri è sicuramente banale e approssimativa. Si dimentica che il loro drammatico viaggio può provocare danni e ferite invisibili, che il susseguirsi degli eventi non offre il tempo né il modo di elaborare il “trauma migratorio” se non si creano le condizioni per poterlo rivivere in appositi spazi di ascolto. Il rischio concreto è di dare luogo   a “fantasmi” che in seguito possono sfociare solo in derive patologiche.

9788842037767_0_536_0_75Dalla nostra esperienza clinica abbiamo avuto modo di sperimentare quanto le categorie “diagnostiche” siano insufficienti, se non fuorvianti, a ri-costruire le tappe “del viaggio interno” di chi presenta un disagio psichico. Spesso la rappresentazione fisica del “ho male qui” nasconde in realtà sofferenze più profonde e non è sufficiente definirli problemi psicosomatici! Infatti il corpo in molte culture è un veicolo di trasmissione con cui viene fisicizzato ogni evento anche negativo.

Nell’affrontare queste tematiche sembra si sia affermata la voglia di un pensiero più incline a” fabbricare” diagnosi che a costruire “realtà terapeutiche” legate al contesto culturale, sociale, religioso. Tali “ingredienti” costituiscono la “pasta” per creare insieme la storia di un disagio psichico trascurato, rimosso, non sufficientemente analizzato. In questa direzione è necessario un nuovo lessico (Ancora 2017, cit.) capace di offrire una  nuova declinazione di alcune parole/pensiero per un approccio mentale diverso. Ad esempio, sarebbe utile riprendere l ‘etimo di alcuni termini: dia-gnosi nel senso originale di conoscenza attraverso e non estrapolazioni di dati destoricizzanti solo per uso classificatorio. Terapia, therapeia come servizio. Anamnesi da anamnesis come raccolta di dati e ricordi per costruire una “storia “non solo clinica! Farmaco da  pharmakon =rimedio e veleno.

Una simile “sintassi”, attenta all’etimo, può anche rappresentare un sussidio per dare senso e significato alla parola/pensiero che interagisce con ogni nostro atteggiamento/comportamento. Un incontro terapeutico diventa quindi «un atto di cura culturalmente sensibile», un modo interattivo di conoscenza.

immagine7A questo punto si pone una domanda: come ci avviciniamo all’incontro con una persona proveniente da un mondo diverso dal nostro che chiede aiuto per un problema di sradicamento, di shock culturale, di disorientamento temporo/spaziale, legati spesso a processi traumatici come l’emigrazione? Gli operatori del terzo millennio che lavorano a contatto con queste problematiche sono pronti a affrontare un tale fenomeno? Sono sufficienti scuole e scuolette più meno qualificate nate “ad hoc”, con l’intento di formare come ci si comporta di fronte ad uno “diverso” per colore, religione e tradizioni? Il problema della formazione per un “pensare/agire transculturale” pone diverse questioni che richiedono spazi e tempi diversi. Forse – come diceva Gregory Bateson [8] – il problema si sposta anche su quanto e se e siamo disponibili ad “apprendere ad apprendere” (deuteroapprendimento) dai contesti, dal bagaglio culturale di chi ci sta di fronte con le sue concezioni della malattia  e della  cura . 

Sarebbe necessario un approccio transculturale, necessario per costruire una direzione di cambiamento nel processo di osservazione, passando attraverso (trans) e non sopra i modi di pensare e le loro manifestazioni culturali. In questo passaggio qualcosa si perde e qualcosa si apprende. Come ci insegna l’antropologo cubano Ferdinando Ortiz [9], autore negli anni quaranta del termine “transculturation”, per dare pari dignità  a tutte le culture che nell’isola caraibica (negli anni quaranta) si incrociavano influenzandosi vicendevolmente senza pretese egemoniche di una sull’altra. 

In un siffatto quadro assume particolare significato l’importanza dei rapporti dell’individuo con la sua comunità, l’io/gruppo, fondamentale porta d’accesso a possibili incontri non solo individuali ma anche di gruppo, più vicini alla cultura di molti utenti.

kel3720Il mondo scientifico in seguito al diffondersi sempre più di problematiche psichiche procurate da fenomeni come il massiccio esodo di popoli in fuga, comincia a interrogarsi su quali direzioni ci si debba muovere nell’affrontare il modo (i modi) di conoscenza di culture, popoli, pensieri e scienze ‘altre’. Non è facile intercettare il nuovo che avanza e il «movimento» che produce nei nostri atteggiamenti mentali. C’è il rischio di riproporre sempre rigide griglie conoscitive all’interno di un pensiero “nostalgico” duro a morire e volto ancora alla ricerca di «un oggetto» sempre più lontano e sempre più «da studiare», tanto caro a teorie “eurocentriche.

La proposta “transculturale “non vuole suggerire una nuova tecnica ma rappresentare una direzione nel processo terapeutico che diventa a-categoriale, come ci ha suggerito Bruno Callieri [10], decano della psichiatria italiana, senza preconcetti, stereotipi condizionanti la relazione di cura. La nostra esperienza clinica ed umana nei servizi psichiatrici ci ha insegnato quanto sia utile (e necessario) dare importanza alla dimensione gruppo, molto presente in diverse culture e quanto non sia produttivo in una relazione di cura dissociare l’individuo dalla sua appartenenza al gruppo. 

Il “gruppo transculturale “può diventare un modo di conoscenza, uno spazio aperto dove ogni cultura riacquista dignità insieme ai suoi rappresentanti: anche quella curda i cui appartenenti venivano considerati insignificanti e buttati per primi a mare dagli scafisti in barconi sovraffollati! Il gruppo transculturale diviene “terapeutico” perché aiuta a costruire nuove consapevolezze, a sperimentare nuove sensazioni che prendano il posto di angosce spesso rimosse. Un luogo non mitico, dove sia possibile il cambiamento, la liberazione di parte della sofferenza accumulata.

La solitudine dell’uomo globale, di cui parla Zygmunt Bauman [11], non è una triste profezia, ma la possibile destinazione di chi non riesce a recuperare quel senso d’insieme che il gruppo terapeutico (e non solo) si pone come obiettivo, prendendolo in prestito proprio dai rappresentanti di culture che migrano e che ci possono essere d’aiuto (come noi con loro) all’ interno di  una interazione rispettosa e di un reciproco apprendimento. 

Una modalità che può superare quel noi/loro, io/tu, alla base di griglie di un pensiero etnocentrico, sempre in agguato, che la situazione attuale in Italia di “disimpegno” di molti ha forse alimentato, favorendo rigurgiti razzisti, derive pericolose di un pensiero egemonico e totalizzante che pensavamo fosse scomparso. «Il conoscere, come dice Michel Foucault [12] ben oltre il comprendere, è prendere posizione». 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] Infatti nonostante la bellezza e la varietà del “prodotto Italia”, non venendo dato il giusto valore in patria, non è allo stesso modo adeguatamente rappresentato a livello internazionale. Per chi ama le statistiche il nostro Paese compare al 5° posto nella classifica dei Paesi più visitati al mondo (rispettivamente dietro Cina, Stati Uniti, Spagna, Francia). Forse una volta tanto andrebbe interpretato ed analizzato meglio un siffatto quadro pur se composto da aridi numeri!
[2] M. Mauss, La nozione di persona una categoria dello spirito, Morcelliana Brescia, 2016. Il libro è la traduzione di una celebre conferenza tenuta da Marcel Mauss nel 1938 presso il Royal Anthropological Institute di Londra.
[3] U. Eco, Costruire il nemico La nave di Teseo Milano, 2020 (n. ed.). Sul nemico immaginario vedi anche il romanzo di D. Buzzati, Il deserto dei tartari, scritto nel 1940 e rieditato nel 2021 da Mondadori. Una bella trasposizione filmica fu realizzata da Valerio Zurlini nel 1976 che espresse in immagini i vari atteggiamenti mentali prodotti dalla paura “di essere assediati” da immaginari invasori che ovviamente non si materializzeranno.
[4] A. Ancora, Verso una cultura dell’incontro, FrancoAngeli Milano, 2017
[5] D. D’Ambrosio, fondatore del “teatro patologico” descrive in questo originale film le vicende di una equipe di medici che si trova a dover studiare gli ultimi “tre pazzi” rimasti sulla Terra, per scoprire dove sia l’origine della loro diversità per poi proteggere la “normalità’’ degli uomini!
[6] K. Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1950
[7] Geoffrey E. L. Lloid, Smascherare le mentalità, Laterza Bari-Roma,1991
[8] G. Bateson, Verso una ecologia della mente, Adelphi Milano, 2000 (n.ris.)
[9] F. Ortiz, Contrappunto cubano del tabacco e dello zucchero, Borla Roma, 2024 Ortiz era un antropologo e un etnomusicologo formatosi sia in Spagna che in Italia. Era stato sia a Torino per approfondire gli studi su Cesare Lombroso sia a Genova. L’ammirazione era molto forte verso il maestro italiano tanto da chiedergli di scrivere l’introduzione al suo libro Los negros brujos. Mentre affidò la prefazione di Contrappunto all’altro suo maestro, Bronislaw Malinowski, padre dell’antropologia funzionalista inglese e sostenitore degli studi sul campo.
[10] B. Callieri, Percorsi di uno psichiatra, Edizioni Universitarie Romane Roma,1993
[11] Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli Milano, 2014
[12] M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi Torino, 1977.
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Alfredo Ancora, M.D.Psichiatra e psicoterapeuta. Ha insegnato  psichiatria e psicoterapia transculturale presso le Università di Trieste, Siena, Brescia (Statale e Cattolica) Milano Bicocca, Roma La Sapienza. Directeur Scientifique Université Populaire “E. De Martino D. Carpitella” Paris. Coordinatore Sezione Saperi Transculturali FrancoAngeli, Condirettore Rivista Transculturale Edizioni Mimesis. Direttore Scientifico Collana Attraversamenti Culturali, Borla editore. I suoi testi sono stati pubblicati negli Stati Uniti, Francia, Spagna e in Russia (in press). Fra le sue pubblicazioni: I costruttori di trappole del vento: formazione pensiero e cura in psichiatria transculturale (Milano, 2006), Verso una cultura dell’incontro. Studi per una terapia transculturale (Milano, 2017).

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