Stampa Articolo

Quando le parole appartengono al lessico familiare. Tra dialetto e letteratura

copertina gentiluccidi Marta Gentilucci

Nel 1970 Georges Peres scrisse un bizzarro libricino che intitolò Je me souviens, “Io mi ricordo”. Vi erano contenuti 480 brevissimi frammenti: ricordi di oggetti, persone, parole scomparse o dimenticate, come a voler formare una sorta di tessuto connettivo in cui un’intera generazione poteva riconoscersi.  Lo scrittore francese – che non era nuovo a questa smania di immortalare non solo parole, ma anche immagini, luoghi (Specie di spazi), ricordi (W o ricordo d’infanzia), e che di collezionisti di piccole cose poco conosciute aveva popolato il suo capolavoro, Vita istruzioni per l’uso – scrisse queste pagine, un centinaio, preso forse da una paura comune a tanti, quella che il mondo scorra troppo veloce, che ogni cosa possa andare persa. L’importanza di lasciare tracce prima che il nuovo avanzi e schiacci ciò che ci è più caro: la memoria, che è anche memoria linguistica.

A leggere Le parole del tempo perduto di Roberto Sottile (Navarra editore, 2016, prefazione di G. Ruffino) si ha impressione che l’intento sia quasi lo stesso del libricino di Perec: rendere perdurabile una memoria, innanzitutto linguistica, destinata altrimenti a dissolversi. Costruire una sorta di lessico familiare o generazionale che rimanda alla dimensione di un’era che fu, in gran parte scomparsa, in cui il dialetto siciliano definiva ancora un repertorio di significati condivisi, perché era la lingua degli affetti, «un fatto confidenziale, intimo, familiare» [1], che sopravvive nei racconti dei nonni o nelle pagine dei romanzi.

1I compagni della narrazione di Sottile sono infatti proprio i grandi scrittori siciliani: Andrea Camilleri, innanzitutto, ma anche Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Susanna Agnello Hornby, Roberto Alajmo. Ognuno con la propria personalissima concezione del rapporto tra letteratura e dialetto: da quella di Camilleri, colui che più degli altri ha “contaminato” la scrittura narrativa con la lingua della sua terra d’origine, facendo del dialetto siciliano una bandiera internazionale, a quelle più moderate e talvolta controverse di Sciascia, Bufalino, Consolo. Ne La lingua batte dove il dente duole, il libro scritto con Tullio De Mauro, è lo stesso Camilleri che racconta di piccoli screzi avuti con altri autori proprio riguardo il dialetto:

«Ebbi una discussione con Sciascia proprio su questo. Quando gli diedi La strage dimenticata, mi disse: “Guarda che tu non puoi scrivere in questo modo”. “Io so scrivere solo così”, gli risposi. “Allora scrivimi così un trattato di filosofia”. E così ci mettemmo a parlare dei limiti del dialetto in questo senso, e convenimmo che mentre la lingua ti dà la possibilità tanto del discorso colloquiale quotidiano quanto del discorso accademico, il dialetto no».

O con Vincenzo Consolo, che gli rimproverava «di portare il dialetto a un livello estremamente basso. Mentre lui adoperava un dialetto che non usava neanche Pirandello, che si guardava bene dal dialetto letterario. Pirandello usa un dialettaccio girgentano meraviglioso».

Nel libro di Sottile memoria linguistica e letteraria s’incrociano in una collectio di parole che procede non in ordine alfabetico – perché la memoria, come scriveva Sciascia, non ha un andamento lineare, è soggetta a sbalzi, a improvvise interruzioni – ma “per libere associazioni”: «una per pagina, e, se lette orizzontalmente , sarà sempre possibile trovare tra loro una qualche affinità». Il metodo utilizzato è simile a quello che i primi trattatisti della memoria chiamavano “teatro”: cioè un sistema di luoghi, di immagini, di azioni, di parole atto a suscitare nella memoria altri luoghi, altre immagini, altre azioni, altre parole, in continua proliferazione e associazione. L’ultima operazione spetta al lettore, a cui viene lasciato ampio margine d’inventiva, rendendolo complice di un tentativo: dare una nuova accianza di sopravvivenza a parole in disuso. Quello di Sottile non è un mero assemblaggio ma un’operazione più simile a quella del Pierre Menard borgesiano [2], che ricopia il Don Chisciotte di Cervantes e il risultato è in tutto uguale e in tutto diverso dall’originale, perché

«Un libro non esiste in sé, e non soltanto per l’ovvio fatto che la sua vera esistenza, al di là della sua fisicità, consiste nell’essere letto, ma soprattutto perché è diverso per ogni generazione di lettori, per ogni singolo lettore e per lo stesso singolo lettore che torna a leggerlo. “Ogni volta è diverso”. Un libro, dunque, è come riscritto in ogni epoca in cui lo si legge e ogni volta che lo si legge. E sarebbe allora un rileggere il leggere: ma un leggere inconsapevolmente carico di tutto ciò che tra una lettura e l’altra è passato su quel libro e attraverso quel libro, nella storia umana e dentro di noi» [3].

Allo stesso modo le parole, estrapolate dal contesto in cui si usavano,  risultano “in tutto uguali e in tutto diverse”, e così trovano nuova vita. Parafrasando: una parola è diversa per ogni generazione di parlanti, per ogni singolo parlante e per lo stesso singolo parlante che torna a utilizzarla. Come scrive Sottile nell’Introduzione:

«A volerci ben pensare, le parole del tempo perduto sono come quelle palline di mercurio che si spargevano sul pavimento quando ci capitava di rompere un vecchio termometro. Se mai avessimo provato a ricomporre assieme quei frammenti, essi si sarebbero riaccostati con estrema facilità, ma, messi insieme, avrebbero dato vita a un altro volume e a un’altra forma. E adesso che quel vecchio termometro lo conserviamo nel cassetto come un pezzo d’antiquariato, proviamo a immaginare che cosa prenderebbe forma sotto i nostri occhi se, per qualche ragione, dovesse capitarci di scomporre e riaccostare una volta ancora le particole della sua anima».

2.A seguito di ogni “libera associazione” di parole, Sottile annota i luoghi letterari dove tali parole compaiono come fari che ne riaccendono il ricordo. Tannura, ad esempio, un termine che i lettori di Sciascia non potranno non ricordare in una delle sue pagine più belle. Siamo quasi alla fine de Il Consiglio D’Egitto e nel macabro scenario della preparazione del lardo che brucerà i piedi di Francesco Di Blasi, già informi per le precedenti ustioni tanto da parere «sanguinolente e grommose zolle di carne», l’avvocato ripensa all’infanzia, all’odore della sugna in cucina: odore di vita, d’amore, uguale e opposto a quello del lardo che gorgoglia nella “tannura”. Così si pone idealmente sullo stesso piano dei suoi torturatori: chissà se anche loro – tornando a casa, svestendo i panni della grigia ufficialità a cui il ruolo li condanna e tornando ad essere autenticamente “uomini”, avrebbero ripensato a ciò che erano quotidianamente obbligati a compiere con un riverbero di ribrezzo, orrore, vergogna. La tannura, ci racconta Sottile prima di indicarci la corrispondenza letteraria, era il forno rustico che arrivò con gli arabi, e che i pastori transumanti cunzavano (preparavano) all’aperto per bollire il latte.

È questo l’altro dato interessante da sottolineare: l’affiorare della dimensione diatopica e diacronica di questa collectio disegna una Sicilia profondamente contaminata, traccia i viaggi migranti delle parole che uniscono paesi e popoli diversi, terre e tradizioni lontane. Come il termine chiarchiàru (cumulo di pietre, pietraia) che mescola latino e arabo e collega Maghreb e Sicilia, dato che «la base è il latino calcurarium con una probabile mediazione araba: il termine latino, cioè, sarebbe prima penetrato nel Maghreb, adattato alla fonetica araba, e poi portato in Sicilia». Sciascia ne dà suggestiva definizione in Kermesse/Occhio di capra: «il chiarchiaro è, in una collina rocciosa, un sistema di anfratti, di crepacci, di tane».  O come il più noto vucceri (macellaio), che unisce Sicilia e Francia, dal termine francese bouchier importato durante la dominazione normanna, ma che viene scalzato prima da Napoli, quando arrivò la parola chiancheri, e poi dalla Spagna, che introdusse il carnicero. La Vucciria, spiega ironicamente Sottile, è sopravvissuta però come luogo dove andare a fare baldoria, visto oggi che ci si va per l’happy hour. Tutto torna: «Non per niente in italiano macello significa “mattatoio” ma anche “baccano”».

Le curiosità linguistiche s’intrecciano con quelle antropologiche, perché sono gli usi, le tradizioni, i modi di dire e le abitudini a scomparire insieme alle parole. C’era un tempo in cui, al passaggio di una camionetta, una voce registrata usciva da un altoparlante declamando bauli p’a biancheria e seggi i zabbara (di agave); un tempo in cui si andavano a raccogliere le mènnule, le mandorle, e gli arnesi erano i stigghi. È il tempo di una Sicilia raccontata davanti al camino, è il tempo dei grandi scrittori siciliani, è il tempo in cui le parole dialettali erano più diffuse degli anglicismi. A Sottile il merito di averlo ricordato. Il se souvient, lui ricorda, come Perec.

Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
Note
[1]           A. Camilleri, T. De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Laterza, Roma-Bari 2013: 5.
[2]           J. L. Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte, in Finzioni, Adelphi, Milano 2003: 35-45
[3]           L. Sciascia, Del rileggere, in Cruciverba, Adelphi, Milano 1998: 291.

________________________________________________________________

Marta Gentilucci, giovane laureata in Italianistica presso l’Università degli Studi di Bologna, ha collaborato con la Cineteca Lumière di Bologna e si occupa di giornalismo ed editoria. Tra i suoi interessi di ricerca, lo studio della letteratura delle migrazioni. Ha insegnato nel laboratorio di video-giornalismo presso il Liceo classico F. Scaduto di Bagheria. Ha partecipato a stage e seminari su identità di genere, letteratura post-coloniale e scritture migranti.

________________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>