Il 2022 è stato per l’Italia l’anno d’oro dello sport, che ha visto le nostre nazionali imporsi nei campionati europei e mondiali del calcio e della pallavolo, eccellere nei giochi olimpici e nelle altre competizioni internazionali dell’atletica leggera, del tennis, del nuoto, del ciclismo e motociclismo, della scherma e della ginnastica (in gran parte i cosiddetti “sport poveri”, quindi). Questi successi sono stati giustamente esaltati e cavalcati non solo dai vertici dello sport, ma anche da quelli istituzionali che vi hanno visto una metafora delle più impegnative sfide economiche, politiche, sociali e sanitarie in cui era ed è impegnato il Paese.
Non è trascorso troppo tempo che, a parte qualche delusione giunta in alcune discipline sportive di punta forse troppo presto esaltate (come la nazionale di calcio che ha fallito clamorosamente la qualificazione ai mondiali), sono venuti alla ribalta alcuni spiacevoli episodi collegati alla pratica sportiva, come il razzismo nei confronti della pallavolista Paola Egonu (che ho avuto occasione di commentare nel numero precedente di questa rivista inquadrandola all’interno del più generale problema dei flussi migratori), la vicenda degli atti di bullismo e di umiliazione delle giovani atlete nell’accademia ginnastica di Desio, poi quello sgradevole incidente nella curva dell’Inter che è stata fatta sgombrare dai più facinorosi tifosi che avevano appena appreso la notizia dell’uccisione del loro capo trucidato in un regolamento di conti tra bande rivali per lo smercio di droga. E, mentre scrivo, scoppia il caso di un dirigente degli arbitri che divideva le proprie doti organizzative tra il fare funzionare il settore federale e il commercio di stupefacenti, appena arrestato dalla Guardia di Finanza.
Tutto ciò mentre in Italia, dopo che la nostra nazionale, appunto, non si è qualificata ai Mondiali di calcio in Qatar – un Paese che poco c’entra con lo sport ritenuto più popolare al mondo (e sicuramente primo per interessi economici) –, si è innestato un sorprendente dibattito sull’etica sportiva. L’obiettivo della stampa nazionale si appuntato contro il presunto sfruttamento schiavistico dei lavoratori immigrati nell’area, la scarsa attenzione ai diritti umani e le discriminazioni omossessuali, mentre sull’evento incombono le inchieste di alcune polizie e magistrature del mondo, in testa gli Usa, mentre sugli organizzatori si moltiplicano le accuse di tangenti che sarebbero pagate per aggiudicarsi la manifestazione e che, qualche anno fa, culminarono col famoso arresto dei dirigenti del calcio mondiale a Zurigo in un’operazione congiunta della polizia svizzera con la Fbi [1]. Certamente la campagna scatenata dai giornali italiani, in un momento in cui nel contendere manca la materia più strettamente sportiva, un po’ freudianamente sembra volere attribuire la colpa della esclusione della nazionale a questo indegno Paese o quanto meno affermare: vedete, alla fine, è stato meglio così, in quale Paese saremmo dovuti andare a giocare, visto che altri sono stati costretti a indossare fascette al braccio di protesta, mugugni e rischi di espulsioni?
A onore del vero da qualche parte della più seria stampa occidentale è stato già risposto agli scettici: a parte le tangenti che hanno dovuto pagare gli organizzatori ai dirigenti della Fifa per aggiudicarsi l’evento, non vi sembra di esagerare posto che analoghi discorsi di democrazia e di diritti umani non li avete fatti contro la Russia e la Cina quando organizzavano i Campionati del mondo di calcio e le Olimpiadi? [2] Non solo, ma considerando anche che alla fine dei conti il Qatar è un Paese che ha solo il 12% di autoctoni mentre tutti gli altri sono stranieri, come reagireste se analoga percentuale esistesse dove vivete, considerando anche che qui i lavoratori non hanno neanche quei salari da schiavi che dite? E, poi, riguardo alla discriminazione degli omosessuali occorre tener presente che le leggi di quel Paese perseguono tutti i comportamenti sessuali fuori del matrimonio. E così via. Come si vede lo sport quando occorre si riempie di difensori d’ufficio, tutte belle anime che ne difendono la purezza invitando implicitamente satana a tenersi lontano. Ma è davvero possibile a tenere separato lo sport dal mondo che lo circonda? Perciò, anche per venire incontro a chi non ha familiarità con l’argomento (e magari nutre anche un po’ di comprensibile idiosincrasia) e non si accontenta di approcci superficiali a siffatto genere di fenomeni, vorrei cercare di porre un po’ di ordine su questa ingarbugliata materia fissando alcuni punti fermi soprattutto sul piano etico a partire dall’approccio storico.
Il coro di consensi e di critiche allo sport
Apparentemente oggi il fenomeno sportivo, con i grandi eventi musicali, gode del più ampio consenso popolare, come in qualche modo stabiliscono gli incassi e i misuratori delle audience televisive delle sue massime manifestazioni, segnatamente i Campionati del mondo di calcio e delle Olimpiadi. Tuttavia, non è mancato nei riguardi del trionfo dello sport un certo scetticismo e non solo da parte delle persone che si mostrano infastidite dal clamore e dall’invadenza dei suoi eventi, non esclusa l’occupazione degli spazi verdi cittadini dei jogger e dei ciclisti della domenica, ma anche da parte di chi come un George Bernard Shaw affermava che l’unica attività sportiva cui si dedicava era di accompagnare al cimitero gli amici che praticavano la ginnastica. La definizione fulminante dell’arguto commediografo inglese costituisce comunque un’efficace e cinica sintesi dell’ambivalenza del fenomeno in tutti i tempi anche se oggi al riguardo sembra affermarsi un pensiero unico.
Infatti, un rapido sguardo retrospettivo che comprenda non solo lo sport moderno, ma anche quello antico, quando nella Grecia di Solone e Platone il complesso di prove atletiche del tempo si definiva “ginnastica” (pratica dei ginnasi), ci mostra che esso si è sempre diviso tra entusiasti fautori e irriducibili detrattori. Se nella culla della nostra civiltà alcuni pensatori si domandavano a che cosa sarebbe servito dotarsi di una montagna di muscoli, posto che mai l’uomo sarebbe stato più forte o più veloce di un leone o di una gazzella, si osservava che la sua pratica, in ultima analisi, non serviva neanche a una delle sue principali e conclamate finalità, giacché gli sportivi proprio nelle attività militari si rivelavano poco utili per il fatto che, oltre a essere abituati a dormire e mangiare troppo, non si comportavano neanche da valorosi in battaglia [3]. Poi nel mondo latino il sanguinario sport degli anfiteatri e del circo, mentre era osannato dal popolo e da una classe dirigente avida di emozioni e di sangue, era fortemente criticato non solo dall’emergente cristianesimo (valga per tutti la celebre invettiva di Tertulliano contro il “panem et circenses” che stava avvelenando la società romana), ma anche da esponenti del mondo pagano come Catone il Censore [4].
In epoca moderna, infine, l’invenzione britannica dello sport incontrò subito l’entusiasmo degli educatori inglesi e del pedagogista Pierre De Coubertin (per il quale, comunque, nonostante il pacifismo della sua concezione, lo sport sarebbe dovuto servire a rebronser la France, ossia a rafforzare i giovani in vista degli impegni militari dopo le cocenti sconfitte con la Prussia). Ma già prima che imperversasse in tutto il Continente europeo, lo sport fu fieramente avversato da chi applicava altri metodi all’educazione fisica della gioventù, segnatamente gli inventori della ginnastica paramilitare europea, dal Turnen tedesco di Jahn alla ginnastica francese del Colonello Amoros, direttore della scuola militare di Joinville, oltre a quella svedese inventata dal Dr Ling, ossia tutte forme di attività che sembravano più idonee, con la pratica della scherma ovviamente, a forgiare un popolo in armi, quale richiedeva l’ideologia delle “nazioni” del tempo, frutto della pace di Westfalia ma poi fieramente impegnate a battersi tra loro o a occupare i territori oltremare. Già questo ci dice come non tutti potessero essere d’accordo con questa nuova moda. Quindi, uno sport sì concepito in chiave educativa ma anche come strumento politico di affermazione di un potere specifico, quello bianco, in palese concorrenza con le altre forme di attività fisica.
Accanto all’elemento politico si aggiunse anche quello più dichiaratamente classista e aristocratico borghese che allignava in questa nuova forma di attività fisica che attirò furibonde critiche da sinistra, gran parte lungo la scia dell’impostazione marxiana, che considerava anch’essa un “oppio dei popoli”. Coerente con questa impostazione quando, soprattutto nello scorso secolo, l’insegnamento dello sport approdò alle università, si rafforzarono le riserve nei suoi confronti in Germania da parte dei seguaci della Scuola di Francoforte (Prokop, Vinai), di quella marxista e psicanalista francese (Lauguedomie, Brohm) e dei Social Studies americani (Gruneau, Hargreaves) [5]. Per la gran parte di costoro proprio nello sport, in un’epoca in cui incominciava a prevalere la dimensione economica e professionale, veniva sempre più chiaramente allo scoperto il paradigma dello sfruttamento capitalistico delle masse, che erano tenute a bada nelle loro rivendicazioni e pretese egemoniche da un fenomeno che appariva emblematico soprattutto in certe localizzazioni iconiche (non a caso i critici italiani puntavano il dito sul fatto che il calcio trionfasse con i suoi templi e i suoi riti proprio in città come Milano e Torino dove più accentuato loro sembrava che fosse lo sfruttamento dei lavoratori dell’industria).
Ambito e portata valoriale dello sport
L’acuirsi delle critiche scalfì ben poco il mondo dello sport non solo perché, mostrando un’impronta prevalentemente aristocratica e borghese, gli era difficile sottrarsi agli strali degli ideologi di sinistra non più di quanto accadesse in altri campi affini (pensiamo all’arte), ma anche perché le analisi di questo tipo non trovavano la necessaria diffusione oltre le pubblicazione delle university press o nei paper dei convegni scientifici di settore (un po’ come oggi in Italia del resto in cui si assiste a un peana generale a favore dello sport, in cui solo qualcuno timidamente avanza qualche riserva per il taglio affaristico che ha assunto). Solo in Usa, analisti come Scott e Edwards [6], riuscirono a portare i temi sociali e politici dello sport all’attenzione del grande pubblico grazie a editori più popolari. In realtà il compito di scavalcare il muro eretto a favore dello sport da grandi scrittori come Ernest Hemingway, Norman Mailer e James Michener fu portato avanti proprio dal giornalismo più trasgressivo (per tutti Underwood con Spoiled Sport). Con ciò non si intende dire che il mondo dello sport non abbia mai conosciuto o sottovalutato i problemi che attentavano alla sua vera natura, perché due preoccupazioni sicuramente le ha avute e non le ha potute nascondere combattendole anzi in modo titanico: il professionismo e il doping. Ossia i due fattori che dalla gran parte sono considerati quelli che più degli altri hanno inquinato il fenomeno sportivo.
La difesa della purezza (anche razziale e di classe) dello sport tramite la pratica dilettantistica è stata la principale ossessione dei suoi dirigenti fin dalle origini del fenomeno. Questa fu, per esempio, la ragione per cui il rugby si distinse dal football in Inghilterra e la vertenza ha trovato un po’ di pace solo negli ultimi decenni del secolo scorso quando il Cio e le grandi federazioni dovettero rassegnarsi all’esistenza di una pratica professionale alternativa anche in sport come l’atletica leggera e, appunto, il rugby, in cui il dilettantismo costituiva il modo distintivo di essere e di praticarlo. Il doping, invece, ha rappresentato la ferita mai sanata del sistema sportivo dagli inizi del Novecento da quando si ebbero i primi casi sospetti su alcuni atleti olimpici e modernamente, quando sembrava che si fossero trovati i modi più efficaci di combatterlo, per cui tirando le somme si può dire che oggi ha finito per rappresentare la sconfitta più cocente del sistema di governo dello sport ormai ridotto a condurre solo battaglie simboliche su questo fronte.
Due sono stati gli eventi che hanno compromesso definitivamente la possibilità di contrastarne la diffusione. Il primo, quando i Paesi sotto l’influenza sovietica, pur di assicurarsi la vittoria nelle battaglie simboliche contro l’Occidente col mezzo sportivo, ufficializzarono l’assunzione di sostanze dopanti da parte dei loro atleti dando vita al cosiddetto “doping di Stato”. Il secondo, sul contrapposto fronte occidentale, quando si affermò quello che è stato definito dal sociologo americano Hoberman il “doping sistemico” [7], ossia l’assunzione di sostanze dopanti favorite o tollerate dalle organizzazioni sportive del “mondo libero”, interessati solo al risultato, grazie alle quali la droga agli atleti era somministrata con la compiacenza dei dirigenti e della classe medica che nello sport ne regolava l’assunzione e, soprattutto, il mascheramento.
Questi cenni storici ci dicono già una cosa, ossia che vale sempre meno parlare di sport come valore assoluto, ma anzi che sarebbe meglio optare in favore del suo relativismo, ossia di una sua neutralità rispetto all’ampia tavola di valori presenti nella società e che in esso si riflettono [8]. A ciò si aggiunge che lo sport moderno nasce in Gran Bretagna sulla scia delle esigenze educative e delle spinte democratiche alla moda, per cui anche la proclamazione del valore assoluto del dilettantismo e la conseguente lotta contro il montante professionismo agli occhi di molti analisti altro non era che il tentativo delle classi aristocratiche di impedirne l’accesso a quelle inferiori. Contro l’accesso di queste ultime veniva utilizzato proprio l’argomento che esse presentavano un vantaggio competitivo nel praticare mestieri fisicamente più faticosi, come il caso del padre dell’attrice e principessa Grace Kelly che, essendo muratore, fu escluso dalle gare di canottaggio in quanto “professionista”. Per contro, il collegamento con le nuove forme di democrazia che prendevano piede nel Paese e nei Dominions mette in luce gli aspetti per così dire etici e politici dello sport giacché, come fanno notare i sociologi Norbert Elias ed Eric Dunning, non solo gli sportman finivano per fare parte della stessa classe dei gentleman, ma le regole della democrazia, segnatamente il fair-play e la cavalleria, erano seguite in entrambi i campi, imponendo il riconoscimento di chi vinceva e l’accettazione cavalleresca del verdetto da parte di chi perdeva cui corrispondeva l’impegno a condurre lealmente il confronto nelle sedi parlamentari come sui campi di gioco [9].
Certo, poi c’è tutto il discorso dello sport utilizzato dagli inglesi per controllare le classi sociali delle colonie (soprattutto quelle superiori che venivano così meglio anglicizzate), per nulla alieno anch’esso dai significati di classe, che lo complica ancora di più. Ma lo schema teorico duale funzionava anche nella misura in cui vedeva, all’opposto, per esempio, la strumentalizzazione dell’attività sportiva da parte dei regimi fascisti europei, in primis quello nazista di Hitler che, sia pure personalmente per nulla interessato allo sport, utilizzò le Olimpiadi di Berlino del 1936 come vetrina dei successi del suo regime (analogamente a quanto aveva fatto Mussolini con la vittoria a due mondiali della nazionale di calcio di Pozzo gli anni precedenti) [10].
Lungo questa visione dello sport funzionale a disegni opposti a quelli democratici si colloca soprattutto l’impiego che ne fece successivamente il sistema sovietico che, a parte il doping di Stato, lo utilizzava non solo a fini di visibilità internazionale nella lotta con l’Occidente (anche se quasi sempre le sue nazionali nei giochi olimpici si classificavano dopo quelle americane e nonostante lo stesso regime avesse tentato attraverso le “spartachiadi” di fondare una manifestazione alternativa a quella olimpica basata su uno sport di tipo proletario), ma anche di controllo interno delle masse giovanili. Infatti, la sua dirigenza trovava che l’attività sportiva fosse più adatta a incanalare le energie più fresche del Paese in una direzione più controllata di altre in cui avrebbe potuto manifestarsi una maggiore consapevolezza e contestazione politica. E tutto ciò avveniva, come dimostra lo storico James Riordan in Soviet Sport, anche al fine di legare meglio a sé nello stesso disegno tutti i Paesi socialisti, dalla Germania Est a Cuba, alla Cina [11]. Anche oggi, osservano del resto alcuni analisti, nonostante la fiducia serbata nello sport come strumento di pace e di eguaglianza sociale e fortemente meritocratico, le premesse e le promesse delle grandi manifestazioni olimpiche e campionati del mondo di calcio assegnate a Russia e Cina in questi ultimi anni non sono riuscite a fare di queste dei Paesi realmente democratici e rispettosi dei diritti civili, anzi…
L’osservazione storica, anche andando più a fondo in questi e altri contesti, che lo spazio limitato qui non mi consente, conferma ancora di più che lo sport sotto il profilo valoriale possiede un carattere per lo più neutro dovuto alla sua capacità di variare a seconda dell’uso che si propone chi lo utilizza. Per tornare agli episodi legati all’attività sportiva, ma con caratteri da essa apparentemente indipendenti, è difficile dire che lo sport non c’entri con tutto il carico di significati e di conseguenze che reca la sua pratica nei casi citati in apertura perché si porrebbero solo come mere casualità. Infatti, se accettiamo che lo sport costituisce una metafora dell’esistenza, proprio per la stessa ragione non possiamo sottrarci dall’ammettere che rappresenti, nel contempo, un campo analogico in cui si dispiega in tutta la sua interezza la realtà esterna con un’interazione in cui gli elementi costitutivi di ciascuno influiscono sull’altro. Ciò significa che lo sport, affacciandosi e interagendo con la società più vasta non solo ne subisce gli influssi negativi e positivi ma è anche in grado di condizionarla con i valori specifici di cui è portatore (qualcuno ha argutamente affermato che non è il calcio la metafora della vita, ma è la vita a costituire una metafora del calcio) [12].
Riguardo all’influenza dello sport sulla società, infatti, non si può non osservare come oggi alcuni suoi elementi costitutivi come, per esempio, la competitività caratterizzino i comportamenti individuali e sociali ormai in tutti i campi; pensiamo al gioco di squadra che diviene metafora in tutta l’organizzazione politica, economica e sociale quando si sostiene che costituisce il modo più adatto e più rapido per raggiungere obiettivi prestabiliti in quei campi. E sempre in quegli stessi ambiti diviene sempre più frequente il ricorso alla terminologia e metafora sportiva, per esempio, quando si invita in qualche situazione a “non abbassare mai la guardia” o si è afferma che ci si è appena “salvati in corner” o “in zona Cesarini”. Lo studio della metafora sportiva si è affermato soprattutto in Usa, in particolare in occasione del caso Watergate, in cui si osservò che la corrispondenza personale tra i protagonisti era intessuta di metafore tratte dal football americano, di cui il presidente Nixon era grande appassionato e profondo conoscitore, e, a conferma ulteriore che lo sport è un valore neutrale e non solo un fattore di democrazia ed eguaglianza, basandosi su questo e altri casi, si è pure affermato che il ricorso alle sue metafore paradossalmente altro non fa che irrigidire i tratti autoritari del sistema politico [13].
Libertà e autorità nello sport
Per avvicinarsi con passo più spedito ai temi che riguardano la presunta violazione dei valori dello sport, segnatamente il caso della polemica dell’accademia di ginnastica di Desio, ci permettiamo intanto di segnalare che il tema non è nuovo, giacché echeggiò già alla fine degli anni Settanta in America col caso delle accademie di tennis in Florida, in cui venivano raccolti i bambini per essere avviati a divenire campioni in quella disciplina sportiva dove era necessario, come nella ginnastica, iniziare dall’infanzia, ma più in generale nello sport americano [14]. Anche in quei casi servizi giornalistici e pamphlet denunciarono come i bimbi venivano deprivati della loro esistenza conducendo una vita di caserma in cui erano banditi i giochi adatti alla loro età, si dovevano rispettare orari massacranti per attendere agli studi e agli allenamenti e, in molti casi, erano anche bullizzati dai loro custodi con qualche caso di abusi sessuali.
I problemi della libertà e dell’autorità sono costitutivi dello sport e da molto tempo discussi. A prima vista lo sport può apparire un campo di ampio dispiegamento della libertà, e per certi versi lo diventa. Aggirarsi liberamente nelle foreste, scalare le montagne, nuotare e navigare nei mari senza freni o inibizioni di alcun genere, costituisce per molti la migliore rappresentazione dell’attività sportiva. Ma quando da questo mondo (di pochi) si passa a quello dello sport organizzato, la musica cambia totalmente. La libertà esiste solo al momento della scelta di praticare la disciplina sportiva. Dopo di ché cessa del tutto, perché si entra in una realtà normata in quasi tutti gli aspetti. Da quello organizzativo, con disposizioni sul funzionamento di tutti i segmenti che compongono la realtà sportiva, ai diritti-doveri dei componenti, alle sanzioni per i trasgressori e nei confronti di chi non mostra fedeltà ai principi e all’organizzazione [15].
In secondo luogo, vi sono le norme tecniche che regolano lo svolgimento delle singole attività sportive, compresi i comportamenti dei tecnici e degli atleti. Al loro rispetto sul campo, come tutti possono vedere, vigila una quantità notevole di arbitri e di giudici di gara, oggi assistiti da una strumentazione tecnologica molto sofisticata che elimina ogni possibilità di errore umano. Non esiste altra branca dell’esistenza, tranne forse il sistema carcerario, che sia altrettanto sorvegliata e sanzionata come quella sportivo. Poi, a monte è collocato anche un sistema giudiziario, molto occhiuto e sempre più professionalizzato – come osservavo per il caso Djokovic nel n. 54 di questa rivista – che emette, in tempi che la giustizia ordinaria si sognerebbe, sentenze di condanna o di assoluzione a chi si rende colpevole di violazioni. Il sistema, poi, per meglio garantirsi dalle ingerenze esterne, in genere dei Paesi in cui si opera, stabilisce il divieto di far ricorso ai tribunali locali senza l’autorizzazione dell’autorità sportiva. Molti ci provano sfidandone le sanzioni, ma la vittoria che si portano a casa è solo quella di Pirro, come dimostra il caso del marciatore italiano Schwazer che, allenato da uno dei più autorevoli esponenti delle battaglie contro il doping nel mondo, Alessandro Donati (o solo per questo motivo), è stato bandito dalla federazione internazionale, con sentenza del TAS (Il tribunale antidoping dello sport), benché la Corte di Assise di Bolzano avesse escluso ogni ipotesi e sospetto di droga, col risultato che l’atleta può gareggiare sì in Italia, ma è escluso da tutte le competizioni internazionali [16].
Ho già analizzato il funzionamento di questo meccanismo che contrappone gli ordinamenti nazionali, con la loro supremazia all’interno dei singoli Stati, a quelli dello sport che, operando sul contesto internazionale, soprattutto nelle discipline olimpiche finiscono per ottenere un maggiore rispetto da parte degli atleti di certe discipline. I tribunali americani che per primi, dagli anni Ottanta, emettevano sentenze di assoluzione dall’accusa di doping rispetto a quelli sportivi internazionali facevano un favore solo a quegli atleti che gareggiavano nei quattro sport nazionali in cui si esaurisce il maggiore interesse degli sportivi locali (baseball, football, basket e hockey su ghiaccio), ma per nulla a quelli dell’atletica leggera che erano banditi dalle Olimpiadi e dai Campionati del mondo, ossia le manifestazioni per le quali ha un senso prepararsi per tutta la vita e affermare i loro tempi e la superiorità sugli avversari [17].
Arrivati a questo punto forse siamo riusciti a capire un po’ come funzionano gli ordinamenti sportivi e il mondo organizzato che ruota intorno, la cui novità in epoca moderna, quando essi divennero globali e competitivi con quelli locali, sta nel fatto che comportamenti considerati sia pure criminali dalla società di appartenenza alla lunga finiscono per essere ammessi anche in questa. In altri termini ciò significa che le esigenze della affermazione dello sport possono prescindere finalmente da quelle del funzionamento di una collettività umana. Un po’ se ne comprende la ratio giacché in caso contrario tutti gli incontri di pugilato, per esempio, dovrebbero essere banditi perché basati su una successione di colpi che, nella vita normale, sono perseguiti dal codice penale. Che questa sia stata una conquista dell’emergente sport è dimostrato dal fatto che fino a quasi tutto l’Ottocento gli sport più violenti, compresi quelli della palla, furono messi fuorilegge e sanzionati dalle autorità locali. Infatti, la gran parte di questi ultimi finiva con morti ammazzati, feriti e danneggiamenti alle piazze e alle case adiacenti come nel calcio fiorentino, a tacere della scherma in cui i duelli per oltre due secoli, fino agli inizi del Novecento, furono invano banditi dagli ordinamenti statali.
Per altro verso ciò consente di cogliere l’aspetto più positivo e innovativo dello sport moderno giacché attraverso questa evoluzione esso ha giovato a contenere la violenza e l’aggressività sociale ritualizzandone le modalità. Altra sorte hanno avuto altri comportamenti, spesso contrari ai principi dello stesso sport, ma più di tutto in conflitto con gli interessi degli Stati. Sono stato facile profeta quando nell’articolo su Djokovic, sempre del n. 54 di “Dialoghi Mediterranei”, avevo previsto che, nonostante le minacce da parte di chi parlava o credeva di interpretare le istituzioni interessate per cui il tennista serbo sarebbe stato radiato da tutte le competizioni, nulla di tutto ciò sarebbe accaduto giacché l’orientamento prevalente stabilisce che l’eliminazione di un atleta può avvenire solo sul campo, dove oggi peraltro questo atleta continua a trionfare.
Per capire le ragioni di altri comportamenti che apparentemente poco hanno a che fare con lo sport, e in particolare il caso dell’accademia di Desio – che secondo me si ridurrà solo all’acuto di qualche magistrato o produrrà qualche piccolo provvedimento esemplare da parte delle istituzioni sportive –, occorre considerare che ciò avviene perché il modello di società sportiva in senso lato presenta caratteri di una “società totale”, come in qualche modo ha incominciato a tratteggiarla Henry Goffman in Asylums. Certamente nel caso dello sport non si è in presenza di una struttura per malattie mentali in cui i pazienti sono reclusi, ma vi sono diversi elementi di convergenza. Intanto che, a fronte di poche regole che ne delimitano i confini si creano al proprio interno tanti altri codici comportamentali non scritti che condizionano la vita quotidiana. Per esempio, il potere dei tecnici e degli allenatori può essere considerato analogo a quello dei custodi nella misura in cui si crea una dipendenza psicologica da parte degli atleti facendo leva sugli elementi del successo e dell’insuccesso, della competizione e del fallimento.
Indubbiamente nello sport, che è una delle espressioni massime della fisicità, questa dipendenza può rappresentare una discriminante su cui si costruisce il rapporto soprattutto nella fase adolescenziale in cui il giovane è più sensibile ai cambiamenti [18]. La sede principale in cui ciò avviene è lo spogliatoio e il dormitorio quando c’è, nei momenti di intimità tradita, in occasioni di commenti e di valutazioni sul fisico di ciascuno. Se un ragazzo o una ragazza, possiede una vita privata esterna, come famiglia, scuola o amicizie, che non coincidono necessariamente con quella sportiva, riesce in qualche modo a sfuggire dall’imperio della seconda, ma se per ipotesi questo non accade e si vive in ambienti predisposti per una vita e pratica sportiva totale, come le accademie, appunto, o nelle scuole di calcio o in società sportive comunque molto competitive e totalizzanti, in cui ritiri, trasferte, allenamenti quotidiani, ecc. legano tutti in modo indissolubile, è difficile sfuggire a questa logica. Davanti alle derive di questa realtà ciò che stupisce è il cascare dalle nuvole della dirigenza federale. Infatti, se come il più delle volte capita questa proviene da una gavetta in quella disciplina sportiva nel corso della quale si ha l’occasione di vedere e di apprendere molti dettagli su tutti i meccanismi di avviamento allo sport, anche sui comportamenti più trasgressivi e più bislacchi, nulla di quanto accade può sorprendere. Ma ancora sorprende la sorpresa dei genitori che poi denunciano scandalizzati le angherie subite dai figli.
Studi sull’influenza dei genitori sulla formazione dell’atleta, condotti soprattutto in università belghe e inglesi (Vanden Auweele, Parry) segnalano che questa avviene attraverso la formazione di tre vertici del triangolo formativo sportivo rappresentato, appunto, da genitori, tecnici e giovani atleti, la cui interazione caratterizza tutto il percorso pedagogico dell’attività sportiva giovanile e il tacere su ciò che accadeva (magari da parte di genitori che si sentivano particolarmente danneggiati attraverso i figli) appare in contrasto con la realtà che essi stessi contribuiscono a creare e rafforzare [19] E ciò anche tenendo conto che spesso sono i genitori i tifosi più accaniti dei figli e i più convinti che debbano tenere duro e accettare le “prove” della vita che offre lo sport, sulle cui aspettative di successo sportivo hanno fatto consistenti investimenti affettivi e finanziari e su cui spesso proiettano proprie frustrazioni e fallimenti. Non a caso di recente un’importante autorità pedagogica nazionale ha insistito sull’importanza delle “umiliazioni” nel processo di crescita dei ragazzi in una realtà, in certi casi abbastanza in linea con la logica della “società totale”, come quella scolastica.
Il problema vero è che lo sport entra in un certo modo dall’Ottocento quando fu inventato, elaborato e strutturato e ne esce in un altro dopo avere attraversato tutto il Novecento, in particolare nel mondo occidentale, consegnandosi totalmente modificato al nuovo Millennio. L’invenzione britannica dello sport, infatti, è ereditata dal “Secolo breve” di Hobsbawn (e rafforzato dallo stesso storico col collega Ranger nella teoria dell’invenzione della tradizione alla cui considerazione si presta non poco il fenomeno sportivo [20]) come uno strumento dall’elevato profilo etico. Sotto questo punto di vista l’etica sportiva sarà posta a dura prova nelle due guerre mondiali e nei numerosi conflitti locali nel resto del mondo, in cui tradisce le aspettative di incanalamento e sublimazione dell’aggressività individuale in manifestazioni accettabili socialmente perché regolate da norme e da valori di valenza quasi artistica [21], in cima le rappresentazioni mimetiche delle battaglie (segnatamente nei grandi sport di squadra) in cui si confrontano “eserciti” ma il cui esito (dopo essersele date di santa ragione, si pensi al rubgy, la forma primigenia di questo tipo di confronto) è la riconciliazione, la fratellanza e la pacificazione (sempre nel rugby esiste ancora il “terzo tempo”, un finale di gara dedicato a questo tipo di soluzione) [22].
Nello stesso tempo lo sport si pone quasi come antesignano della globalizzazione grazie al fatto che, già all’inizio del XX secolo, in una realtà politica parcellizzata in “nazioni” e una produttiva non meno localizzata, si presenta con un forte carattere di internazionalità, articolato com’è in federazioni e campionati mondiali in quasi tutte le discipline e soprattutto per avere riproposto e restaurato i giochi olimpici [23]. A maggior ragione, appare all’esterno come un contenitore di valori indispensabili per il funzionamento della nuova società segnatamente quelli della democrazia, del fair play e della cavalleria. Per di più, contro l’idea laica professata da un Allen Guttman dello sport moderno come superamento di antichi ritual, esso è concepito da altri alla stregua di una nuova religione, giusta la visione del filosofo, teologo e politologo americano, Michel Novak, che in Joy of Sports individua esattamente tre momenti di sacralità (con gli spettatori come “fedeli”, i giocatori come “sacerdoti” e gli stadi come “templi”) [24]; in questo modo lo sport si propone come un integrale progetto di vita, cui se ne affiancano altri non meno importanti. In primo luogo, quello per cui nacque, ossia il contenimento delle pulsioni giovanili nell’incipiente società industriale (secondo Burstyn per supplire all’absent father impegnato tutto il giorno nel lavoro di fabbrica o di ufficio e alla madre che stava dietro una famiglia numerosa con troppi figli che trascorrevano la gran parte del tempo per la strada [25]). In secondo luogo, esso costituiva una più igienica risposta all’eccessivo tasso di automazione e alla scarsa igiene dell’incipiente società moderna che favorendo la sedentarietà creava gravi problemi alla salute umana, donde l’esigenza di valorizzare l’attività motoria. Infine, in un secolo attraversato da guerre e tensioni sociali, andava bene offrire l’alternativa di un’attività universale ispirata alla pace e alla fratellanza la cui massima espressione era la riedizione del giochi olimpici che, come nell’antichità, avrebbero dovuto fermare le guerra (anche se in realtà furono essi a essere fermati dalle guerre, sia nei tempi antichi sia in quelli moderni) e avrebbero dovuto indurre i popoli a misurarsi nelle competizioni sportive invece che in quelle belliche.
Il problema, quindi, è stato l’attraversamento del Novecento che in qualche modo ha modificato la natura dello sport allontanandolo dagli ideali originari. Il “secolo dello sport” come è stato anche definito, inserendosi con i caratteri di massa e le possibilità di consumo che presentava ha dovuto sottostare ad alcuni nuovi imperativi, come il dimensionamento economico di tutti i suoi aspetti e la soggezione alla logica dei mass media; poi lo spirito utilitaristico della modernità ha finito per condizionare anche ambiti più innocenti come la pratica privata di base riducendola all’esclusivo aspetto salutistico e della socializzazione (si veda il mio Dove va lo sport del 2000? in cui partendo da un’indagine territoriale, svolta grazie ai miei studenti del corso di laurea in scienze motorie, già insegnanti di educazione fisica, effettuo comparazioni nazionali e internazionali per giungere alla conclusione che quelle due sono le principali ragioni che spingono un soggetto ad avvicinarsi alla pratica fisico-sportiva rispetto anche al desiderio di emergere nella competizione) [26].
Per comprendere qualcosa in più della vicenda di Desio, o almeno del suo spirito competitivo, va in qualche modo da sé che anche nella cultura sportiva giovanile si modifica in modo radicale la tradizionale concezione della vittoria. Più nel dettaglio la famosa frase pronunciata dall’arcivescovo di Filadelfia in occasione delle Olimpiadi di Londra del 1908 che tanto colpì il barone De Coubertin da assumerla a motto olimpico, ossia che “l’importante non è vincere ma partecipare” e che ha costituito la base ideologica del movimento olimpico, è stata totalmente stravolta dall’asserzione successiva e opposta dal popolare allenatore di football americano, Vince Lombardi, per il quale “l’unica cosa che conta nello sport è vincere e nient’altro” (affermazione peraltro rilanciata in Italia da Giampiero Boniperti, il mitico centroavanti della Juventus e della nazionale).
Dopo di ché nella misura in cui prevaleva la funzionalità economica i valori originari dello sport sono passati in secondo piano davanti ai crescenti processi di professionalizzazione che imponevano e impone all’atleta di comportarsi da vero professionista (accettandone le regole non con la convinzione interiore dei primi tempi ma col sangue freddo dell’imprenditore o del manager moderno che accetta l’imposizione di una sanzione da parte della guardia di finanza o dell’agenzia delle entrate pur nutrendo per questi adempimenti il massimo disinteresse o addirittura del disprezzo); non solo, ma questo comportamento incomincia a essere coltivato fin dai primi tempi della pratica sportiva, grazie al quale abbiamo notizie che nei maggiori sport anche i ragazzini reclamano compensi finanziari, quindi lontani da quella gratuità che alle origini e fino a non molto tempo fa caratterizzava la prestazione di tecnici e atleti.
Egualmente il progetto igienico è stato alterato dall’assunzione generalizzata del doping frutto della cultura farmacologica imperante nella società moderna (forse la ragione principale della difficoltà a combatterlo) per cui a ogni problema oggi c’è la risposta costituita dalla pillola giusta, che incomincia dai bambini svogliati che non se la sentono di andare a scuola e finisce con gli adulti che hanno bisogno di un aiutino per fare del movimento o semplicemente di mandare avanti la competizione nel lavoro nella loro mezza età. Non a caso il doping è ricercato non solo nello sport professionale e agonistico che ormai riguarda il 70-80% dei praticanti e rispetto al quale i costosi controlli sono quasi del tutto inutili, ma anche nel mondo dell’arte (cinema e teatro in testa) e degli affari, sia per resistere meglio alla fatica sia per mostrare un adeguato physique du rôle [27].
Alle soglie del nuovo millennio si profila, dunque, un’attività sportiva dai caratteri molto diversi da quelli con cui è nata. Essenzialmente con due divaricazioni. Una prima spettacolare e professionale che tiene incollate al televisore masse di cosiddetti “sportivi seduti” che, contro la retorica che lo sport di alto livello li vorrebbe stimolare alla pratica sportiva, in realtà li spinge solo a consumare più birre, lattine e noccioline nel divano o nei locali col teleschermo gigante (in questo caso, magari, l’unica attività di movimento sarà di correre a fare i teppisti nelle strade dopo le partite). Una seconda è il nuovo popolo di praticanti per ragioni puramente igieniche o turistiche e di socializzazione oppure semplicemente di moda (anche nell’abbigliamento) [28] che sostituiscono i “dilettanti” di un tempo ma con i cui ideali non hanno più nulla da vedere.
Il risultato, però, è la contrazione generalizzata della pratica sportiva che, negli ultimi decenni del secolo scorso, aveva raggiunto e superato il 70 per cento nei Paesi nordici e il 50 in quelli mediterranei come il nostro e che oggi incomincia a flettere in modo preoccupante, soprattutto tra i giovani rappresentati sempre più seduti davanti ai teleschermi o agli smartphone (compresi quelli che riproducono competizioni sportivi e della cui valorizzazione i vertici dello sport ipocritamente stanno incominciando a considerare, naturalmente ai fini del consenso e del business), con tutti i rischi che le ricerche moderne stanno mettendo in rilievo. Naturalmente questo è il quadro tendenziale e, a parte che rimane sempre da chiedersi se quello che si rimpiange altro non era che uno sport di élite (di neanche il 6% in Italia negli anni Cinquanta del secolo scorso da dati Istat) che quando è diventato di “massa” per forza di cose ha dovuto cambiare carattere, esistono tuttora delle isole di pratica gratuita e apparentemente valoriale ma occorre ancora chiedersi se secondo la legge della volpe e l’uva ciò accade perché non si ha accesso al “grande sport” (come, per esempio, per molte pratiche cosiddette “etniche”), certe permanenze di antichi valori attraggono la cronaca più che altro come esempi da libro Cuore.
A non nutrire una visione troppo nera dello sport, vi sono alcune evoluzioni positive nella modernità che sono costituite dalla partecipazione femminile e dalla disabilità [29]. La pratica femminile nello sport, come ne fa intendere la storia, si è affermata a forza in un campo eretto fin dall’inizio a bastione della virilità e, per queste ragioni e altre come capire per esempio che colmare una certa differenza di forza e resistenza fisica con l’uomo giovava alla causa, ha contribuito alla crescita e all’affermazione della donna nella società moderna. L’altra conquista è quella che mette sempre più sullo stesso piano esseri umani che sono stati privati nella loro esistenza di certe facoltà fisiche e intellettuali di chi è stato più fortunato. Forse sono le due più belle notizie sullo sport che si affaccia al nuovo Millennio.
Etica dello sport, etica nello sport
La conclusione non è costituita solo da questi segni, ma anche dalla constatazione che lo sport nell’attraversare il Novecento si è talmente colluso con la società da assorbirne sia gli aspetti positivi come questi ultimi due sia quelli negativi come quelli evidenziati all’inizio. Tutto ciò è frutto di una dinamica che, come ho accennato sopra, vede lo sport non solo influenzato dalla società ma anche, a sua volta, influenzarla non solo con i suoi “valori”, come accadeva un tempo, in particolare quelli della democrazia, della tolleranza e della fratellanza, ma anche altri eventualmente come potrebbe essere quello della accettazione e dell’inserimento, per esempio, dei migranti e del “diverso” chiunque esso sia [30]. Come dire lo sport non è finito in un buco nero nel quale non c’è speranza, ma col suo patrimonio valoriale può essere sempre recuperato e riproposto dagli uomini di buona volontà.
Da qui l’importanza di una sua particolare “etica” in gran parte ancora da definire in chiave di modernità. Non a caso oggi si parla molto di “etica dello sport” con riferimento a un ruolo attivo che questo avrebbe per rendere migliore la convivenza civile, ma si parla anche di etica “nello sport” con riferimento a una fase fondante in cui l’attività sportiva dovrebbe introdurre al suo interno elementi di integrità che oggi ha perso o non ha [31]. In questo senso parliamo di sport che valorizza l’elemento femminile, che supera le disabilità (c’è anche chi sostiene che paradossalmente che in questo ambito si troverebbe molto futuro dello sport, soprattutto in termini di sostituzione di arti e parti del corpo in funzione del miglioramento delle prestazioni), che integra e non esclude soprattutto i migranti, ma che si batte contro tutte le discriminazioni, soprattutto sessuali e di genere ma anche quelle del bullismo scolastico, e che strappa anche dal videoschermo i più piccoli che ne sono abbacinati.
Queste sono le nuove frontiere che si affiancano a quelle tradizionali del fair play, della cavalleria e della responsabilità sul campo da gioco che sono incompatibili non solo con la tifoseria violenta ma anche con tutti i comportamenti criminali che vi appaiono nello sfondo: dallo sfruttamento del lavoro minorile delle grandi aziende sportive a quello dei lavoratori per la costruzione degli stabilimenti sportivi, al traffico di droghe leggere o pesanti, sportive o ricreative che, come abbiamo visto a Milano, prosperano nelle curve degli stadi sotto l’ombrello dello sport. Insomma, tutto ciò che è stato detto da una certa stampa italiana “risentita” a proposito del calcio, visto i mondiali del Qatar soprattutto rispetto a ciò che circolava, non è del tutto infondato.
Nondum matura est, nolo acerba sumere. L’unico problema è che di questi aspetti sarebbe meglio parlarne sempre e non solo quando si coltiva qualche rancore perché il circolo mediatico non ha fatto un fermato davanti a noi.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
Note
[1] Cfr. Bernaudeau, E., Blatter, un monde a vendre, Lafont 2016.
[2] Cfr. per esempio “The Economist”, In defence of Qatar (November 19th 2022).
[3] Cfr. Aledda, A, Sport. Storia politica e sociale, SSS, Roma 2002: 62-65 e 80 ss.
[4] Ibidem: 99 ss.
[5] Cfr. Brohm, J.M., Le Mythe Olympique, Paris Bourgois 1981; Gruneau, R., Sport and the Debate on the State in Cantelon-Gruneau (eds), Sport, Culture and Modern State, University of Toronto, 1982; Haegreaves, J. Sport and Egemony in Cantelon-Gruneau cit.; Vinai, G., Il calcio come ideologia, Bologna, Guaraldi 1970; Laguillaumie, P. (eds), Sport & repressione, Roma, Editori Simona e Savelli 1971.
[6] In Usa i testi che si affermarono presso il grande pubblico furono prima di tutto quello dell’organizzatore della protesta di Carlos e Smith alle olimpiadi di Città del Messico, Harry Edwards, loro professore di sociologia presso la San José University col libro, divenuto assai famoso, The Revolt of the Black Athlete, New York, Free Press 1970 e l’anno successivo quello di Jack Scott, The Athletic Revolution, Free Press 1971, che più del primo poneva in rilievo l’analisi marxista. Meno ideologico e più rivolto a evidenziare il malcostume sportivo fu Underwood, John, The Spoiled Sport, Little Brown 1984. Viceversa le punture di spillo sono venute soprattutto dagli studiosi accademici come Beyers, W., Unsportsmanlike Conduct,University of Michigan 1995.
[7] Hoberman, J., Darwin’s Athlete, Marieners Book 1997, oltre al suo Politica e sport, edito in Italia dal Mulino nel 1988.
[8] Vara è la letteratura sullo sport come valore. Per tutti propongo Tãnnsjö, T.-Tamburrini, C., Values in Sport, London E&FN Spon, 2000 e Attali, M. (eds), Le sport et ses valeurs, Pris, la Dispute 2004.
[9] Fondamentale per capire i processi democratici nella nascita dello sport il libro, ora nell’edizione italiana, del grande sociologo Norbert Elias scritto col più importante collega per la materia sportiva, Eric Dunning, Sport e aggressività, Bologna, il Mulino 1989.
[10] Sul tema dell’autoritarismo nello sport cfr. il basilare Gonzales Aja, T. (ed), Sport y autoritarismo. La utilizazión del deporte por el comunismo y el fascismo, Madrid, Alianza editorial 2002.
[11] Rjordan, J.,Soviet Sport , New York University Press 1980.
[12] Il primo studio pionieristico su questo tema fu fatto proprio in Usa: Boyle, R., Sport: Mirror of American Life, Little Brown, Boston 1963.
[13] Cfr. Aledda, A., L’importante è vincere. Lo Sport UsA dal Big Game al Big Business, SSS, Roma 2000: 77 ss. in cui analizzo proprio il caso di Nixon e delle intercettazioni del Watergate. Sulla simbologia sportiva cfr. anche Lipsky, R., Political Implications of Sports Team Symbolism in “American Behavioural Scientist”, Vol. 21, N. 3 1978.
[14] Cfr., per es., Greenspan, E., Little Winner. Inside the World oh the Child Sports Star, Little Brown, Boston 1983.
[15] Istruttivo in proposito il saggio di Robert Redeker, Lo sport contro l’uomo, Città Aperta edizioni 2003, che arriva a definire lo sport “un’illusione di civiltà”.
[16] Donati, A., I signori del doping. Il sistema sportivo corrotto contro Alex Schwazer, Milano, Rizzoli 2021.
[17] Cfr., Aledda, A., De Coubertin Addio! Corruzione, affari, droga, frode e criminalità nello spor dall’antichità ai nostri giorni, SSS, Roma 1998: 197 ss.
[18] Cfr. Queval, I., Le corps aujourd’hui, Paris, Gallimard 2008.
[19] Cfr, Vanden Auweele, Y., Ethics in Youth Sport. Analyses and Recommendtions, Leuven, Ianoo campus, 2004. Prima ancora la denuncia di Craig, S., Parents and Sportsmanlike: Contemporary Expectations in “The Physical Educator” Vol. 53, 1, 1996; Aledda, A. et al., Ethic and Sport. Youth and Manager, Milano, Franco Angeli 2008.
[20] Hobsbawn, E. J. – Ranger T., L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi 1983, che costituisce un ottimo schema teorico per intendere l’invenzione dell’attività sportiva nella società moderna.
[21] Nell’ambito degli studi sportivi spiccano le discussioni sul collocamento di certe espressioni dell’attività sportiva tra quelle artistiche, analisi valida modernamente in cui si afferma un concetto di arte dinamica e in movimento (viene citata come esempio la famosa plastica rovesciata di Pelé). Cfr. Il pionieristico Frayssinet, P., Le sport parmi les beaux-arts, Paris, Nouvelle Frontiere 1968.
[22] Sullo sport come battaglia cfr. Del Lago, A., Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Bologna, Il Mulino 2001
[23] Cfr. Maguire, J, Global Sport, Maldem MA, Poliry Press 1999.
[24] Da un lato, infatti, troviamo in Guttman, A., il più autorevole e prolifico storico dello sport americano, con suo iniziale From Ritual to record, Columbia Universiy Press 1978 come risposta a Novack, M., The Joy of Sports, Basic Books 1976.
[25] Burstyn, V., The Rites of Men, University of Toronto 1999.
[26] Aledda, A. (a cura di), Dove va lo sport del 2000? Cosa pensano i giovani dell’attività fisico-sportiva, Roma, SSS 2003.
[27] Per tutti Cfr. Bourgat, M., Tout savoir sur le dopage, Lausanne, Favre 1999.
[28] Interessante l’analisi su questi fenomeni di Sassatelli, R., Anatomia della palestra, Bologna, Il Mulino 2000.
[29] Cfr. Orsatti, L., Sport con disabili mentali, Roma, SSS 1995.
[30] Cfr. Aledda, A. – Fabbris, L. – Spallino, A., Multiculturalità e Sport, Milano, Franco Angeli 2006.
[31] Cfr. Aledda, A. – Monego, M., The Primacy of Ethics. Also in Sports? Milano, Franco Angeli 2011; Morgan, J. W.- Meier, V. K., Schneider A.J. (eds), Ethics in Sport, Champain, Human Kinetics 2001.
______________________________________________________________
Aldo Aledda, studioso dell’emigrazione italiana con un’ampia esperienza istituzionale (coordinamento regioni italiane e cabina di regia della prima conferenza Stato-regioni e Province Autonome -CGIE), attualmente è Coordinatore del Comitato 11 ottobre d’Iniziativa per gli italiani nel mondo. Il suo ultimo libro sull’argomento è Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Angeli, 2016). Da attento analista del fenomeno sportivo ha pubblicato numerosi saggi e una decina di libri (tra cui Sport. Storia politica e sociale e Sport in Usa. Dal big Game al big Business, finalisti premio Bancarella e vincitori Premio letterario CONI); ha insegnato Storia all’Isef di Cagliari e nelle facoltà di Scienze motorie a Cagliari, Roma e Mar del Plata in Argentina.
______________________________________________________________