Al netto delle dispute accademiche, delle diverse scuole di pensiero e degli infiniti dibattiti sullo statuto epistemologico della disciplina, il destino dell’«antropologia» sembra proprio inscritto nel suo nome: il «discorso sull’anthropos» pare non avere limiti e costringe gli studiosi a rincorrerne il perimetro da un estremo all’altro nell’impresa impossibile di fissarne su carta confini sempre mobili e cangianti. Chi studia l’essere umano utilizzando le categorie dell’antropologia culturale, infatti, può dedicarsi a cose radicalmente diverse, nello spazio e nel tempo, e la sua identità può occupare idealmente uno spettro amplissimo che va dall’avventuriera alle prese con l’alterità più spinta, all’osservatore che, ad esempio, nota con attenzione tutto quel che di significativo accade, al di là delle transazioni economiche, all’interno di un supermercato, passando per l’attivista engagé che vuole portare sul campo il potenziale trasformativo del suo sapere facendo fronte comune con le soggettività presso cui fa ricerca.
Antropologi ed antropologhe possono allora essere i «mercanti di stupore» e gli «spacciatori di stranezze» cantati da Clifford Geertz (2001: 81): figure giramondo che attraversano/abitano temporaneamente aree dimenticate dalle scienze più nobili per raccogliere dati in grado di scalfire il senso comune eurocentrico e le sue radicate convinzioni etnocentriche; possono essere i militanti cari a Nancy Scheper-Hughes (1995): soggetti che non si accontentano di registrare, interpretare e spiegare ciò che vedono, ma che vogliono, da una prospettiva marxista, contribuire a cambiare il mondo «parlando in faccia al potere»; possono essere, come prescrivevano Billy Ehn e Orvar Löfgren (2010), acuti analisti di spazi banali e anonimi in cui sembra non accadere proprio nulla.
Per quanto sia difficile – e forse inutile per una scienza così anarchica e metodologicamente inquieta come l’antropologia – cercare di sussumere tutte queste anime in una sintesi perfetta, c’è forse un elemento in grado di fare da minimo comun denominatore a esperienze così lontane e finalità euristiche all’apparenza tanto diverse. Si tratta, si potrebbe sostenere, della tanto bistrattata categoria di cultura: il connettivo che rende significativa ogni attività umana e che avvolge, con la sua variabilità, mutevolezza e storicità, qualsivoglia atto o gesto prodotto dall’essere umano in un determinato contesto; il demartiniano sistema simbolico-materiale in grado di tenere radicate le persone nel mondo rendendolo, di volta in volta, familiare e significativo. Oggettificando, registrando, decostruendo, criticando, dunque, gli antropologi e le antropologhe, a dispetto dei campi che esperiscono, studiano la cultura e il modo in cui essa dà forma e valore agli universi che indagano. E la cultura si trova ovunque, anche dove sembra non succedere nulla, anche nel regno dell’automatismo e del riflesso incondizionato, anche nella quotidianità in cui viviamo e ci muoviamo senza mai fermarci davvero ad analizzare il senso della nostra presenza e delle nostre azioni. Anche al bar.
A tutta prima il bar sembrerebbe uno spazio decisamente “poco antropologico” e si sarebbe tentati, per descriverlo, di ricorrere all’abusatissima (e piuttosto infelice, bisogna ammetterlo) categoria di «non luogo» coniata da Marc Augé. Area di passaggio in cui la gente va di fretta e si ferma giusto per un caffè; oppure, all’inverso, buco nero in cui perder tempo spettegolando, giocando e spendendo senza apparente costrutto; o ancora bastione ultra-conservatore e ultra-retorico del “senso comune” e del “qualunquismo”, il bar può apparire come il trionfo della logica pratico-economica e della ripetizione: una zona di scarso interesse in cui, al di là delle transazioni finanziarie che costituiscono l’inevitabile esito dei rapporti che vi si inscrivono e dei classici e retrivi “discorsi da bar” che vi riecheggiano, tutto è fermo e sostanzialmente privo di valore simbolico-culturale.
Eppure, se ci riflettiamo bene e aguzziamo la vista anche solo per il tempo di un cappuccino (cosa che notoriamente non succede, se non c’è un progetto intenzionale a monte), al bar accadono tantissime cose degne di nota: le dinamiche tra i membri del personale, tra il personale e i clienti e tra gli stessi clienti producono relazioni di vario tipo; la disposizione degli spazi e le maniere in cui la clientela se ne appropria, anche se per qualche minuto, costruiscono mondi e visioni del mondo; i modi in cui gli oggetti vengono utilizzati e costantemente risignificati, in generale i modi in cui essi comunicano con gli esseri umani, dicono tanto dell’identità delle cose e dell’identità delle persone. Il bar, dunque, non è affatto uno spazio anonimo e immobile, è invece un crocevia di interazioni in grado di raccontare ogni giorno decine di storie differenti, alcune delle quali interpretate da mesi, se non da anni, dagli stessi attanti.
Il bar, parafrasando Tuan Yi-Fu (1974), può essere considerato un «campo d’attenzione», la cui densità e identità dipendono dall’investimento emotivo e dalle azioni messe in atto dai soggetti che lo frequentano (abitualmente e saltuariamente). Ecco allora che l’etnografia, con la finezza del suo sguardo e la vocazione microscopica che la contraddistingue – quella in grado, come diceva Clifford Geertz, di distinguere un ammiccamento da un tic –, si configura come un approccio particolarmente adatto a notare particolari all’apparenza insignificanti, eppure rilevanti per comprensione dei nostri modi di stare al mondo ogni giorno (dei nostri modi di fare mondi), abitando spazi e utilizzando oggetti, senza nemmeno esserne veramente consapevoli, in modalità sempre nuove e differenti. Ecco allora che, da una simile prospettiva, è perfettamente possibile produrre interessanti discorsi (antropologici) da bar.
Un’etnografia di questo tipo è quella condotta da Denise Pettinato a Macerata e pubblicata nel 2022 da Pacini Editore con il titolo Etnografia al bancone. Spazi, corpi, oggetti nelle pratiche del bar. Il testo, come si vedrà nelle righe che seguiranno, è particolarmente interessante per almeno due aspetti: i contenuti trattati, comprese le griglie interpretative utilizzate per leggerli, e l’approccio metodologico impiegato. Attraverso il ricorso all’etnografia retrospettiva e all’autoetnografia, infatti, il volume indaga «le relazioni tra i clienti e i bar da loro frequentati, con una particolare attenzione alle dinamiche di appropriazione dello spazio attraverso gli oggetti e mediante un insieme di modalità del fare che si realizzano nelle pratiche più ordinarie» (Pettinato 2022: 5).
Collocando la sua ricerca nell’ambito degli studi socio-antropologici dedicati alla cultura materiale, Pettinato fa una precisa scelta di campo e manifesta il suo interesse per i «luoghi di consumo e interazione dove ha luogo gran parte della nostra quotidianità» (Ibidem). Si tratta, evidentemente, di un esplicito riferimento a quegli indirizzi disciplinari che intendono studiare la cultura materiale e popolare superando l’ingombrante dicotomia tra folklorico e folkloristico (o folklore/fakelore): l’antropologia dei consumi, i «nuovi studi di cultura materiale» (Dei, Meloni 2015) e in generale tutte quelle scuole che cercano di affrontare senza pregiudizi i modi in cui la cultura di massa ha mandato in frantumi la fin troppo netta distinzione tra «cultura egemonica» e «culture subalterne» che per tanto tempo ha nutrito gli studi demologici. Pettinato prende sul serio questa sfida epistemologica e, con la sua descrizione/interpretazione degli spazi, dei corpi e degli oggetti nelle pratiche del bar, fa emergere significati e simboli anche laddove sembra regnare l’automatismo, ai limiti dell’anomia, dei gesti e il pervasivo spettro delle logiche di mercato:
«L’obiettivo di questo progetto è stato fin da subito quello di indagare non solo i consumi, ma l’interstizio tra questi e le pratiche microscopiche, banali e ordinarie che li realizzano, in un continuum che possa rendere conto della fruizione di un luogo da parte dei soggetti, in tutte le maniere familiari e singolari in cui questa può realizzarsi. Ecco perché nel testo sono presenti oggetti che non hanno niente a che fare con la compra-vendita o con la consumazione in senso stretto: quando si parla di alcuni gadgets, ma persino quando il protagonista è il cibo, questi elementi si legano piuttosto a politiche di costruzione dell’identità e assumono il ruolo di veri aggreganti, creatori di legami sociali. Parlare di consumi finisce quindi per essere un modo per parlare di sé, della propria quotidianità, delle relazioni che questi consumi – o non consumi – rendono in qualche modo possibili» (Ivi: 7).
Oggetti, gesti, attività, pratiche di abitazione e fruizione degli spazi del bar – elementi e aspetti minuziosamente descritti dall’autrice e presentati al lettore anche grazie all’ausilio di collages costituiti da mappe redatte dall’autrice e immagini tratte dai cataloghi dei fornitori del locale – danno corpo a un’approfondita analisi del rapporto tra le persone e le cose che le circondano; nonché, come scriveva qualche anno fa Fabio Dei a proposito delle potenzialità dei «nuovi studi di cultura materiale» e di una postura analitica molto simile a quella qui adottata da Pettinato, «dei modi in cui queste ultime sono incorporate e divengono costitutive della soggettività degli attori sociali» (Dei 2018: 231). In tal modo, dunque, la ricercatrice si libera dalle maglie di un approccio rigidamente utilitarista ed evidenzia quanto queste soggettività non siano meccanicamente eterodirette dalle leggi del mercato, del consumo e della cultura di massa; almeno non meno di quanto le azioni e le reti di senso impiegate dalle suddette persone contribuiscano a plasmare e riplasmare a loro volta tali leggi del mercato, del consumo e della cultura di massa.
Pettinato ci guida all’interno del bar Piranha di Macerata tratteggiandolo come il prodotto di un rapporto dialettico, mai dato una volta per tutte, tra le sue componenti. Utilizzando il linguaggio di Annette Weiner (2011), la sua monografia mostra i modi attraverso i quali gli spazi e gli oggetti si «densificano», ovvero i modi attraverso i quali essi vengono costantemente risignificati dalle attività del personale e degli avventori e, specularmente, i modi in cui quegli spazi e quegli oggetti finiscano con l’essere incorporati dagli esseri umani.
Il locale si trova nel rione Pace della città di Macerata ed è ubicato all’interno di uno stabile condominiale: esso non è un luogo isolato dal più ampio contesto sociale, è piuttosto una maglia all’interno di una rete di relazioni macro (con il quartiere e la città) e micro (con gli appartamenti della palazzina, di cui occupa i locali del pianterreno). Il bar in questione, al netto dell’inevitabile viavai di consumatori di passaggio, costruisce dunque la propria identità sul forte senso di appartenenza espresso dai proprietari e dagli avventori storici (quelli che Pettinato definisce «Habitué»): essi, infatti, abbattono spesso il confine tra pubblico e privato con i modi sempre uguali (e sempre diversi) in cui esperiscono l’ambiente e con l’abitudine di trasferire oggetti (i gadgets e il mobilio del locale, ad esempio), atteggiamenti e gestualità dal bar alle abitazioni e viceversa. Chi entra per la prima volta al Piranha, clienti occasionali o nuovo personale di servizio, si trova così alle prese con uno spazio carico di senso e intensamente «praticato» (de Certeau 1990), che va assorbito poco alla volta, prima di essere fatto proprio e ricostruito.
Pettinato, in consonanza con la sua antropologia dell’ordinario e dell’apparentemente banale, denota un gran gusto per la narrazione delle minuzie: la ricchezza delle sue rappresentazioni mostra bene il dinamismo del bar e dei suoi abitanti – divisi in fasce, sulla base del grado di prossimità ai titolari e al personale e della libertà con cui questi si muovono nel locale. Il gusto per l’accumulo che attraversa le pagine di Pettinato mi ha più volte ricordato, nel corso della lettura, i suggestivi bozzetti narrativi di George Perec: la vita brulicante del Piranha, i cui confini vanno ben al di là della metratura del bar per espandersi all’esterno, all’androne del condominio e ad alcuni appartamenti della palazzina (tutte aree oggetto dell’etnografia), mi ha fatto pensare infatti a quella dello stabile dell’immaginaria Rue Simon-Crubellier 11 di Parigi raccontato nel romanzo La vita, istruzioni per l’uso. La dettagliata descrizione di persone, nomi, storie, gesti, odori e sapori riesce a rendere familiare e quasi percepibile l’ecosistema Piranha e la gente che vi si muove con le proprie idiosincrasie e i propri modi di appropriarsi degli spazi; mentre la postura antropologica dell’autrice – che ricorre spesso alle riflessioni, tra le altre, di Hermann Bausinger, Pierre Bourdieu, Michel de Certeau, Erving Goffman – apre le porte di un universo fatto di agencies che si incontrano e scontrano, capitali sociali e habitus, performances, ribalte e retroscena, confini più o meno labili, gesti incorporati e oggetti che hanno, come dice Arjun Appadurai (2021), una «vita sociale» che non si risolve nella loro funzione pratica e nel loro valore economico. Lo sguardo della ricercatrice, infine, arricchisce il tutto con una prospettiva comparativa, mostrando come i campi di attenzione e relazione siano sempre e inevitabilmente delle produzioni situate: le interazioni e le pratiche del Piranha, infatti, sono messe a confronto con quelle di due locali del senese (il Caffè D. in centro e una discoteca fuori città), che hanno la funzione di controcanto e controllo rispetto alle conclusioni cui giunge l’analisi del campo principale.
Questa veloce ricognizione della densissima etnografia di Pettinato mi porta all’altro punto che evocavo in avvio del mio discorso: quello relativo alla metodologia impiegata dall’autrice per costruire il suo terreno e raccogliere i suoi dati. Pettinato, infatti, non è entrata al Piranha come antropologa, ma vi ha lavorato come barista dal 2016 all’autunno del 2019. Sebbene vi abbia praticato una vera e propria “osservazione partecipante” – almeno nei termini con cui Tim Ingold (2018) afferma che ognuno di noi, da principiante che deve imparare qualcosa, si ritrova ad usare questa tecnica nella vita –, ha maturato l’intenzione di riflettere antropologicamente sulla sua esperienza in un secondo momento, a partire dal 2020, quando aveva già lasciato Macerata per recarsi a Siena e nel bel mezzo della quarantena imposta dai protocolli di sicurezza anti-Covid. La sua è stata dunque un’etnografia retrospettiva, che l’ha portata a problematizzare lo spazio esperito per anni solo quando questo è venuto a mancare. E proprio questa assenza, in fin dei conti, ha contribuito ad attivare la sua postura antropologica mettendo in relazione il Piranha con i due nuovi locali di Siena da lei frequentati, sempre come barista, e con gli angusti spazi di casa nei mesi difficili della pandemia.
È stato in questo momento, scrive l’autrice (Pettinato 2022: 7-10), che si è innescato un intenso lavoro di ripescaggio mnemonico che, in mancanza di note di campo vere e proprie, a parte estemporanei bigliettini con velleità letterarie successivamente rifunzionalizzati in chiave etnografica, ha trovato nell’impregnazione inconsapevole cui si era sottoposta a Macerata, nel processo abduttivo aiutato dalla già ricordata pratica del collage e nell’auto-etnografia il modo per rievocare l’esperienza passata e filtrarla attraverso le categorie dell’antropologia culturale. Un processo, continua Pettinato (Ibidem), che l’ha riportata al Piranha nel periodo delle restrizioni imposte dal distanziamento sociale, questa volta da ricercatrice in piena regola, per osservazioni, colloqui e confronti con gli «Habitué» avvertiti della sua nuova identità scientifica: un’etnografia più canonica che facendo risaltare ancora una volta la differenza rispetto al prima, una differenza imposta questa volta dall’emergenza sanitaria, l’ha aiutata a richiamare le vecchie dinamiche del bar. Un percorso, infine, culminato con la discussione della tesi di laurea a Siena e la pubblicazione della monografia.
Leonardo Piasere (2002: 53) definisce l’etnografia retrospettiva come l’analisi di un «esperimento di esperienza» che diventa antropologico solo in un secondo momento: quando il soggetto ha completato il training disciplinare e il «materiale da tempo interiorizzato, da tempo lasciato a macerare nei propri ricordi e nel proprio corpo», si trasforma in un dato su cui riflettere criticamente. Analogamente, parlando della particolarità e dei limiti dell’auto-antropologia, ovvero di un’antropologia «carried out in the social context which produced it», Marilyn Strathern (1987: 17) afferma che la differenza tra ricercatori e nativi non ha tanto a che fare con la carta d’identità, bensì con i diversi processi di produzione della conoscenza: scientifica da un lato, locale dall’altro (Ivi: 27-30).
Tali considerazioni ben si adattano al lavoro di Pettinato: la sua etnografia si avvantaggia della completa immersione nella realtà del Piranha e di una serie di rapporti amicali, fatti di prossimità fisica e simbolica, ma sta sempre attenta a distinguere gli ammiccamenti dai tic. Un tale approccio, ovviamente, può aumentare le probabilità di cadere vittima della «seduzione etnografica» descritta da Antonius Robben (1995), ovvero di quel senso di eccessiva (a volte anche mal riposta) familiarità che porta ricercatrici e ricercatori a diventare nativi, a perdersi nell’abitudine e a diventare antropologicamente ciechi, o comunque megafoni degli interessi dei propri informatori. Tuttavia, nonostante parli spesso della «famiglia Piranha» (alla quale anche lei, in quanto parte dello staff, è momentaneamente appartenuta), l’indagine di Pettinato sembra avere gli anticorpi per evitare questo rischio. Grazie all’approccio comparativo e al racconto delle sue stranianti esperienze in tre diversi locali, infatti, l’autrice non perde di vista i particolari e non dà nulla per scontato usando, oltre alla microanalisi etnografica delle pratiche degli avventori, il suo corpo come strumento d’indagine antropologica. In tal modo, anche in virtù dell’osservazione retrospettiva della sua partecipazione (Tedlock 1991), la studiosa non cede alla cecità prodotta dall’abitudine e riesce a denaturalizzare ciò che a prima vista tende ad apparire ovvio, neutro e automatico: il rapporto con gli spazi e con gli oggetti; il modo in cui si entra in relazione con essi; il modo in cui questi cambiano e influenzano le persone; i processi relazionali che la gente innesca quando si muove, non importa a che livello di profondità, all’interno di un determinato ambiente.
Giunto a questo punto, in vista della chiusura di questo scritto, non mi resta che esplicitare un pensiero che mi ha accompagnato per tutta la lettura del testo di Pettinato: a che cosa serve oggi, nel 2024, una ricerca sulla costruzione identitaria, la «densificazione» degli oggetti e l’appropriazione degli spazi all’interno di un bar? Un’indagine di questo tipo può contribuire al rilancio pubblico dell’antropologia, oppure è l’ennesimo segnale del suo autocompiaciuto ripiegamento verso la marginalità scientifica? Nella postfazione a Etnografia al bancone, Pietro Meloni (ivi: 215) affronta indirettamente la questione, sostenendo che «dietro il banale c’è un bisogno di grande importanza, perché rappresenta un ritorno a una ricerca disinteressata, svincolata da correnti, mode, vincoli di una università sempre meno interessata alla ricerca di base». Sullo sfondo si stagliano le sempre più asfissianti e oggettive procedure di audit e la progressiva burocratizzazione dell’Accademia: un’etnografia come quella qui discussa, dunque, potrebbe rappresentare una voce a favore della libertà della ricerca, soprattutto per una disciplina, l’antropologia culturale, testardamente impegnata nello studio di ciò che misurabile oggettivamente non è. Ma c’è di più. Qualche anno fa, battendo alcune strade per il rilancio della demologia, Fabio Dei (2018: 148) consigliava di cercare l’odierna “cultura popolare” laddove certi eredi troppo zelanti della tradizione folklorica, a causa di un certo snobismo intellettuale e della ristrettezza delle lenti interpretative, non la cercherebbero mai: negli interstizi dell’odiata “cultura di massa”. Spingeva altresì, ironicamente (ma non troppo), gli antropologi ancora interessati al folklore a lasciare un po’ da parte i processi di patrimonializzazione, il cui studio tende inconsciamente a riprodurre l’immagine dei mondi popolari come universi culturali autonomi, per «registrare barzellette oscene nei bar, […] fotografare le scritte sui muri dei gabinetti, […] catalogare collezioni di oggetti kitsch in abitazioni della classe media» (Ibidem).
L’etnografia di Denise Pettinato, dietro l’apparente futilità del suo oggetto, si rivela allora utilissima perché si confronta con temi di enorme rilevanza per l’antropologia: la vocazione a trattare l’essere umano nella sua complessità, senza farsi ingabbiare da procedure accademiche quantitative o tendenze del momento, il suo peso politico e il confronto serio con altri approcci disciplinari (sociologia, cultural studies, psicologia, economia, scienze politiche) quando si parla di produzione e consumi culturali contemporanei. Infine, almeno per il contesto italiano, il suo lavoro ha il merito di favorire il dialogo con la tradizione gramsciana/demartiniana (Dei 2018) e di indagare, anche grazie all’apporto di stimoli provenienti da indirizzi disciplinari internazionali, dove si nasconda oggi la cultura popolare e materiale, come essa si esprima, per bocca di chi parli e come cambi nel tempo pur cercando di mostrarsi sempre uguale.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Riferimenti bibliografici
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Pettinato D. 2022, Etnografia al bancone. Spazi, corpi, oggetti nelle pratiche del bar, Pacini Editore, Pisa.
Piasere L. 2002, L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Laterza, Roma-Bari.
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Strathern, M. 1987, The Limits of Auto-Anthropology, in Jackson A., a cura di, Anthropology at Home, London, Tavistock Publications: 59-67.
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System. Ha recentemente pubblicato presso le Edizioni del Museo Pasqualino nella collana “Dialoghi” il volume Antropologia a tutto campo. Discorsi sulla contemporaneità.
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