L’idea che i migranti siano riducibili a problemi “organizzativi” o di “regolarizzazione” di numeri è sicuramente semplicistica. Si dimentica che sono persone e che il loro viaggio – il più delle volte traumatico – provoca danni e ferite invisibili. A questo proposito, utilizzeremo i termini psiche e migranti per richiamare l’attenzione su quale atteggiamento sia necessario assumere da parte di chi vuole occuparsi di queste difficili e delicate problematiche, consapevoli di affrontarne solo una piccola parte. Un punto importante da sottolineare è proprio come pensa/agisce chi opera in questo contesto complesso, frutto di multiformi interazioni fra aree di lavoro e di intervento diversi (sociali, umani, psicologici, etc. ).
Noi ci occuperemo di questi ultimi.Cominciamo dal delineare un percorso per gli addetti ai lavori che definiremo, non certo con una nuova etichetta, ma come una direzione di lavoro per l’operatore transculturale del nuovo millennio [1], disposto ad attraversamenti di culture, a traghettamenti di luoghi mentali e geografici, a transiti di persone e di sofferenze. Un passeur, capace di valicare frontiere esterne ed interiori, pronto a sconfinare in quell’oltre, dove sono possibili nuove acquisizioni di conoscenze e di relazioni.
Prima di morire, lo scrittore Stefan Zweig scrisse con il consueto e a volte un po’ amaro senso dell’ironia: «Prima pensavo che l’uomo fosse composto di corpo e di anima; adesso, vecchio, mi sono accorto che c’è il corpo, l’anima e il passaporto!». Zweig voleva dire che esistono delle condizioni nelle quali l’esistenza stessa dell’individuo dipende ormai dalla carta d’identità, dal passaporto, dalla green card, dal papier, da tutti quegli elementi che decidono e definiscono la sua identità. Tale dipendenza oggi riguarda soprattutto una delle figure più emblematiche del nostro tempo: il migrante. Una vera icona dell’attuale epoca che stiamo vivendo che vede drammatiche fughe e spostamenti di intere popolazioni. L’esodo è stato sempre presente nella storia delle civiltà, ma forse mai in maniera cosi drammatica e così frequente!
Chiediamoci: chi è poi costui che ci turba tanto, che tracima tutte le difese possibili e che irrompe nei nostri pensieri prima che nelle nostre coste? È una persona continuamente sospesa fra di un di qua e un di là, fra due diversi tic-tac di orologi, fra una cultura che lascia e una che trova, non sempre protesa ad accoglierlo. È sempre in bilico, fra l’oppressione della globalizzazione e la voglia del localismo, fra la speranza dell’integrazione e del rispetto delle differenze e la continua ricerca di sé o parti di sé (smembrati in alcuni casi dal trauma della migrazione).
Da tempo assistiamo a dibattiti, proposte, simposi che spesso partono da un’idea “mitica” del migrante, che diventa talvolta un’invenzione dell’altro di turno, sempre più lontana da quella reale. Per capirlo di più si stanno improntando derive scientifiche, tecnocratiche e super specialistiche (con tanto di scuole “ad hoc”!). Sembra di essere presi più dal coniare nuove categorie, come quelle di economico, forzato, invisibile, e per ultimo la suggestiva immagine di ecoprofugo [2], dimenticando talvolta che si tratta di persone [3]. È noto come questo pensiero “catalogante” spesso obbedisca a logiche non sempre vicine ai bisogni reali. Si rischia di farlo diventare una figura simile a quella di un “certo paziente “di cui si parla in alcuni congressi scientifici di psichiatria, dove si presenta spesso un “malato” ideale, costruito più per spiegare il funzionamento di un farmaco con relativo adattamento ad esso ,avulso dalla sua storia e dal “suo essere nel mondo”.
L‘obiettivo di questo contributo è quello di offrire passaggi di pensiero e di culture che l’impatto reale produce con persone e i loro bagagli di sofferenza. Un viaggio transculturale con lo scopo di costruire una direzione di cambiamento nel processo di osservazione, «passando attraverso (trans) e non sopra i modi di pensare e le loro manifestazioni culturali» (Ancora, 2017) [4] In questo passaggio da pratiche e da saperi diversi, si assiste spesso a contaminazioni [5] e adattamenti che ogni con-tatto con culture altre sollecita. A questo proposito declineremo qualche punto significativo per questo excursus.
Quale scienza per quale operatore
Il mondo scientifico in seguito al diffondersi sempre più frequente di problematiche psichiche procurate da fenomeni come l’emigrazione e popoli in fuga, comincia a interrogarsi su quali direzioni ci si debba muovere nell’affrontare il modo (i modi) di conoscenza di culture, popoli, pensieri e scienze «altre». Non è facile intercettare il nuovo che avanza e il «movimento» che porta con sé. C’è il rischio di riproporre la solita immobilità di pensiero con rigide griglie conoscitive. Siamo spesso di fronte ad un pensiero volto alla ricerca di «un oggetto» sempre più lontano e sempre più «da studiare», tanto caro a teorie “eurocentriche “(come amava dire l’etnomusicologo Diego Carpitella). Sorge la domanda: si può procedere nell’attuale mondo della cultura scientifica, disegnando direzioni verso le quali incrociarsi e inter-correlarsi, invece di delineare campi d’azione ben definiti nei loro confini? Quest’ultimi sono da considerare termini che permettono o impediscono? Siamo consapevoli che tali domande rappresentano un modo complesso di interrogarsi.
È naturale che il non considerare la materia trattata in un dato recinto per trattenerla nei suoi argini, è differente dall’assumere un atteggiamento sperimentale, volto cioè alla ricerca e alla prova di metodi, applicazioni o tendenze nuove, con rischi di continui sconfinamenti in altro e in oltre. Se mai, l’obiettivo è proprio quello di cedere il posto a un nuovo senso di avventura nella ricerca, tentando di sospendere i propri paradigmi, per poter salire su piattaforme di strutture teorico-operativo differenti (di frontiera, contaminate etc.).
Il percorso richiede anche un transito nei propri atteggiamenti mentali, in modo che «pensare globalmente /agire localmente» non rimanga solo una bella proposizione di intenti. Per tentare di seguire questa direzione, dobbiamo innanzitutto essere convinti che i confini della scienza stanno diventando sempre più permeabili agli incontri e agli scambi, e che la ricerca diventa quella di uno spazio per una teoria/intervento che nasca in una zona di confine, comune a tutte le scienze, in cui i costrutti divengano nel processo di conoscenza altrettanto importanti delle percezioni e delle intuizioni: «Le intuizioni di maggior valore sono metodi» diceva Nietzsche. La scienza transculturale vuole abbracciare queste istanze, affrontando confini e sconfinamenti, luoghi dove le culture si definiscono e vengono ridefinite, ricordando la attualità di quanto diceva già nel 1871 E Burnett Tylor [6]: «la cultura non come solo un bagaglio di modelli definiti, ma un insieme di possibilità».
Con questo termine comunemente si intende “chi si è introdotto in un ambiente indebitamente o di nascosto” ma anche chi nel proprio ambiente, si sente ed è trattato come un estraneo. Nel nostro lavoro psichiatrico e psicoterapico ci troviamo spesso di fronte a problematiche dove irrompono elementi culturali che sembrano non avere pertinenza con il problema presentato! Spesso il racconto di un disagio psichico affonda le sue radici nel milieu culturel dal quale non si può prescindere. Credenze, forme di religiosità, rituali, modi di comunicare non possono essere più solo appannaggio di nicchie conoscitive privilegiate, o oggetto di studi “esotici”, ma assumono un ruolo importante per contestualizzare un determinato sintomo che diventa secondo quest’ottica un segno che interagisce con altri segni. Quante volte abbiamo avuto di fronte manifestazioni definite psicopatologiche, che forse non erano tali in contesti differenti dal nostro? Per dare senso ad un sintomo non bisogna fermarsi soltanto a ciò che le parole intendono trasmetterci, trascurando come dice A. Julien Greimas [7] «che è altresì una direzione…un’intenzionalità e una finalità». Tanto più opportuno in certe culture dove la comunicazione non è solo affidata alla parola. Abbiamo certamente una qualche difficoltà nell’integrare la nostra cultura verbocentrica (che spesso riteniamo la sola possibile) con segni che provengono dal corpo, dallo sguardo, dalla postura, dal silenzio, veri e propri veicoli di un altro modo dl comunicare! [8]. Spesso «io ho male qui» riferito da un paziente proveniente da un paese africano è solo un modo culturale (fisico) di esprimere un disagio più profondo. In questo caso possiamo parlare di un linguaggio del corpo! Per l’operatore della salute mentale del terzo millennio (che abbiamo citato all’inizio) può rappresentare l’occasione di potersi continuamente ri-vitalizzare, acquisendo nuove conoscenze e modalità d’espressione, dando così linfa ad un saper spesso rinchiuso su se stesso. Per questo, è fondamentale riuscire a combinare esperienze provenienti da varie discipline confrontandosi con tutte quelle modalità di un diverso conoscere degli operatori «altri» [9] in contesti culturali dove al centro c’è sempre la costruzione di una realtà di cura [10], scoprendo qualche affinità nel mondo della cura e della sofferenza e molte differenze! [11].
Un tale processo può essere assimilabile a quello di un viaggio nelle periferie dei nostri pensieri di cui non ci accorgiamo perché presi sempre da una visione autocentrata di noi stessi. Forse è necessario cercare una postazione di partenza nuova per passaggi verso orizzonti «altri». L’obiettivo da parte di chi opera in ogni latitudine (come ci insegnano anche gli sciamani siberiani) è sempre lo stesso: contribuire a ricomporre parti di un uomo, sempre più spezzettato, per cercare di rinsaldare quei legami profondi che accomunano persone e culture, culture e persone. In un processo siffatto possono stare insieme semplici storie e narrazioni complesse, esperienze di lavoro quotidiano («cogliere la filosofia nei fatti contingenti del quotidiano», recitava J .P. Sartre nella sua Critica della ragione dialettica) e derive teoriche. L’incontro con persone di differenti paesi non è solo clinico ma anche culturale, aperto ad ogni irruzione Bruno Callieri decano degli psichiatri italiani (scomparso ultimamente, ma non nella nostra memoria) diceva che «un presupposto essenziale dell’incontro è costituito dall’esistenza intesa come intenzionalità, cioè come apertura del soggetto a tutto quello che non è il soggetto stesso. Incontro, dialogo, partecipazione e presenza esprimono infatti il loro significato proprio nella reciproca implicazione fra soggetto e mondo, come momento fondamentale dell’esistenza. L’esserci ha il modo di essere dell’esserci-con-l’altro. Tutto ciò non può essere dimostrato ma solo sottolineato dal fenomenologo» [12].
Dalle mie esperienze nei servizi territoriali nelle periferie romane ho appreso quanto sia importante la valenza culturale per avvicinarsi al mondo di chi ci sta di fronte, italiano o straniero che sia, al suo modo di essere, al suo linguaggio. La cultura diviene cosi anche un momento di fisicizzazione dell’incontro con l’altro, un mosaico di pensieri contaminati che, in un rapporto basato sulla reciprocità, possono dare ricchezza e maggiore conoscenza sia a chi chiede aiuto sia a chi lo presta.
Come non ricordare. a questo proposito, gli studi mai superati di Ernesto De Martino, che vedeva nella “crisi della presenza” le origini dei tanti disagi dell’uomo moderno, o quelli dello psichiatra Michele Risso [13] che, lavorando negli anni sessanta tra i nostri emigrati in Svizzera, aveva potuto capire come determinati disturbi (delirio di fattura, rappresentazioni magiche della malattia che colpivano alcuni nostri connazionali) venivano gestiti, spiegati e curati all’interno della propria comunità con le sue regole basate sull’accoglienza piuttosto che sull’espulsione. Ad un dia-gnosi – nel senso di conoscenza attraverso – seguiva una cura culturale. Il contesto diventava una parte importante per poter dare una cornice ad un particolare disagio. La decontestualizzazione procura scarsa conoscenza e interventi dubbi.
La psiche che emigra è sottoposta a tante e tali pressioni da mettere a dura prova anche l’operatore, spesso sprovvisto di mezzi, che può sentirsi solo [14], spaesato, smarrito non meno del migrante. Il quadro di sospensione tempo-spaziale che caratterizza chi fugge dal proprio paese può produrre gravi problemi connessi alla propria identità (disidentità), sviluppando sindromi di sradicamento fino a dei veri e propri shock culturali!
Per poter avvicinarsi a queste particolari e complesse problematiche psichiche, è forse opportuno che la psicologia, prima di rischiare di diventare «una foglia di fico che copre le vergogne», come diceva Antonio Gramsci, si riappropri di quelle valenze di apertura verso il sociale e culturale che le sono proprie. Allora, più che l’eterno confronto e le instancabili statistiche analitico-comparative di culture e sindromi, che lasciano tutto come sta, ci sarebbe bisogno di operatori disposti a formarsi in maniera nuova (non solo in scuole private), in luoghi come centri d’accoglienza, servizi psichiatrici, comunità etc., dove siano possibili incontri (ma anche scontri!) con le persone vere e i loro bagagli di sofferenza. Un pensiero/azione diverso vuol dire anche “decentrarsi”, prestare attenzione alle derive periferiche del mondo che un’ottica troppo etnocentrica ha talvolta trascurato, non prestando attenzione all’ascolto, al rispetto per il diverso. Un sapere attraversato da pensieri nomadi invita a tras-formarsi, a bagnarsi nell’altrove e nell’altrui, dove si possono conoscere meglio gli spazi di oppressione e riduzione di ogni identità (che fa anche rima con dignità.). La costruzione di cornici mobili ci possono aiutare a capire meglio dove sorge la sofferenza psichica che arriva compatta e ben strutturala nei nostri servizi psichiatrici territoriali e ospedalieri, cogliendoci talvolta impreparati.
Forse è necessario sforzarsi a disegnare un vero e proprio “spazio biografico” dove poter raccontare e raccontarsi, intrecciare modi differenti di intendere la concezione della malattia e della cura, costruendo possibili nuove narrazioni delle stesse. La “stanza” (non solo come luogo fisico) dove s’incontra la “psiche dei migranti” forse non basta più. C’è invece bisogno di “ruote” mentali per spostarsi, per allargare i propri orizzonti, senza paura di perdere la matrice culturale, ritenuta pura e incontaminabile. I “guanti” mentali, da noi talvolta adoperati quando osserviamo questo tipo di realtà, ci proteggono dalla paura di possibili contaminazioni, non batteriche, ma culturali (!), separandoci sempre di più dal processo trasformativo che è insito nel conoscere. Siamo disposti ad ogni espediente “cautelativo”, pur di non “toccare” la realtà!
Se si vuol comprendere meglio la sofferenza psichica e quale possibile aiuto dare, si deve con-dividere la storia di chi la racconta, viverla in prima persona, iniziando insieme un viaggio diverso, di conoscenza reciproca, un punto di riferimento necessario per “esserci”! Il rischio “della presenza”, evocato dal già citato De Martino, è forse quello psichicamente più dannoso perché mina esistenze già lacerate, cancellando fra l’altro quell’orizzonte culturale che può garantire l’esistere nel mondo e la possibile partecipazione alla costruzione di un altro (che si spera) migliore. Sarà meno difficile sentirsi a casa nel mondo, se contribuisce a trasformare la cultura della diffidenza in quella dell’accoglienza, quella del pregiudizio in quella dell’ascolto.
Racconterò infine una mia esperienza “come antropologo(urbano) sul campo”, per me molto significativa e trasformativa. Fra l’altro, mi ha soprattutto insegnato che per com-prendere un mondo diverso dal tuo, bisogna essere umili e disponibili ad accettare tutte le possibili chiavi d’accesso (anche le più inusuali). Ecco quindi quanto è accaduto ad un giovane psichiatra che va a lavorare nella periferia più sconfinata di Roma.
Quando arrivai trentenne, al Centro di Salute Mentale, posto in cui dovevo iniziare a lavorare, osservai come molti pazienti parlavano di calcio come se fosse un linguaggio con parole specifiche e significati precisi. Per me, tutto era molto oscuro, ai limiti di una incomprensibilità che mi rendeva sempre più lontano da quel mondo! Capii che per intendere meglio quel tipo di comunicazione, avrei dovuto imparare un’altra lingua, attivare un altro canale comunicativo. La mia “cassetta degli attrezzi” non era adeguata!
Vicino al CSM, c’era un bar (l’unico in quella landa desolata) tenuto da due fratelli appassionati di calcio delle due squadre di Roma (per mia fortuna uno tifoso della Roma e l’altro della Lazio!). Capii che dovevo “apprendere” da loro nomi, soprannomi, significati e grammatica! Come a scuola!. Il giorno delle “lezioni” era di lunedì, dopo che si erano disputate le partite. Appresi quindi slang, modi di dire, soprannomi etc . Queste acquisizioni mi aiutarono meglio nel momento in cui dovevo formulare una diagnosi in base a quello che veniva detto da alcuni pazienti. Infatti durante la visita non conoscendo termini e grammatica di chi mi stava di fronte era facile cadere in un errore diagnostico! Ad esempio, quando Mario, paziente grave, raccontava che «il principe non si è proprio visto ieri…» oppure «che il barone stava dormendo per non accorgersi che …», .se non si avevano opportune chiavi di lettura si sarebbe partiti per “situazione delirante”! In realtà, secondo il «calcese» –neologismo per indicare il linguaggio del calcio (che io “dovetti” imparare!) – per “barone “si doveva intendere l’allenatore della Roma, Niels Lidhom, per “principe “si intendeva Giannini il calciatore leader della squadra etc [15].
In sintesi, il lavoro, simile a quello dell’antropologo, nel senso di “andare a conoscere” e di “sporcarsi le mani” è importante per chi lavora nei luoghi di cura e di accoglienza. Questa disposizione d’animo ci può aiutare nelle nostre città, nelle nostre realtà urbane così ricche di problemi ma anche di umanità, di culture, da qualcuno soprannominate suburbane, forse per indicare una sorta di gerarchia culturale fra un centro e una periferia. Si potrebbe anche essere d’accordo con questa definizione ad una condizione: sapere alla luce di oggi quale è veramente il centro e quale è la periferia!