La tesi centrale che Tobia Savoca intende argomentare nel suo Narrazioni diversive. Come il complottismo protegge il potere (Diogene Multimedia, Bologna 2023) si potrebbe forse sintetizzare così: i complotti esistono, ma, se cediamo alla tentazione del complottismo, invece di individuarli e contrastarli ne restiamo vittime. In questa tesi centrale potremmo individuare almeno quattro questioni: a) come distinguere un complotto vero da un complotto inventato? b) quali sono le radici del complottismo? c) quali le sue conseguenze deleterie? d) come contrastare la deriva complottista?
Il sottile confine fra complotti (effettivi) e complottismo (paranoico)
Cosa sia un “complotto” o una “cospirazione” lo sappiamo tutti: un accordo (segreto) di alcuni che mettono in atto una strategia tendente a danneggiare altri. Che la storia umana abbia registrato numerosi casi di complotti è altrettanto noto. Savoca ne richiama alcuni: «l’incendio del Palazzo del Reichstag a Berlino, sede del Parlamento tedesco, la sera del 27 febbraio 1933» ad opera dei nazisti; il «progetto di controllo delle menti (MK-Ultra)» ideato dalla CIA o «i diversi golpe in America Latina» (realizzati dalla medesima agenzia statunitense); le «operazioni NATO Stay Behind/ Gladio in Italia» o le strategie di «alcune fondazioni come Cooler Heads Coalition o Donors Trust» che «finanziano i think thank che cercano di seminare il dubbio sul consenso scientifico circa il cambiamento climatico» per «ritardare le limitazioni alle loro attività» o, ancora, la multinazionale Monsanto che ha «finanziato e fatto pressioni per scrivere articoli scientifici per negare la tossicità dei suoi diserbanti e reclutare troll per diffondere disinformazione e dubbi».
I complotti più insidiosi si realizzano quando consistono nel denunziare complotti inesistenti: come, nel passato, il complotto della polizia zarista che ha redatto e diffuso i Protocolli dei Savi di Sion per far credere nell’esistenza di un «Grande complotto (giudeo-bolscevico)» totalmente inventato.
Queste strategie cospirazioniste sono state, e sono, effettive. La capacità di intuirle, di verificarne la fondatezza, è un pregio indiscutibile: l’opposto dell’ingenuità di chi nutre una fiducia inscalfibile nei poteri politici, economici e culturali. Tale apprezzabile capacità è passibile di caricatura: ciò si verifica quando essa viene mimata dalla tendenza patologica a «individuare complotti ovunque e quindi a elaborare teorie del complotto».
Ma come si fa a distinguere un complotto da una vox complottista, uno scoop da una bufala? Il confine è sottile. Bisogna attraversare una corda tesa fra due baratri: la miopia di chi non riconosce i sintomi dei complotti effettivi (orditi da soggetti potenti, legali o illegali), da un lato, e l’allarmismo di chi vede trame complottiste dappertutto, seminando paure infondate e odio distruttivo. Savoca invita alla cautela intellettuale, ad avere consapevolezza del proprio paradigma epistemologico. A «destreggiarsi tra il relativismo assoluto delle interpretazioni dei fatti» (tutto può essere complotto e nulla può esserlo) e «l’aprioristica affermazione su presunte basi scientifiche di cosa siano verità ufficiali e teoria complottista» (è vero solo ciò che è dimostrabile scientificamente, tutto il resto è una balla). L’autore richiama, a proposito della necessità di «integrare lo studio dei fenomeni con strumenti e prove processuali, storiche, sociologiche», un celebre intervento di Pasolini a proposito delle stragi degli anni Settanta:
«Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di (…) immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».
Insomma: nel campo storico-sociale, come tutte le volte in cui è in gioco l’essere umano con la sua complessità, è saggio riconoscere al buon senso degli osservatori il diritto di esaminare un’ampia gamma di possibilità intermedie fra ciò che è provato in maniera incontrovertibile e ciò che è palesemente frutto di fantasia alienata. Solo i fanatici dogmatici, «negli ultimi anni di guerra e pandemia», non hanno «avvertito uno spaesamento» e hanno sposato una tesi senza ammettere neppure lontanamente la possibilità che fosse vera l’antitesi (e meno ancora l’ipotesi che bisognasse andare oltre le contrapposizioni secche fra il “così” e il “non così”). Quel che è certo è che i complotti effettivi sono stati smascherati «da giornalisti d’inchiesta, da giudici, o da commissioni parlamentari, non da chi svolge un’indagine su Wikipedia o Youtube».
A partire dalle suggestioni di Savoca, si potrebbe dunque concludere su questa prima questione che esistono complotti: a) certamente reali; b) plausibilmente reali; c) plausibilmente inventati; d) certamente inventati.
Poiché è faticoso distinguere, caso per caso, di che si tratti, l’idiozia (cui la rete telematica offre un facile amplificatore) preferisce o fare di tutte le quattro erbe un solo mazzo o ridurre la scelta a due sole possibilità (la prima e la quarta) fra le quali optare di volta in volta secondo i propri interessi utilitaristici o secondo le proprie turbe psichiche. Da qui la contrapposizione fra «la tifoseria che difende la ‘verità ufficiale’» (per gli avversari: ingenui «sudditi del pensiero unico») e la tifoseria che erige il sospetto a passe par tout di ogni tematica (per gli avversari: «complottisti da strapazzo»). L’onestà intellettuale, invece, impone di esplorare «la terra di mezzo fatta di confronto, lettura e comprensione di dati» e, solo quando è possibile oltre ogni ragionevole dubbio, denunziare i complotti veri e smascherare gli inventati, esponendo le ragioni di plausibilità e di implausibilità nei casi ‘intermedi’. Impone di esercitare «una sana sfiducia nei confronti del potere» senza scivolare nella «semplificazione mitologica degli eventi» all’insegna di una sorta di precomprensione dogmatica del tipo: «Nulla accade per caso. Nulla è come sembra. Tutto è collegato».
Le (molteplici) radici del complottismo
Sia pur con difficoltà, è possibile accertare con ragionevole attendibilità che alcune teorie sono complottiste. Da quali motivazioni traggono origine? Se si escludono i casi di vera o presunta psicopatia (spesso attribuita a chi su una questione la pensa differentemente da noi), se ne possono elencare più d’una.
Una prima ragione è di ordine psicologico: viviamo in un contesto sociale in cui diventiamo, o per lo meno ci percepiamo, come irrilevanti. Se ci riteniamo custodi di verità segrete, acquistiamo un ruolo e un senso: «il complottismo si può così leggere come una forma di ‘sovranismo piscologico’, in cui riaffermo ostinatamente l’esistenza del mio punto di vista ed erigo barriere ideologiche individuali per proteggere il mio pensiero dall’infodemia e dal conformismo ideologico liberale».
Una seconda ragione è di ordine socio-culturale: di fronte alla problematicità oggettiva del reale, l’umanità trovava conforto in “grandi narrazioni” (teologiche, filosofiche e ideologiche). La crisi di tali narrazioni libera il terreno alle teorie cospirative che, «quasi come delle credenze», «ristabiliscono la leggibilità del reale», come «veri e propri ‘miti a bassa intensità’ (Peppino Ortoleva)». Esse tendono a concentrare su «un’idea semplice» «un problema complesso» (monoideismo). Poiché «le cause degli eventi» sono molteplici, e non sempre facili da mettere a fuoco, siamo tutti propensi a ridurle «alla macchinazione di pochi».
Una terza ragione è di ordine politico: il complottismo preserva chi è nella tolda di comando dalle contestazioni della ciurma. Chi esercita davvero potere (di diritto o di fatto) ha interesse a distrarre l’attenzione, le preoccupazioni, l’ira delle maggioranze verso persone o enti che non esistono o che, pur esistendo, non possono considerarsi fondatamente responsabili di cospirazioni. Meglio che la gente insegua fantasmi ostili piuttosto che individuare, e combattere, nemici in carne ed ossa.
Il ragionamento vale anche dal punto di vista delle opposizioni: «il complottismo appartiene sia ai dominati che ai dominanti». Scalzare i governi in carica con metodo democratico implicherebbe la fatica di analizzare quali errori perpetrino; di elaborare soluzioni da adottare in alternativa; soprattutto di convincere elettori poco istruiti, e comunque poco disposti a documentarsi, della validità delle proprie tesi. Tutto questo iter impegnativo viene scavalcato inventando e diffondendo due o tre slogan complottisti che attribuiscano ai governanti dei propositi segreti ai danni delle popolazioni.
Insomma, sia dalle maggioranze al potere che dalle minoranze in cerca di consensi, le teorie cospirative sono adottate, per riecheggiare Quassim Cassam, come «una forma di politica continuata in altri modi».
Una quarta ragione è di ordine antropologico-etico: la gente, da parte sua, abbocca volentieri (sia pur inconsciamente) all’amo del complottismo – ora governativo ora contestatario – per pigrizia. È più comodo interpretarsi come vittime innocenti e impotenti di anonime strategie cospirative che mobilitarsi, sulla base di analisi scientifiche e di progetti politici attuabili, contro le storture e le ingiustizie del sistema dominante. «Chi crede nelle fantasie complottiste» cerca spiegazioni degli eventi che possano «rassicurarlo e scagionarlo da responsabilità politiche. Credere che Greta Thunberg sia manipolata» da organizzazioni mondiali anti-capitalistiche «ci solleva dal dover far qualcosa per il clima».
Le conseguenze (deleterie) del complottismo
L’ingenuità di chi si fida ciecamente delle istituzioni, senza mai sospettare complotti malefici, ha indubbie ricadute politiche negative: consente, ad esempio, all’NSA (Agenzia per la Sicurezza Nazionale) e alle organizzazioni omologhe di Russia o Cina di condizionare pesantemente le vicende storiche di interi continenti. Ma non meno tossiche sono le conseguenze politiche delle teorie complottiste.
Una prima conseguenza, macroscopica, potrebbe individuarsi nella legittimazione ideologica di fanatismi insurrezionali. Come è noto, ad esempio, Trump agita il fantasma di un Deep State che agisce nell’ombra e condiziona la vita pubblica istituzionale degli USA. Molto probabilmente egli non è per nulla convinto di questa tesi e la sventola per attrarre consensi, ma, tra i suoi sostenitori che il 6 gennaio 2021 hanno tentato di occupare il Campidoglio di Washington, non pochi erano infiammati dalla sincera convinzione che politici democratici come Hillary Clinton, attori come Tom Hanks e cantanti come Beyoncé fanno parte di «una rete globale di pedofili dediti al governo del mondo che, oltre a compiere riti satanici in uno scantinato di una pizzeria di Washington, cercherebbero di prelevare sangue dai bambini per creare una sostanza psicotropa e ringiovanente: l’adrenocromo» (“teoria cospirativa di QAnon”).
Una seconda conseguenza, meno appariscente ma più insidiosa, consiste nel costruire bersagli polemici inafferrabili che distraggono da bersagli polemici reali. Un esempio: «la crescita esponenziale del traffico aereo» è «una delle concause della crisi climatica»? Senza dubbio. Contrastarla comporterebbe sia una rinunzia da parte di noi viaggiatori all’utilizzo non strettamente indispensabile degli aeroplani sia una pressione sui governi affinché disincentivino legislativamente il continuo incremento dei voli di linea e privati: troppo impegnativo! Meglio la scorciatoia del “lavaggio complottista” grazie al quale basta denunziare su Facebook che «ci spruzzano sostanze nocive dagli aerei per controllarci». Un secondo esempio: «l’uso incontrollato della plastica ha determinato una sua presenza ormai notevole nel nostro organismo: secondo una ricerca australiana ne assumiamo involontariamente circa 5 grammi a settimana, l’equivalente di una carta di credito». Per contrastare questo avvelenamento di massa occorrerebbe una rivoluzione dei consumi (a valle) e della produzione/commercializzazione (a monte): troppo gravosa! Più facile convincersi che, tramite i vaccini, ci vengano inoculati misteriosi “microchip” e rifiutarne la somministrazione. Insomma: «le energie virtuali e fisiche indirizzate verso obiettivi fantastici, sono energie rubate alla risoluzione dei problemi reali sottesi». Lo sanno benissimo le grandi multinazionali che, per esempio, vogliono negare le proprie responsabilità per la crisi climatica o per la tossicità dei diserbanti: pagano squadre di redattori affinché moltiplichino gli allarmi fantomatici dei complottisti, li intreccino con le denunzie serie degli scienziati e abbiano buon gioco per ridicolizzare gli uni e le altre confusi in unico calderone. Insomma: «complotti reali per diffondere complottismo» ed evitare, così, le contestazioni fondate, potenzialmente pericolose.
Come contrastare la deriva complottista?
La diagnosi del complottismo ne ha lasciato intravedere, qua e là, alcune possibili terapie, tutte sintetizzabili in una parola ormai sputtanata: politica. È necessario smascherare la fake news disseminate ad arte per delegittimare l’avversario, anche se non è facile:
«Qualsiasi argomento che tenti di confutare una teoria complottista è superabile da un contro-argomento complottista a un livello superiore. Ad esempio la teoria del Grande Reset, il piano di creare ad arte una pandemia per potere controllare ad arte le persone ed imporre un governo totalitario mondiale marxista, farebbe parte del più grande complotto del Nuovo Ordine Mondiale che era nato decenni prima: entrambi si giustificano a vicenda. A sua volta il Nuovo Ordine Mondiale è una versione aggiornata del complotto giudeo-massonico. Anche quando le teorie cospirative non si giustificano a vicenda i dati empirici dimostrano che una volta entrati nella tana del bianconiglio, ovvero una volta convertiti a una teoria del complotto, si ha maggiore tendenza a credere alle altre».
Insomma, se qualcuno è incapace di smentire dubbi e accuse, replica con insinuazioni ancora più sfacciate, in una crescendo infernale dove la nozione stessa di verità viene disintegrata. Un po’ come nella vignetta in cui un Tizio, con aria furbetta, mette in dubbio che uomini siano mai sbarcati sulla luna e l’altro, con aria ancora più furba, gli oppone: “Ma tu davvero credi che esista una luna?”. Se destrutturare i complottismi è necessario (pur se arduo), non è sufficiente. Bisogna andare oltre lo smascheramento.
L’operazione che suggerisce Savoca, dall’ottica di una «visione materialista della storia», consiste in due passaggi. Il primo passo è la “decodifica” delle narrazioni complottistiche: la «traduzione delle teorie cospirative da retorica complottista a linguaggio politico in esse contenuto». Infatti, anche se può suonare come una tesi “complottista” (?!), dietro le “teorie” complottiste – che «sembrano solo vaneggiamenti» – si nascondono «dei significati politici più che dei deliri cognitivi di soggetti bizzarri»:
«l’impossibilità di generare un cambiamento politico e la difficoltà di trovare dei responsabili generano una frustrazione e una sensazione di impotenza, di essere dominati, quindi etero-diretti, controllati, che scatena delle paure collettive. Le teorie di complotto rappresentano il maldestro precipitato delle paure del momento».
Esiste davvero una società segreta transnazionale di Illuminati? Tra i personaggi pubblici più in vista sulla scena mondiale esistono davvero rettili che si manifestano in forme umane? Ovviamente siamo nel delirio. Ma c’è una saggezza in queste follie, o per lo meno
«un fondo di verità da rielaborare in altri termini per evitare che abbia una funzione diversiva. Togliendogli strati di mera fantasia su sette segrete quali Illuminati e rettiliani, il mito del ‘governo unico’ rimanda all’idea di una reale concertazione tra i detentori di grandi capitali a livello mondiale per proseguire nell’arricchimento e nel prevenire possibili rivoluzioni o ostacoli all’egemonia mondiale. La borghesia dal XIX secolo ai nostri giorni nella sua forma finanziaria concentra il potere politico ed economico e si accorda».
Una volta concesso «ai complottisti che vi siano realmente delle piramidi che sovrastano e dominano lo spazio sociale, e che le persone ai vertici lottano senza sosta per rimanere al potere, che lo ammettano o meno» (così Andrea Daniele Signorelli), bisognerebbe compiere il secondo – più arduo – passo: messi da parte «piani occulti, antisemitismo e minaccia identitaria», coalizzare e mobilitare le «sinistre mondiali radicali». «Dobbiamo riappropriarci dei meccanismi, degli spazi, delle parole, del linguaggio e delle narrazioni della politica per costruire alternative non diversive»; per prospettare «migliori scenari possibili di società e di vita». Se la gente avrà modalità fisiologiche per nominare e gestire le proprie «paure, esigenze e speranze», avvertirà sempre meno il bisogno patologico di inventarsi minacce allucinatorie e contromisure fantasiose.
Sinora ho ripreso, sia pur attraverso una griglia di cui l’autore non è responsabile, alcuni contenuti della sua proposta. A lettura conclusa non mi sono mancate perplessità e domande.
Una prima perplessità riguarda la critica che Savoca rivolge alle spiegazioni “cognitiviste” della propensione al complottismo. A suo parere, infatti, sostenere che il complottismo sia una «epistemologia zoppa» (Sunstein) o una «distorsione cognitiva» (Brotherton) – insomma il frutto di «uno scorretto uso degli strumenti che portano o meno alla conoscenza e alla ‘verità’» – sarebbe «un’interpretazione parziale e scorretta», tipica di «chi vive una posizione di privilegio», conservatrice («la società è così e non ci possiamo fare niente, non possiamo pretendere di cambiarla, né con la politica né coi complotti»): un approccio «addirittura fuorviante perché è, in sé, escludente e autoritario».
A me pare che l’autore abbia ragione quando segnala la “insufficienza” delle spiegazioni cognitiviste, ma che esageri quando dà l’impressione di stigmatizzarle duramente. Infatti se è vero che il complottismo è, prima di tutto ed essenzialmente, effetto di disabilità politica (in quanti ci credono sinceramente) e di strategia politica (in quanti lo usano cinicamente), non se ne potrebbe spiegare il crescente successo planetario se la media dei cittadini non difettasse di senso critico, di logica, di informazioni storiche e scientifiche.
Una seconda perplessità mi suscitano gli accenni, sparsi qua e là, alla «parcellizzazione delle competenze statali verso le regioni e verso l’UE» come una delle cause del senso d’impotenza dei cittadini che, a sua volta, contribuirebbe alla «impressione di essere controllati, eterodiretti», da poteri oscuri. Infatti se sono criticabili le modalità storiche effettive in cui si sono realizzate le autonomie regionali in Italia e l’unificazione europea, altrettali non sono i principi inspiratori: sia di favorire istituti di auto-governo dei territori sia di abbattere barriere statuali obsolete. La democrazia potrà avere un futuro solo se rivitalizzata in comunità circoscritte e la pace planetaria potrà essere assicurata solo da una federazione di Stati che possegga il monopolio legittimo della forza militare.
Una terza perplessità mi viene suggerita da passaggi in cui – nell’elenco di istituzioni «nate per assicurare, formalmente, un assetto mondiale di pace e di cooperazione; sostanzialmente, la concertazione di interessi capitalistici e l’egemonia americana» – accanto alla NATO, all’OMC e al FMI, si pone l’ONU. I limiti dell’ONU sono purtroppo ben noti, ma solo il rafforzamento dei suoi poteri e la revisione in senso democratico di alcuni suoi organismi (come il Consiglio di sicurezza) potranno limitare in futuro gli «interessi capitalistici e l’egemonia americana».
Una quarta perplessità riguarda l’inserimento della democrazia rappresentativa tra le concause della sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, humus nutritivo di «narrazioni ansiogene e complottistiche». Che il sistema parlamentare – e in genere la democrazia indiretta – abbiano dei limiti di rappresentatività (accentuati da metodi elettorali maggioritari) è un dato. Ma ciò vuol dire che si tratti di «un falso mito», di una «democrazia recitativa» (Emilio Gentile)? Chi ha vissuto nel Sessantotto varie esperienze di democrazia diretta ha potuto sperimentare difetti ben peggiori: tranne in piccole comunità di soggetti preparati e responsabili, il metodo assembleare è l’anticamera del leaderismo populista carismatico.
Attualmente penso che la base elettorale abbia il diritto/dovere di indicare ai rappresentanti eletti negli organi legislativi ed esecutivi gli indirizzi politici fondamentali, nonché di vigilare anche grazie al mondo dell’informazione sul perseguimento effettivo degli stessi: la determinazione delle mete fondamentali di una società non può essere delegata a nessuna tecnocrazia. Ma, anche se ciò può non entusiasmare, sul piano dei mezzi per raggiungere quei fini, la competenza di pochi è di gran lunga preferibile all’accordo di molti.
Una quinta perplessità mi viene suscitata dall’esortazione all’impegno politico. Non certo per l’intenzionalità che la anima, quanto per le modalità effettive che sembra suggerire. Infatti è del tutto condivisibile l’intento di passare dall’«innegabile” al “possibile” (evitando il balzo – a parere di Richard Hofstadter tipico dei cospirazionisti – dall’ “innegabile” all’ “incredibile”». Non è certo senza ragioni che l’allarmismo demagogico (sempre più diffuso in internet) contro nemici immaginari cresca in misura proporzionale alla diminuzione (sempre più vistosa nella vita reale) della mobilitazione politica contro nemici veri: né il tentativo di spostare la militanza dai circoli di partito nei quartieri ai meet up dell’etere ha dato sinora risultati esaltanti (come attestato dalla parabola deludente del Movimento Cinque Stelle). Ma – qui il problema – come immaginare il “possibile” verso cui transitare? Savoca evita i toni dogmatici, ma sembrerebbe indicare abbastanza chiaramente che si tratti di uscire dal “capitalismo” per attuare una “visione materialista” (marxista) della società. Se così fosse, avrei due o tre considerazioni in sequenza
Per Savoca il capitalismo è un ‘pacchetto’ unico, costituito dall’intreccio inestricabile di un ethos (individualismo competitivo), di una dottrina politica (liberalismo) e di una teoria economica (il liberismo)? Se così fosse, dovremmo accettarlo o respingerlo in blocco. E, coerentemente, l’autore lo respinge tout court: «pensare a una forma ‘ responsabile’ di capitalismo è un controsenso». Forse, però, sarebbe più saggio articolare il proprio giudizio e, ad esempio, distinguere ciò che va condannato senza esitazione («la volontà di arricchimento di pochi a scapito di molti»); ciò che va preservato gelosamente (il primo dei tre principi dell’Ottantanove: la liberté del soggetto rispetto a ogni istituzione civile o religiosa); ciò che può essere adottato con riserva e adattato ai contesti storico-sociali contingenti (la proprietà privata e la libertà di mercato).
L’illusione – e direi pure l’errore colossale – della sinistra di inspirazione marxista è consistita nel giocare l’egalité contro la liberté in polemica con un liberalismo/liberismo che aveva schiacciato la egalité per enfatizzare la liberté, sottovalutando o addirittura contrastando ogni tentativo di far valere il principio fraternité (declinata sia evangelicamente sia anarchicamente). Forse è in questa mutilazione selettiva dei tre ‘sacri’ principi dell’Ottantanove che va ricercata la causa radicale di quel «netto declino» dei partiti e dei movimenti anti-capitalistici che Savoca registra con condivisibile disappunto. La sua eziologia di questa crisi (gran parte delle sinistre radicali «sono state negli ultimi decenni o represse violentemente o fagocitate da due fenomeni concomitanti: l’europeismo, che ha frustrato quasi ogni prerogativa statale, e il centrismo liberista che ha spostato il baricentro delle lotte e delle rivendicazioni dalla lotta capitale-lavoro ai soli diritti civili»), nella misura in cui fa appello a cause esterne, mi suona consolatoria. Se la proposta marxista-leninista è entrata in crisi planetaria ciò è dovuto non soltanto a “complotti” (reali !) dell’apparato industriale-politico-militare occidentale, ma anche alla sottovalutazione da parte dei partiti e degli intellettuali di sinistra del nucleo di verità del liberalismo: la dignità intangibile di ogni soggetto, il suo diritto all’autonomia di giudizio e di azione (ovviamente senza ledere l’identico diritto di nessun altro soggetto), dunque anche il suo diritto all’eresia (rispetto ad ogni genere di ortodossia istituzionale, specie se armata).
Quanti combattiamo decisamente la cultura predatoria di cui il capitalismo attuale è, per molti versi, effetto e manifestazione abbiamo il dovere di offrire alternative migliori del socialismo ‘reale’ realizzatosi nel passato in Unione Sovietica (dove, appena possibile, la gente si è precipitata nelle braccia dell’odiato capitalismo occidentale) e, ai nostri giorni, in Cina (dove il Partito comunista ha sperimentato i vantaggi di affiancare spazi di capitalismo privato al tradizionale capitalismo di Stato).
Di un progetto alternativo sia al capitalismo liberista che al social-comunismo non abbiamo una mappa completa e definitiva, ma non siamo neppure privi di orientamenti [1]. Dal punto di vista teorico-culturale si tratta di smontare la menzogna antropologica dell’individualismo: esso non è solo falso ontologicamente (“Nessun uomo è un’isola” [2]), ma anche disastroso eticamente (la libertà del soggetto è intangibile solo se integrata con l’equità e la solidarietà: se assolutizzata diventa la caricatura di se stessa. Bisogna salvare la libertà dei liberali dai molti liberali che la identificano con il mero arbitrio egocentrico).
Dal punto di vista pratico-politico ogni strategia per il superamento del capitalismo, che voglia risultare davvero incisiva (o, se si preferisce, rivoluzionaria), non può negare per strada (e nella scelta dei mezzi) quel nucleo irriducibile di libertà che afferma come méta (e dunque include nella rosa dei fini). Perciò la mobilitazione planetaria verso una società libera/equa/solidale dev’essere graduale perché si tratta di un processo che va preceduto/accompagnato/seguito da un’evoluzione antropologica. Le scorciatoie violente, convinte di poter reprimere temporaneamente il dissenso anche minimo, si sono rivelate fallimentari. Né avanguardie partitiche né superuomini di sapore nietzschiano possono esonerarci dal travaglio della consapevolezza collettiva di ciò che non è soltanto ‘bene’, ma anche ‘utile’. La proprietà privata dei grandi mezzi di produzione, con la conseguente implicazione della differenza fra capitalisti e salariati, non può essere estirpata da un giorno all’altro per sostituirla con un capitalismo di Stato senza libertà di mercato: se un giorno ne saremo finalmente liberati, sostituendola con forme di azionariato sociale e compartecipazione agli utili (soprattutto da parte dei lavoratori di ogni livello coinvolti nel processo produttivo), sarà perché la maggioranza degli esseri umani l’avrà riconosciuta come gabbia soffocante e avrà imparato a godere di tutto ciò che la vita offre di più gratificante e di più allegro dell’accumulazione del denaro.
Questa prospettiva culturale-politica è etichettabile come socialismo liberale o socialdemocrazia? Risponderei negativamente perché le “terze vie” sinora ipotizzate sono state compromesse da troppi limiti (l’antropocentrismo, il maschilismo, lo specismo). Tuttavia essa è esposta al rischio di essere declinata in senso ‘moderato’, cautamente piccolo-borghese. Inoltre, come tutte le proposte che vogliono salvare gli aspetti anche contrari della complessità della realtà, non si lasciano ridurre a slogan né esprimere in simboli emotivamente efficaci (di cui i demagoghi complottisti, ad esempio, sono maestri). Nonostante ciò, mi pare che solo un riformismo instancabile – utopico nei fini, vigile nei metodi, esigente nei risultati a breve termine – possa risparmiare alla lunga marcia di esodo dal regime capitalistico brusche frenate o, addirittura, inversioni regressive. Se l’opinione pubblica mondiale assiste alla sostituzione della dittatura plutocratica con dittature burocratiche; alla sostituzione di differenze di classe su base economica con differenze di ceto su base di potere gerarchico, perché dovrebbe investire le sue cose più preziose nella causa della rivoluzione? Perché dovrebbe impegnare la sua unica vita disponibile per combattere l’attuale sistema ‘capitalistico’ e non limitarsi a denunziare sulla comoda tastiera di casa i complotti e i contro-complotti inventati da destra, da sinistra e da centro?
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Per un primo approccio cfr. A. Cavadi – E. Poma, La bellezza della politica. Attraverso, e oltre, le ideologie del Novecento, Di Girolamo, Trapani 2011: 167 – 186.
[2] È l’incipit di una celebre lirica di John Donne.
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Augusto Cavadi, già docente presso vari Licei siciliani, co-dirige insieme alla moglie Adriana Saieva la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo. Collabora stabilmente con il sito http://www.zerozeronews.it/. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica (con particolare attenzione al fenomeno mafioso), nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); La mafia desnuda – L’esperienza della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” (Di Girolamo, 2017); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018), Dio visto da Sud. La Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi (SCe, 2020); O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune (Algra 2021).
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