La cura dell’ambiente è uno dei temi fondamentali all’interno del dibattito sul concetto di cura (Mortari, 2022) oltre alla cura di sé e degli altri (Orefice, 2020). Nell’ottica dell’Educazione alla Cittadinanza Globale (GCE), l’ambiente è legato ai diritti fondamentali dell’essere umano e attraverso questa prospettiva sono stati stabiliti i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 che pone le basi per costruire un mondo diverso e dare a tutti e a tutte la possibilità di vivere in un mondo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale, economico. Alcuni di questi obiettivi, a mio avviso, si intrecciano poiché se da un lato ad esempio la parità di genere e la lotta al cambiamento climatico sono due obiettivi imprescindibili, dall’altro alcune evidenze scientifiche dimostrano quanto sempre di più chi si fa carico della cura dell’ambiente, del sé e degli altri sono le donne.
Questo contributo propone una riflessione sul concetto di cura in una prospettiva di genere, analizzando fenomeni come l’eco gender gap. Se da un lato Kuhse (1997) sostiene infatti che le donne si occupino più di cura degli uomini perché sarebbe il costume sociale che le porta a occuparsi di chi ha bisogno di cure, Nussbaum (2000) afferma che l’attività della cura è irrinunciabile e su di essa dovremmo fondare la cittadinanza, dando spazio ai bisogni di cura e all’onere delle persone che se ne occupano. La parola ecofemminismo compare per la prima volta nel 1974 in uno scritto della francese Françoise d’Eaubonne, “Le féminisme ou la mort” in cui si soffermava sui costi ambientali dello “sviluppo” e individuava nelle donne i soggetti del cambiamento.
In Italia, l’ecofemminismo ha avuto un impatto politico significativo soprattutto a partire dal 1985 grazie anche ai contributi di numerose studiose tra cui Donini e in seguito a disastri come quello di Cernobyl. L’universalità e l’oggettività delle scienze dure vennero messi in discussione in quanto contraddetti «nel profondo dalla loro intrinseca parzialità di genere» (Donini 1990: 19). Questo capovolgimento di prospettiva prodotto dai movimenti delle donne ha avuto esiti di grande rilievo in ogni ambito disciplinare. Tuttavia, oggi le ragioni alla base del movimento ecologista sono più evidenti, per le devastazioni prodotte dai cambiamenti climatici e la crescente consapevolezza delle loro cause. Alcuni studi femministi (Marcomin e Cima, 2017) hanno messo in discussione in maniera radicale il dominio maschile sulla natura, supportato dalla scienza e dalla tecnica.
Una studiosa che per molti anni ha affrontato il tema della cura dell’ambiente, della cura di sé e della cura del mondo è stata la filosofa Elena Pulcini, che soprattutto nei suoi ultimi scritti si è concentrata sul tema della vulnerabilità, intesa come condizione esistenziale comune ma anche come prospettiva a partire dalla quale costruire un futuro sostenibile. Così la descrive Francesco Raparelli nei giorni successivi alla sua scomparsa avvenuta nel 2021, dovuta a complicazioni legate al Covid 19. «Lei, raffinata e colta quanto dolce, seguendo Arendt e Weil, il femminismo dell’etica della cura, ma scavando “dentro e contro” il paradigma antropologico della modernità» (Il manifesto, 11/04/2021 https://ilmanifesto.it/elena-pulcini-la-filosofa-che-ascoltava-la-vulnerabilita).
Per Pulcini è necessario recuperare il valore della cura, liberandola dalla sua tradizionale connotazione negativa. Questo implica innanzitutto due operazioni critiche: da un lato, mettere in discussione la figura del soggetto sovrano (dal soggetto cartesiano all’homo oeconomicus della tradizione liberale), cioè rivelare l’unilateralità di quello che è stato definito un “disengaged self”, un Sé separato dalle relazioni e dai contesti, come nel caso del modello maschile-patriarcale; dall’altro, restituire valore alle nozioni di dipendenza e relazione, liberandole dai connotati di sacrificio e oblazione, storicamente legati al femminile. Riabilitare la cura significa, in altre parole, immaginare un soggetto capace di coniugare in sé autonomia e dipendenza, libertà e relazionalità, superando la visione dicotomica che pone in contrasto la priorità dell’Io con quella dell’altro (Pulcini 2009).
Come sostiene Mortari, anche il concetto di self-made man è un inganno simbolico (Mortari 2022: 18), non esistono persone che possano costruire il loro futuro da sole. Ognuno di noi tesse continuamente relazioni con gli altri e se si raggiungono posizioni di prestigio a livello accademico e professionale, molto probabilmente qualcuno si è preso cura del nostro percorso di apprendimento e del nostro percorso professionale e ci ha accompagnato in questo cammino. Secondo Nussbaum (2002) spesso le donne si fanno carico di situazioni in cui la dipendenza è molto forte (bambini, anziani, disabili) poiché più disponibili ad accettare lavori part time o rinunciare alla carriera. La professione del medico invece, oltre ad essere ben remunerata ha un enorme prestigio sociale poiché si tratta di indicare una terapia al paziente che poi viene preso in carico e curato dal personale sanitario (infermieri, O.S.S.).
Come siamo arrivati a questo? La parabola dell’individualismo moderno e del soggetto sovrano ha finito per oscurare, o meglio, per eliminare, quella condizione fondamentale di vulnerabilità che, se riconosciuta, potrebbe spingere l’individuo a comprendere la propria insufficienza e la propria dipendenza dagli altri, il suo essere inevitabilmente legato agli altri, alle loro vite e ai loro destini. Come direbbe Lévinas, è urgente che avvenga un “risveglio” del soggetto (2011); e questo, non può che avvenire attraverso il recupero della dimensione dimenticata, che è il primo passo verso la consapevolezza etica della propria fragilità. Come sostiene Mortari «[…] l’infinitezza dell’altro è un’infinitezza di valore; la presenza dell’altro è traboccante di valore. Accogliere l’altro nella sua infinitezza di valore significa avvertire la necessità di monitorare ogni nostro gesto e ogni nostra parola affinché il rispetto non venga mai meno. L’altro è inviolabile e sacro nella sua vulnerabilità» (Mortari, 2022: 59).
D’altra parte Chiara Bottici, come Pulcini, sostiene l’importanza della specificità femminile e propone un’alternativa alla cultura patriarcale, pur facendo attenzione alle conseguenze di un agire prometeico. Basandosi sui black studies, sulla cultura indigena e sulla teoria queer, sul femminismo e sull’anarchismo, l’allieva di Pulcini cerca di sviluppare una politica di solidarietà alla ricerca di una nuova definizione di potere e di un nuovo terreno che ci consenta di relazionarci all’interno dell’uguaglianza (Bottici 2021: 37-38). Ma quali sono le conseguenze spesso involontarie del femminismo quando non è completamente intersezionale? Quando le femministe «si concentrano semplicemente sulle proprie lotte specifiche senza tenere conto di quelle degli altri, può succedere che la loro emancipazione avvenga a spese di un’ulteriore oppressione per le donne meno fortunate, a partire da quelle che più spesso le sostituiscono nel lavoro riproduttivo all’interno della famiglia» (Bottici 2021: 83).
A questo proposito i dati riguardanti le professioni di cura oggi confermano che questa sfera rimane ancorata al mondo femminile, basti pensare che nel 2022/23, in cattedra negli istituti statali sono state 768.667 docenti donne, l’81,5%, sul totale di 943.681 insegnanti, di cui il 75% di ruolo e il restante 25% supplenti (https://www.ilsole24ore.com/art/8-marzo-scuola-e-donna-professoresse-sono-l-815-cento-AFKUvMzC?refresh_ce=1 ). Il tema della cura rimane tra l’altro fino agli anni ‘70 un argomento quasi del tutto inesplorato. Fino a questo periodo storico è stato un tema marginale o addirittura assente e solo di recente hanno iniziato ad occuparsene le scienze della formazione. La causa di questa assenza potrebbe essere attribuita al fatto che spesso sono «invisibili attori sociali» (Diemut E. Bubeck 2002: 169) che se ne occupano come le donne nel caso delle professioni sanitarie e dell’insegnamento o i migranti e le migranti nel caso delle «badanti». In base ai dati INPS il Nord-Ovest ha il maggior numero di lavoratori domestici (30,8%); il 35,4% del totale proviene dall’Europa dell’Est. In totale in Italia sono 894.299 i lavoratori domestici di cui l’86,4% sono donne (https://www.inps.it/content/dam/inps-site/it/scorporati/comunicati- stampa/2023/06/Allegati/3322_Cs_Convegno-InpsNC_21062023.pdf)
La conclusione su questo tema alla quale arriva J.C. Tronto (1995) è che la cura come attività svalutata riguarda in particolare le categorie di donne appartenenti a classi svantaggiate che svolgono un servizio nei confronti di persone privilegiate in grado di permettersi di pagare altri che si prendano cura di loro. Come sostiene Bruna Bianchi (2012) l’ideologia che giustifica l’oppressione in base alla razza, alla classe, al genere, alla sessualità, alla specie, è la stessa che sancisce il dominio sulla natura. Il patriarcato, il colonialismo e lo sfruttamento delle risorse del nostro pianeta si oppongono da sempre al senso di cura tipico del femminismo e dei movimenti di decolonialismo. In un’ottica di “economia dell’esperienza maschile”, definita così da Mary Mellor (2006), l’uomo economico è adulto, fisicamente efficiente, mobile, libero dalle responsabilità domestiche e verso il modo di produzione delle merci o dei servizi che consuma, staccato dall’ecosistema.
D’altra parte, il lavoro delle donne, riflettendo i bisogni del corpo, è radicato negli ecosistemi locali e non può allontanarsi dalle proprie responsabilità. Esso rappresenta la realtà fondamentale dell’esistenza umana (Mellor 2006). Rispetto alla questione ecologista della cura dell’ambiente, un interrogativo sul quale ritengo sia urgente riflettere riguarda il fatto che gli uomini sono meno propensi delle donne ad acquistare prodotti e adottare comportamenti ecosostenibili. La questione verrà qui analizzata prendendo in analisi studi svolti in Libano, Regno Unito e Stati Uniti.
Mentre ricerche più datate attribuiscono questo divario di genere nel consumo sostenibile alle differenze di personalità tra i sessi, alcune ricerche più recenti svolte attraverso la somministrazione di questionari a studenti di varie università americane (Brough et all., 2024) ipotizzano che il gap possa anche derivare in parte da un’associazione prevalente tra comportamento green e femminilità e da uno stereotipo corrispondente (sostenuto sia da uomini che da donne) secondo cui i consumatori green sono più femminili. Se da un lato gli uomini tendono a essere più preoccupati delle donne per il mantenimento dell’identità di genere, Brough e altri sostengono che questo stereotipo green-femminile può motivare gli uomini a evitare comportamenti green per preservare un’immagine da “macho”.
I concetti di greenness e femminilità sono cognitivamente collegati e, di conseguenza, i consumatori che adottano comportamenti green sono stereotipati dagli altri come più femminili e persino percepiscono se stessi come tali. Inoltre, la volontà degli uomini di adottare comportamenti green può essere influenzata minacciando o affermando la loro mascolinità, nonché utilizzando un marchio green maschile piuttosto che convenzionale. Insieme, questi risultati collegano le letterature sull’identità e la sostenibilità ambientale e introducono la nozione che, a causa dello stereotipo del femminile verde, il mantenimento dell’identità di genere può influenzare la probabilità che gli uomini adottino comportamenti sostenibili. Ricerche precedenti hanno spiegato questo divario di genere nella sostenibilità ambientale esplorando le differenze nei tratti della personalità tipicamente osservati nelle donne rispetto agli uomini. Ad esempio, la preoccupazione delle donne per l’ambiente è stata attribuita alla loro tendenza ad essere più pro sociali, altruistiche ed empatiche come gli studi sulle professioni di cura evidenziano (Mortari, 2023; Dietz et al. 2002).
Le donne mostrano anche una maggiore capacità di comprensione del punto di vista degli altri e un’etica della cura più forte, entrambe collegate all’ambientalismo (Zelezny et al. 2000). Inoltre, le donne potrebbero mostrare un maggiore impegno verso l’ambiente perché sono più inclini ad adottare una prospettiva temporale orientata al futuro, quella che in psicologia viene definita memoria prospettica (Eisler e Eisler 1994) e sono più preoccupate per la salute e la sicurezza, in particolare se i loro figli vivono in casa (Davidson e Freudenburg 1996). Ci sono diverse ragioni per cui il binomio ecologia e femminilità sembra essere cognitivamente inseparabile tra i consumatori sia maschi che femmine. Ad esempio, molti messaggi promozionali ambientalisti utilizzano stili e colori di carattere che sono più femminili che maschili. Inoltre, molte campagne pubblicitarie legate al marketing ecologico si concentrano su aree in cui le donne tendono a essere più coinvolte degli uomini, come la pulizia, la preparazione dei cibi, la salute familiare, il bucato e la manutenzione domestica.
Più in generale, l’ambientalismo e il conservazionismo riflettono la cura e la protezione dell’ambiente, che sono tratti tipicamente femminili (Tavris 1999), e i consumatori ecologici sono valutati come più cooperativi, altruisti ed etici rispetto ai loro omologhi “non verdi” (Ibidem). Infine, nella misura in cui le donne sono effettivamente più ecologiche degli uomini, questa associazione potrebbe essere semplicemente il risultato degli esempi che vengono in mente quando si pensa alle persone che tipicamente si impegnano in comportamenti sostenibili. Se un’associazione tra ecologia e femminilità è sufficientemente forte, potrebbe influenzare i giudizi sociali e la percezione di sé. Uomini e donne potrebbero giudicare chi adotta comportamenti ecologici come più femminile rispetto a chi non lo fa, e nella misura in cui tale stereotipo viene interiorizzato, gli uomini e le donne che adottano comportamenti ecologici potrebbero sperimentare un aumento del senso di femminilità. Pertanto, uno stereotipo “femminile-green” potrebbe essere sostenuto dai consumatori di entrambi i sessi e potrebbe influenzare la percezione di sé e degli altri.
Altra ricerca interessante riguardante la connessione tra genere e scelte legate all’ecologia è quella svolta da Darwish e altri (2016) in Libano. Questo studio esplora diversi fattori che influenzano le scelte d’acquisto di cibi biologici e a km zero di clienti in ristoranti eco-friendly in Libano. La prevalenza ancora oggi dell’influenza femminile nella sfera culinaria, in alcuni Paesi del mondo, vede le donne come mediatrici nella relazione tra i fattori pro-ambientali e l’intenzione di acquisto di cibi biologici da parte dei clienti. La ricerca di tipo quantitativo, si è svolta tramite la somministrazione di circa 400 questionari. I risultati indicano che la preoccupazione per l’ambiente, il valore sociale, l’innovazione e l’efficacia percepita dal consumatore, tramite la mediazione femminile, hanno un impatto positivo sull’intenzione di acquisti “green” da parte dei clienti. Lo studio sottolinea inoltre l’importanza, per le donne, di esser parte di gruppi di attivisti ambientali per aumentare gli acquisti “green”. Secondo le ricerche svolte nel 2018 in Inghilterra da Mintel, l’agenzia di market intelligence britannica, il divario ecologico di genere vede il 71% delle donne vivere in modo più etico, rispetto al 59% degli uomini (https://www.mintel.com/press-centre/the-eco-gender-gap-71-of-women-try-to-live-more-ethically-compared-to-59-of-men/). A livello nazionale, il 65% dei britannici afferma di cercare di vivere in modo più etico rispetto al 2017, ma mentre una consapevole percentuale del 71% delle donne sta aumentando il proprio impegno verso uno stile di vita etico, solo il 59% degli uomini afferma di aver vissuto in modo più etico nell’ultimo anno. Il 61% della popolazione britannica sostiene di incoraggiare familiari e amici a essere più etici. Ma ancora una volta, gli uomini (56%) sono meno inclini delle donne (65%) nel sostenere i loro amici ad adottare uno stile di vita etico.
La ricerca di Mintel mostra anche che gli uomini sono significativamente meno coscienziosi delle loro controparti femminili quando si tratta di mantenere abitudini ecologiche. Infatti, mentre il riciclo è diffuso nel Regno Unito tra il 72% della popolazione, gli uomini (67%) sono notevolmente meno propensi delle donne (77%) ad essere impegnati nel riciclo quotidianamente. Mintel rivela inoltre che le donne (64%) sono più inclini degli uomini (58%) ad abbassare/spegnere il riscaldamento quando non sono a casa. Altre aree di notevoli contrasti etici tra uomini e donne includono la conservazione dell’acqua, poiché il 30% degli uomini cerca sempre di usare meno acqua rispetto al 38% delle donne, e lo spreco alimentare, poiché il 27% degli uomini effettua di frequente compostaggio di rifiuti alimentari rispetto al 33% delle donne.
Se da un punto di vista politico e di linguaggio le donne sono il soggetto del femminismo, ci troviamo di fronte ad un discorso legato ad una delle tante versioni della politica rappresentativa. Il soggetto femminista si rivela essere costruito discorsivamente dallo stesso sistema politico che si suppone ne promuova l’emancipazione (Butler, 2023). La svolta avvenuta dagli anni ‘80 sino ad oggi rispetto all’attenzione all’ambiente, alla consapevolezza ecologica e all’educazione al rispetto della natura si trasforma, in ambito scolastico, nell’insegnamento ai bambini delle complesse interconnessioni che regolano la vita, evidenziando la rete di relazioni che lega l’essere umano agli altri esseri viventi e alla natura, essenziale per la sopravvivenza del pianeta. Come sostiene Zambrano «Il sentire è ciò che ci fa sentire la vita, dove essa è e dove non è, o dove non è ancora» (Zambrano, 1989:30). Proiettarsi al futuro e far proiettare le future generazioni in un presente che ancora è in costruzione permette alle giovani generazioni di prendersi cura già di un futuro embrionale.
Il tema dell’intima connessione tra ricerca ambientale e ricerca di genere in ambito educativo, è un tema sul quale ora più che mai è necessario fare ricerca, promuovendo basi teoriche, storiche, ma anche contemporanee ed esperienziali, per coloro che lavorano per definire un nuovo mondo che rispetti l’ambiente e l’alterità in tutte le sue manifestazioni. Un pensiero che metta al centro la continuazione della vita sul nostro pianeta, tutelando l’esistenza della Terra e delle generazioni future.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
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Sabina Leoncini, è assegnista di ricerca e docente a contratto presso Unisi (M-PED01); laureata in antropologia, è Dottore di Ricerca in Scienze della Formazione. I suoi principali ambiti di interesse sono: il concetto di cura, la rieducazione in carcere, la parità di genere e l’inclusione sociale. Si è occupata dell’educazione mista in Israele/Palestina e del significato socio-culturale del muro che separa Israele e Cisgiordania. Ha collaborato con alcune Università straniere tra le quali l’università Ebraica di Gerusalemme (HUJI), l’Istituto Universitario Europeo (EUI) di Fiesole, l’Università Ludwig Maximilian (LMU) di Monaco. Ha usufruito di varie borse di studio (MAE, DAAD) e partecipato a progetti ministeriali tra cui PON. Ha insegnato Filosofia e Scienze umane nei Licei e si occupa di progetti europei da diversi anni, in particolare all’interno del programma Erasmus Plus e Horizon. Dal 2023 è socia dell’Associazione Pantagruel per i diritti dei detenuti.
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