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Quando una casa custodisce e genera storie. Dal Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk a «Bir zamanlar»

Il Museo dell'innocenza, Istanbul

Il Museo dell’innocenza, Istanbul

CIP

di Anna Rita Severini 

Condivido qui la mia avventura ultradecennale nei confronti di un progetto letterario-museale che, come dichiarato dallo stesso autore, ha una casa come principale «pezzo» della sua collezione. Si tratta del Museo dell’Innocenza, opera del romanziere turco Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura 2006. Sono contenta di poterlo fare qui in una doppia veste, l’una legata al lungo periodo di attività nel settore dei musei demo-etno-antropologici e l’altra come autrice del romanzo “BIR ZAMANLAR nel Museo dell’Innocenza” che di tale avventura è esito recente [1]. 

Pamuk, Guatelli, Turci e io 

All’inizio del 2014 mi capitò di parlare del museo sorto a Istanbul, che già frequentavo, con Mario Turci, da tempo direttore del Museo Ettore Guatelli. Di quest’ultimo, che avrei invece visitato nel 2016, leggevo con interesse da quando l’avevo sentito citare dal Prof. Pietro Clemente in una densa relazione tenuta a Modica (RG) nel 1989 [2]. Sulle affinità fra le due strutture ci confrontammo, io e Turci. Mi chiese se fosse ipotizzabile un gemellaggio e se potessi farmi ambasciatrice della proposta. Accettai la sfida e a mia volta mi rivolsi a Marco Ansaldo, giornalista buon amico di Pamuk, che nel 2013 mi aveva presentato a lui, ospite di Repidee a Firenze con una conversazione sul suo museo inaugurato da appena un anno [3].

Li incontrai a Bologna. Ero lì per ascoltare il premio Nobel che nell’aprile 2014 teneva quattro lezioni magistrali su invito di Umberto Eco [4]. Ricordo bene la mia eccitazione quando quella sera, a lezione conclusa, mi incamminai lungo via Castiglione al fianco di Ansaldo, e mentre gli consegnavo materiali su Guatelli da mostrare allo scrittore turco, solo pochi metri più avanti avevo Umberto Eco e Orhan Pamuk – due giganti! – che chiacchieravano amabilmente andando insieme a cena.

Eco e Pamuk a Bologna, 2014

Eco e Pamuk a Bologna, 2014

L’auspicato gemellaggio non ebbe mai luogo, ma noi eravamo certi che Pamuk dovesse conoscere il museo di Ettore, sapevamo che l’avrebbe apprezzato. E quando lo scorso anno sono comparse le foto del suo inaspettato e compiaciuto passaggio proprio lì, mi sono detta che finalmente ciò che avevamo immaginato era successo, che quella era la cosa giusta. Forse anche il piccolo seme gettato nel 2014 aveva dato i suoi frutti.

Così oggi non posso non associare nella mente due case che mi hanno conquistato molto prima di accogliermi, nutrendo per anni il mio desiderio di varcare la loro soglia: il Museo Ettore Guatelli e il Museo dell’Innocenza.

Istanbul, Museo dell'innocenza, primo piano

Istanbul, Museo dell’innocenza, primo piano

Il Museo dell’Innocenza e io 

La mia vicenda comincia da qui. Leggevo a fine 2009 che il famoso scrittore aveva concepito negli stessi anni e in assoluta simbiosi un romanzo [5] e un museo. Mi pareva un fatto notevole e volevo saperne di più. Di quella curiosità credo sia stata fertile retroterra l’esperienza ventennale nel Museo delle Genti d’Abruzzo, con gli studi condotti sulla cultura materiale, la cura quotidiana delle collezioni e un certo tipo di affetto maturato per gli oggetti privi di aura.

Così, nel 2010 ho letto il libro per poi riprenderlo a più riprese [6]. I suoi contenuti sono molteplici, ma qui cito alcuni di essi che più di altri hanno alimentato in me riflessioni destinate a svilupparsi nel tempo. Innanzi tutto c’è la raffinata descrizione di un amore, dei suoi ritmi, delle sue progressioni. Il tema è uno dei pilastri del libro, come lo stesso autore ammette, dichiarando fra l’altro in un’intervista «Ci ho messo dentro tutto quel che so sull’amore. È da tanto tempo che volevo interrogarmi su questa faccenda» [7].

Il peculiare valore degli oggetti quali presenze in grado di interagire fra loro e con le nostre esistenze è il secondo tema, secondo in ordine di tempo ma non di importanza. Terzo, il ruolo assunto dalla casa. La vicenda è costellata di dimore in cui si dipanano le vicissitudini del protagonista Kemal Basmaci, ma in fin dei conti una sola, l’ultima, conta davvero: il suo identificarsi con un museo è chiave dell’intero progetto.

Da qui è partita la mia analisi. Terminata la lettura, sappiamo da Kemal perché ha chiesto a Pamuk di scrivere un romanzo sulla sua storia d’amore, conosciamo le tappe di quest’ultima, abbiamo informazioni di base su principi, obiettivi prioritari e struttura espositiva del museo che ha in mente. Ma non molto di più. È come se il romanzo lasciasse il testimone al catalogo e al museo stesso. Stuzzica la nostra immaginazione e ci dà appuntamento alla prima visita nella casa di Çukurcuma. Lasciamo Kemal che chiacchiera con Orhan sotto un lampione sulla via di casa e aspettiamo, iniziamo a pensare come sarà quel nostro primo ingresso. Questo, almeno, è capitato a me.

Eppure il libro fissa già dei punti. Il protagonista parla dell’orgoglio mostrato dai custodi dei luoghi che ha visitato per trarre suggerimenti utili, lo cita come il «vero fulcro, il nocciolo autentico dei musei» [8] e noi possiamo già rintracciare in esso il senso di appartenenza presente in ogni buon curatore.

Tra le ultime indicazioni lasciate all’autore ci sono inoltre la convinzione che «i musei sono fatti non per essere visitati, ma per essere sentiti e vissuti» [9] e che «è la collezione stessa a determinare l’essenza, l’anima, di ciò che si percepisce visitandola […] senza collezione non si può parlare di museo, ma di un edificio per esposizioni» [10]. Ricordo che questi mi parvero già segnali di una consapevolezza che va oltre la sensibilità del romanziere e si avventura su un terreno diverso, appannaggio di antropologi, museologi, conservatori.

L’attenzione ai sentimenti dei collezionisti, al loro atteggiamento verso ciò che raccolgono e il mondo esterno, all’orgoglio o alla timidezza che li distingue, è poi sorella di un altro tipo di presa d’atto di cui il protagonista (e con lui lo scrittore) si vergogna, sapendo che 

«tutte queste cose cariche di ricordi di gente che un tempo aveva girato per le strade di Istanbul e ora per la maggior parte era morta, sarebbe sparita senza mai entrare in un museo, senza essere classificata, incorniciata o riposta in una vetrina» [11].

E ancora, Kemal ha idee molto chiare su come dovrà essere organizzato lo spazio museale:

«- Non dimentichi una cosa, signor Orhan: l’aspetto più importante del mio museo, la logica che sottende la sua struttura è che da qualsiasi punto dell’esposizione si può vedere l’intera collezione, – disse Kemal. – E dato che tutti gli oggetti saranno sempre visibili da qualsiasi angolazione, gradualmente i visitatori perderanno il senso del Tempo» [12]. 

9788806214166_0_424_0_75È comunque il catalogo [13] a illuminarci su molti aspetti dell’ideazione ed evoluzione del romanzo-museo. E qui Pamuk, talvolta intricato ed enigmatico in certi suoi primi romanzi, si lascia andare a una prosa piana, scorrevole. Il testo potrebbe quasi essere il racconto di un ragazzo, mai cerebrale, specialistico o retorico. Semplicemente un uomo, che è riuscito a compiere una bella impresa immaginata per anni, ci narra come e quando ha avuto la prima intuizione (inizio anni Ottanta), come ha maturato e lentamente messo a punto la sua idea, con che tempi ha acquisito oggetti nel vago desiderio di unirli in una storia ed esporli un giorno, quando ha comprato la casa destinata ad accoglierli (1999), come ha vissuto dubbi, difficoltà, cambi di rotta, delusioni e gioie. «Volevo», «sognavo», «avevo in mente» sono espressioni che ripete spesso, rendendoci partecipi della propria felicità e dell’elaborazione interiore che ha accompagnato la crescita materiale di scrittura e allestimento.

Capiamo così che non è il romanzo l’intuizione originaria. La trama, pur così struggente e intrecciata coi luoghi della città, intrisa del sentire dello scrittore fino al suo stesso inserimento fra i personaggi e insieme pervasa di rimandi a grandi temi come il senso del tempo e la felicità, è nata per colmare di questioni umane un luogo fisico – la casa di Çukurcuma – e per dar forma di romanzo a una forte motivazione intima dell’autore: la cura per le cose che si riconoscono come potenziali depositarie di interi mondi affettivi. Tutto in fondo nasce da qui, dal desiderio di catalogare gli oggetti in relazione ai sentimenti umani e guardare ad essi come parte di un universo misterioso eppure così percepibile nel quotidiano, così vicino a noi.

Inizialmente l’anima enciclopedica di Pamuk, già impegnato a metà degli anni Novanta nel collezionare pezzi scovati presso i rigattieri di Istanbul o avuti da conoscenti e amici, aveva perfino vagheggiato non un romanzo tradizionale, ma un «catalogo romanzato»: 

«Verso la fine degli anni Novanta, quindi, il mio romanzo aveva la forma di un catalogo di museo con lunghe, ricche e dettagliate annotazioni. Proprio come nel catalogo commentato di un museo, prima presentavo un oggetto al lettore, come se lo stessi esponendo al visitatore, poi passavo a descrivere i ricordi che quell’oggetto evocava nel protagonista. […] Sì, stavo per creare un museo, e il romanzo avrebbe narrato sia la storia degli oggetti nel museo sia quella della costruzione del museo stesso» [14] [15]. 

Dunque, in attesa di «toccare con mano», è stato tramite i due testi citati che ho preso a ragionare sulla sfida affrontata da Orhan Pamuk, non solo nel pianificare simultaneamente due capolavori in grado di alimentarsi a vicenda – una storia di finzione e un luogo vero in cui riconoscere i segni tangibili di quella finzione –, e non solo nell’inseguire con tenacia e genio le antiche ambizioni di artista visuale a lungo dissimulate in favore della scrittura. 

C’era di più. C’era l’ingresso audace in un mondo di specialisti cui il romanziere non appartiene. Addirittura nel catalogo si arriva a una puntuale teorizzazione sul futuro dei musei, frutto fra l’altro della sistematica abitudine a visitarne anche di minuscoli in tutto il mondo per anni. Quel che definisce «Un modesto manifesto per i musei» è una riflessione in undici punti su quale sia per lui la più giusta evoluzione di tali strutture nel mondo moderno.  

Esse sempre di più dovranno raccontare le «storie quotidiane dei singoli individui» anziché le antiche gesta di interi popoli o nazioni, così come i poemi epici hanno ceduto il passo ai romanzi. Dovranno essere spazi non di rappresentazione, bensì di espressione, accolti in ambienti intimi piuttosto che monumentali, integrati il più possibile nel tessuto cittadino. L’ultimo punto dichiara: «Il futuro dei musei è dentro le nostre case» [16].

Sull’analogia fra romanzo e museo l’autore si era già soffermato in una delle Norton Lectures, conferenze tenute all’Università di Harvard nel 2009, con queste parole: 

«Al pari dei musei, i romanzi hanno la duplice funzione di strumento del pensiero e strumento di conservazione, tutela e resistenza all’oblio […]» [17]. 

Tornerà a parlarne nel denso e illuminante contributo agli atti del convegno dedicato al Museo dell’Innocenza nel 2017 dall’Accademia di Belle Arti di Brera, in occasione del conferimento del diploma honoris causa:    

«Musei e romanzi sono simili per certi versi […], entrambi ci aiutano a ricordare la nostra vita quotidiana e a preservarne i dettagli; ci aiutano inoltre a ricostruire una totalità di oggetti e rappresentazioni, cioè la cultura in cui viviamo» [18].
Istanbul, Il Museo di Pamuk

Istanbul, Il Museo dell’innocenza

Per lo scrittore, museo e romanzo si rivelano dunque simili nel dare profondità alla natura ordinaria degli oggetti, nel collegarli in una storia e così attribuire loro nuovi significati. Seguendo la fitta rete di spunti offerti dai suoi testi, mi sono infine resa conto di essere attratta da una tale presa di posizione, ma al contempo disorientata. Perché mi lasciavo convincere da chi parlava di musei con tanta sicurezza pur essendo scrittore e sollecitava in me suggestioni estranee allo sguardo rigoroso dello specialista? Forse aveva ragione lui nell’esprimersi con queste parole?  

«Perché gli oggetti hanno per noi un valore così importante? Perché tendiamo a tenerli e, se possibile, a tramandarli alle generazioni successive? È un atto d’amore, no? Insomma, il museo» [19] .

È con tale stato d’animo, impastato di interesse tecnico e coinvolgimento sentimentale, che il 29 dicembre 2012, otto mesi dopo l’inaugurazione, ho fatto il mio primo ingresso nel Museo dell’Innocenza.

2Io e “Bir zamanlar” 

Nei due anni trascorsi dall’incontro col romanzo, sull’allestimento in corso non avevo raccolto che qualche indizio in alcune interviste e in un inserto speciale sulla rivista tedesca Baunetzwoche, a cura dello studio di architettura Sunder-Plassmann autore del progetto [20] Potevo solo intuire. Così ho iniziato a ragionare di continuo su come sarebbe stato il museo, ne ho costruito uno con la mia immaginazione, ho desiderato fortemente vederlo. Sapevo che ne avrei indagato le soluzioni tecniche, ma non mi sarei sottratta all’incanto della impalpabile sovrapposizione tra invenzione e realtà che permea l’intera opera. 

Sulle impressioni avute al mio primo ingresso e di pari passo coi ritorni a cadenza almeno annuale, ho stilato vari appunti cui sono seguiti approfondimenti da diverse fonti [21] e due mie recensioni su siti online [22]. Ho quindi organizzato le mie osservazioni in una sorta di dossier, con raffronti tra capitoli e bacheche e l’elaborazione di schede riassuntive, cui ho aggiunto estratti da un diario più personale compilato a partire dal 2011. Ne è risultato uno studio in cui ho cercato di coniugare i due approcci, conoscitivo ed emotivo, maturati nei confronti del museo [23]. 

C’è stato qualcosa che sin dall’inizio ho percepito in modo molto chiaro: la mia aspirazione a sviluppare con esso un rapporto particolare, a diventarne parte attiva. Non sarei stata insomma un’ospite qualunque. Sono partita dalla donazione – per ogni visita dal 2012 ad oggi – di foto, oggetti o materiali grafici in mio possesso relativi alla Istanbul degli anni di ambientazione della storia. Ho avuto incontri regolari con i direttori che vi si sono avvicendati.

L’assidua frequentazione ha poi mutato man mano il mio sguardo e più in generale il modo di sostare o muovermi al suo interno. Ho notato i piccoli cambiamenti espositivi, le novità e le assenze, le atmosfere in orari e giorni differenti, i dettagli prima passati inosservati o quelli inseriti con astuzia dall’autore per destabilizzare facili aspettative.

È stato naturale sentirmi sempre più a casa, anno dopo anno. Quasi una piacevole consuetudine entrare dalla stretta porta di legno nella sala d’ingresso presentandomi al custode di turno, salire la scala che conduce ai due piani intermedi fra luci soffuse e suoni discreti, approdare nella soffitta minuscola dove immaginare i dialoghi fra Kemal e Orhan. Oppure seguire l’itinerario inverso o sedersi per un po’ in un angolo ad osservare, pensare, prendere nota.

5Così il mio coinvolgimento emotivo si è evoluto a tal punto da far lievitare in me un’esigenza divenuta presto ineludibile: inventare un nuovo intreccio che avesse il Museo dell’Innocenza come centro fisico e ideale. Dapprima un racconto embrionale fra il 2011 e il 2012, poi due lettere d’amore indirizzate al museo e premiate in un concorso letterario nel 2015 e 2016 [24], sono state le prove generali di un’impresa più ambiziosa: un romanzo redatto fra il 2013 e il 2020 e pubblicato nel 2021.

Si era fatta strada in me la convinzione che quel museo potesse a buon titolo accogliere una nuova storia, nuovi personaggi che ho fantasticato potessero incontrarsi proprio lì e intessere relazioni, coltivare sogni, richiamare fantasmi del passato, venendo coinvolti in una dinamica inaspettata nel luogo che per motivi diversi aveva suscitato in loro interesse o passione.

Ho voluto situare le fasi principali della trama [25] nell’aprile 2011 a museo non ancora concluso, dunque in quella dimensione intima e quasi miracolosa, sospesa fra progetti e sperimentazioni, in cui ogni ipotesi può trovare conferma o svanire per sempre. Mi sono figurata gli spazi in allestimento, i depositi, gli oggetti ancora da esporre, come non era possibile vederli dietro le porte e finestre rimaste chiuse fino all’inaugurazione del 27 aprile 2012.

Nelle mie protagoniste – Denise, Irene, Maia – ho finito per travasare il senso dei diversi approcci possibili al progetto di Pamuk, partendo chi dal romanzo chi dal museo. Ne ho spiegato qualcosa in una recente intervista sul blog Scoprire Istanbul [26]. Se queste erano le intenzioni iniziali, mi sono resa conto tuttavia di essermi anch’io invischiata nel gioco creativo tra finzione e realtà di cui la casa-museo di Çukurcuma vive, e ciò è avvenuto man mano che arricchivo il nostro rapporto con le frequentazioni, le letture e la scrittura del mio libro.

Nel quadro concepito da Pamuk, la casa in cui oggi possiamo entrare è obiettivamente una realtà concreta, edificio dismesso di fine Ottocento restaurato e allestito in circa dieci anni di lavori. Ma è stata allo stesso tempo un artificio romanzesco fortemente simbolico, luogo in cui abitava la donna amata da riconquistare, poi vissuto dal protagonista come rifugio fra le cose e i ricordi di quell’amore, e ancora scelto per raccontare in solitudine allo scrittore la propria storia, infine museo desiderato da condividere con tutti.  

Credo sia stato inevitabile che la vicenda nei suoi confronti – mia personale come del mio libro – risentisse di tali presupposti. Attengono senza dubbio alla realtà oggettiva la serie di visite, lo studio, i contatti istituzionali, le donazioni. Ma strada facendo il confine così permeabile con la dimensione fantastica è stato oltrepassato in modo spontaneo quando mi sono ritrovata a donare alcuni oggetti che appartenevano a me quanto ai miei personaggi, quando non ho resistito al desiderio di far incontrare e conversare su in soffitta il fantasma di Kemal e la mia Maia, o quando ho immaginato che lei consegni il proprio manoscritto a Orhan Pamuk come nuova storia da proteggere nel museo perché non sia dimenticata insieme a milioni di altre, infine quando io stessa pochi mesi fa ho replicato il suo furtivo inserire una lettera speciale di Irene in uno dei cassetti sistemati sotto alcune bacheche. Tutto è venuto da sé.

Messaggi nel cassetto della bacheca n. 47

Messaggi nel cassetto della bacheca n. 47

E quei cassetti – colmati negli anni dagli ospiti più affezionati di messaggi, piccoli oggetti, foto, disegni che per volontà dello scrittore non vengono rimossi – stanno lì a dirci che il museo può instaurare con tutti noi un rapporto confidenziale in grado di garantire la sua vitalità segreta. Anche i lasciti di alcuni miei eroi in angoli nascosti della struttura vogliono essere una metafora di ciò che il visitatore, oltre che ricevere, può affidare di sé a un museo. Purché si senta a casa.

Così vedo chiudersi un cerchio nel quale una dimora immaginata diventa museo immaginato e vero, per tornare ad essere di nuovo una casa, vera anch’essa per chi la vive oggi e insieme custode dell’invenzione da cui è nata.

Col mio romanzo ho osato introdurre esistenze e situazioni sconosciute fra quelle che già la abitano per mano del suo autore. Ero un po’intimorita, ma la frase ricevuta in dono da Orhan Pamuk sulla quarta di copertina [27] ha rimosso ogni indugio per far posto a un orgoglio speciale: essere parte, seppur minuscola, di quel cerchio anche grazie allo sguardo duplice e complementare delle mie passioni.

Concludo con alcune belle parole spese per il mio lavoro da due autorevoli studiosi italiani che, con Mario Turci curatore di questo convegno, ringrazio di cuore: Silvia Mascheroni e Pietro Clemente. 

«E la topografia intricata di Istanbul, tutta da scoprire nell’annodarsi di rimandi urbani nascosti, ben interpreta l’intreccio complesso della partitura in cui si articolano le diverse vicende dei personaggi, ognuno con un suo profilo, accento e ruolo, una sua storia da conoscere, che si interseca nella trama del racconto, di capitolo in capitolo». [28]
«Nel dialogo tra Pescara e Istanbul, tra musei e persone, tra oggetti e sentimenti, questo romanzo aiuta a capire le potenzialità dei musei nella direzione delle emozioni, dei sentimenti e dei racconti della vita quotidiana. Una energia nuova per i musei». [29] 
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Note 
[1] Anna Rita Severini, 2021, Bir zamanlar nel Museo dell’Innocenza, Il Canneto Editore, Genova.
[2] Pietro Clemente, 2002, Estetica e comunicazione di massa nella museografia antropologica, in Museo e cultura, a cura di J. Cuisenier e J. Vibaek, Atti del V Colloquio Europeo Identità e specificità della museologia etnoantropologica, Modica (11-24/9/1989), Sellerio, Palermo: 53-68.
[3] Orhan Pamuk, (con Marco Ansaldo e Elena Stancanelli), 2013, Dall’innocenza e dall’amore, La Repubblica delle Idee-7 giugno 2013, La Repubblica (inserto)
[4] Si tratta del ventesimo ciclo di lezioni magistrali promosso dalla Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna, intitolato “Six books in Hundred and One Pictures (Sei libri in centouno immagini)” che Orhan Pamuk tenne dal 7 al 10 aprile 2014, illustrando in particolare gli aspetti visivi dei suoi principali romanzi, compreso “Il Museo dell’Innocenza”.
[5] Orhan Pamuk, 2009, Il museo dell’innocenza, Einaudi, Torino.
[6] Il romanzo narra dell’amore fra Kemal, trentenne benestante della Istanbul degli anni Settanta, e Füsun, sua lontana cugina diciottenne di estrazione modesta. Dopo giorni di incontri clandestini, lui la perde per non aver saputo rinunciare al fidanzamento ufficiale già fissato con una ragazza del suo rango. E quando la ritrova, la situazione è decisamente mutata. Ma Kemal inizia a frequentare la casa di Füsun, con pazienza, rispetto e devozione per otto anni, fino ad arrivare a un passo dalla riconquista della donna amata. Il destino però è contrario. Così Kemal troverà consolazione solo nella speranza che la sua storia d’amore possa essere narrata e ricordata per sempre in un luogo speciale, la casa di Füsun trasformata in un museo. Qui lui raccoglie le centinaia di oggetti testimoni di quella storia, conservati sin dai loro primi incontri per averne gioia e conforto, e chiede all’amico di famiglia Orhan Pamuk di scriverne in un romanzo e aiutarlo a creare il museo. Lo scrittore pubblicherà il romanzo in Turchia nel 2008, collezionerà oggetti per anni e inaugurerà il museo omonimo nel quartiere di Çukurcuma a Istanbul nel 2012.
[7] Orhan Pamuk, 2008, Il primo libro dopo il Nobel? Un lungo incubo da cui sono uscito, intervista di Marco Ansaldo, Venerdì di Repubblica, 12/11/2008
[8] Orhan Pamuk, 2009, Il museo dell’innocenza, Einaudi, Torino: 561.
[9] ivi: 569.
[10] ibidem.
[11] ivi: 548.
[12] ivi: 562.
[13] Orhan Pamuk, 2012, L’innocenza degli oggetti, Einaudi, Torino.
[14] ivi: 17-18.
[15] Sul Pamuk collezionista segnalo in particolare Thierry Dufrêne, 2018, Ritratto dello scrittore-collezionista: Orhan Pamuk e la nuova “arte delle collezioni”, in (a cura di Laura Lombardi e Massimiliano Rossi) Un sogno fatto a Milano. Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo, Johan & Levi Editore, Milano: 63-74.
[16] Orhan Pamuk, 2012, L’innocenza degli oggetti, cit. 54-57.
[17] Orhan Pamuk, 2012, Romanzieri ingenui e sentimentali, Einaudi, Torino: 94.
[18] Orhan Pamuk, 2018, Collezionismo e pratiche radicali tra letteratura e materialità, in (a cura di Laura Lombardi e Massimiliano Rossi) Un sogno fatto a Milano. Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo, Johan & Levi Editore, Milano: 163-183.
[19] Orhan Pamuk, 2008, Il primo libro dopo il Nobel? Un lungo incubo da cui sono uscito, intervista di Marco Ansaldo, Venerdì di Repubblica, 12/11/2008
[20] Johanna Sunder-Plassmann. Carlotta Werner, 2011, Museum der Unschuld, Baunetzwoche #249, november 2011: 4-19.
[21] Il Museo dell’Innocenza, Premio Museo Europeo dell’anno 2014, ha saputo ispirare finora diverse iniziative scientifiche e artistiche. Cito in particolare di Grazia Toderi e Orhan Pamuk la mostra Words and stars, al MART di Rovereto, 2013; di Grant Gee e Orhan Pamuk il film Innocence of memories. Istanbul e il Museo dell’Innocenza di Pamuk, 2015; di Johanna Sunder-Plassmann il docufilm Istanbul collecting, Academy of Media Arts Cologne, 2013. Fra gli studi antropologici segnalo Patrizia Ciambelli-Claudine Vassas, 2015, La consolation des objets. Esthétique de la nostalgie dans l’oeuvre d’Orhan Pamuk, Terrain, 15/2015, https://journals.openedition.org/terrain/15840; Pietro Clemente, 2016, I musei, tra nuove visioni e vecchie immagini. Orhan Pamuk, Claudio Magris e il senso comune, in DM-Dialoghi Mediterranei, 2016, n. 21, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/i-musei-tra-nuove-missioni-e-vecchie-immagini-orhan-pamuk-claudio-magris-e-il-senso-comune/
[22] Anna Rita Severini, 2012, L’innocenza degli oggetti, www.istanbulavrupa.wordpress.com; Anna Rita Severini, 2013, Il potere dell’immaginazione di plasmare la realtà: il Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk,
 https://www.scoprireistanbul.com/?s=museo+dell%27innocenza.
[23] Anna Rita Severini, 2016, Il Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk. Il romanzo, il museo, il catalogo. Annotazioni e due lettere. Istanbul, Pescara 2011-2016 (fascicolo inedito).
[24] Concorso “Lettera d’amore” 2015 – XV edizione (2° premio); 2016 – XV edizione (premio speciale della giuria), Edizioni Noubs-Museo della Lettera d’Amore, Torrevecchia Teatina (CH). 
[25] Istanbul, aprile 2011. Denise e Irene, arrivate dall’Italia, si conoscono nel Museo dell’Innocenza. Il museo aprirà da qui a un anno, ma al suo interno nel giro di pochi giorni il destino fa incrociare i percorsi di vita delle due donne, le ambizioni di una giovane antropologa museale e le visioni di una lettrice matura e appassionata. In tutto questo s’impiglia anche la tranquilla esistenza del turco Deniz, collezionista e poeta che collabora alla messa a punto dell’esposizione. E non solo. Nella medesima trama sono evocate altre esperienze vissute qui più di quarant’anni prima, quelle di Pietro e Hayat. A richiamarle verso il presente sono le pagine stilate da Irene, Denise e Deniz in quei giorni di aprile. Sarà la sensibile Maia a recuperarle e trasfonderle in un racconto unitario, avventurandosi nell’indagine commossa di circostanze a lei sconosciute, ma che la riguardano e la porteranno a scoperte importanti. Il titolo del suo lavoro – e del romanzo – scaturirà proprio da uno di quei filoni narrativi: due parole misteriose donate a una bambina il cui segreto si svelerà al lettore solo nelle ultime pagine. 
[26] Gianluca D’Ottavio-Scoprire Istanbul (a cura di), 2022, BIR ZAMANLAR nel Museo dell’Innocenza, https://www.scoprireistanbul.com/bir-zamanlar-nel-museo-dellinnocenza/
[27] «Anna Rita Severini ha inseguito lo sviluppo dell’Museo dell’Innocenza con la stessa passione con cui Kemal ha inseguito Füsun».
[28] Silvia Mascheroni, 2022, Una città, un museo, epifania di intrecci, in DM-Dialoghi Mediterranei, n. 57:  www.istitutoeuroarabo.it/DM/una-citta-un-museo-epifania-di-intrecci/
[29] Pietro Clemente, 2022, Non si arriva mai e non si sa dove si sta andando, in DM-Dialoghi Mediterranei, n. 53:  www.istitutoeuroarabo.it/DM/da-guatelli-a-marfara/ 

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Anna Rita Severini, è stata fino al 2017 Responsabile del Servizio Attività Culturali e Turistiche del Comune di Pescara. Dal 1981 al 2000 ha lavorato presso il Museo delle Genti d’Abruzzo, svolgendovi attività di ricerca, studio delle raccolte e co-progettazione dei contenuti espositivi. Ha scritto su temi di antropologia museale e cultura materiale tradizionale abruzzese. È socio fondatore di S.I.M.B.D.E.A. (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demo-Etno-Antropologici). Ha curato con Francesco Avolio il volume Paul Scheuermeier, Gerhard Rohlfs, Gli Abruzzi dei contadini. 1923-1930, Textus Edizioni, L’Aquila 2014 (II ed. 2022). Nel 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo “BIR ZAMANLAR nel Museo dell’Innocenza” Il Canneto Editore.

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