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Quanto costa un pomodoro?

549327f0ff280d2c32453de3ef419350di Nicola Martellozzo 

Ci sono notizie che riescono a raggiungerti anche quando pensi di essere distante da tutto. Senza televisione, con poco campo, i quotidiani che arrivano al bar in ritardo e la maggior parte del tempo trascorsa con pastori e malgari negli alpeggi trentini. Eppure certe notizie trovano comunque il modo di arrivare. Prima come voci confuse e contrastanti: “un uomo è morto a Latina, fuori da casa sua, senza un braccio”; “anzi no, è morto in ospedale, il giorno dopo”; “non era il braccio, era una mano, lasciata sopra una cassetta di frutta, di quelle di plastica”. “Lasciata? No, hanno lasciato anche lui lì davanti”.

A quel punto decidi di informarti: cerchi un quotidiano nazionale, o su Google, e ti chiedi come sia stato possibile che quella notizia non ti fosse arrivata prima. E ti stupisci di come la realtà sia decisamente peggio dell’idea che ti eri fatto: Satnam Singh, un tuo coetaneo arrivato dall’India tre anni fa, dopo aver perso un braccio lavorando in un’azienda agricola di Latina è stato trasportato dal proprietario fino a casa sua e lì lasciato a dissanguarsi, l’arto reciso riposto ordinatamente in una cassetta per le verdure. Il giovane lavoratore è morto il giorno dopo, mentre l’imprenditore rilasciava dichiarazioni sconcertanti sulla “leggerezza del bracciante” sul posto di lavoro. È una notizia eclatante, di quelle che generano settimane di dibattiti pubblici, tavoli di confronto, dichiarazioni politiche e scioperi dei sindacati. E che non cambiano assolutamente nulla. La morte di Satnam ha brillato per un attimo nel grigiore della convivenza, dell’indifferenza e della normalizzazione che un’ampia parte del mondo del lavoro italiano intrattiene con il caporalato, lo sfruttamento dei migranti e la sistematica negazione dei diritti. Sistematica non perché condotta con regolarità e metodo, ma perché questa regolarità e questo metodo sono parte del sistema produttivo dell’economia italiana. Proprio per questo, nonostante tutto lo scalpore e lo sdegno che ha generato, la morte del giovane bracciante non sarà l’ultima. Lui stesso è stato il centesimo lavoratore migrante morto dall’inizio di quest’anno, in Italia.

In molti hanno definito “disumano” quanto è avvenuto nella campagna di Latina, ma come antropologi sappiamo bene, purtroppo, che simili episodi sono assolutamente e inevitabilmente umani; di più, sono espressioni di specifici modi di essere umani, per quanto detestabili possano essere. Anche abbandonare una persona gravemente ferita sulla soglia di casa, senza avvisare i soccorsi, è una scelta che viene presa tra una serie di possibilità culturalmente definite, per quanto non tutte siano moralmente accettabili. Parlare di disumanità ci permette di allontanare l’orrore di ciò che è successo, relegandolo a una dimensione altra che non riguarda né noi né la nostra società. Una simile difesa rischia però di renderci miopi rispetto a ciò che continua ad accadere quotidianamente, fatto da esseri umani che – come tali – scelgono di agire a scapito di altri, sfruttandone il lavoro con modalità che altri hanno definito schiaviste, controllandone la vita attraverso il ricatto di un salario da fame e la minaccia del permesso di soggiorno, e rendendosi colpevoli di continui atti di violenza e sopraffazione. Non si tratta di una condizione temporanea, dettata dall’arrivo di migranti sulle coste italiane; non è una situazione d’emergenza, cominciata con la morte di Satnam Singh; e non si può ridurre il tutto a delle eccezioni criminali e sporadiche. Ciò che è accaduto a Latina, che accade da secoli nel nostro Paese – per limitarci ad esso – è espressione di un fenomeno strutturale e integrato nel nostro sistema economico.

È una condizione che non riguarda certo la sola campagna laziale, o il Meridione; l’ho ritrovata nelle estati della mia adolescenza, tra le vigne del Veneto a vendemmiare insieme a braccianti di cui non conoscevo lingua o nazionalità. Non lo racconto per dimostrare d’essere anch’io “uno del popolo”, anzi, tutto il contrario: per me, giovane italiano proveniente da una famiglia di medio reddito quel lavoro rappresentava qualche soldo extra, ma di cui avrei potuto benissimo fare a meno; per quei lavoratori stranieri, che arrivavano la mattina con lo stesso camioncino che poi ripassava a prenderli la sera, non c’era una vera alternativa. Ho ritrovato quella condizione anche nei miei campi di ricerca, tra le montagne di una delle province più ricche d’Italia in termini di reddito e servizi, dove però molti pastori continuano ad essere assunti con contratti irregolari, malpagati e vivendo in strutture inadeguate.

558812Vengono dal Bangladesh, dal Pakistan, dal Marocco, e spesso sostituiscono i lavoratori romeni o albanesi che ormai sono diventati “troppo esigenti”. Si potrebbe replicare – come è stato detto – che tutti questi casi sono per l’appunto solo dei casi, che andrebbero giustamente perseguiti alla stregua di altre realtà irregolari o criminali. Tuttavia, se in Italia almeno un quarto di tutti i lavoratori impiegati nel settore primario è coinvolto in dinamiche di sfruttamento – stando al sesto rapporto su agromafie e caporalato – ciò significa che c’è ben più di qualche realtà problematica. Il ricorso alla retorica della “criminalità” ha addirittura una funzione sociale conservativa, nel senso che permette di assolvere lo status quo attraverso il sacrificio di pochi casi, presentati come eccezioni negative di un sistema sostanzialmente sano e virtuoso. È lo stesso meccanismo per cui certi criminali vengono additati come “pazzi” o “mostri”, salvando così l’illusione di una normalità sociale. Lo stesso atteggiamento contro cui Paolo Borsellino si scagliò parlando di mafia, perché «se la mafia fosse soltanto criminalità organizzata, una forma pericolosa quanto si vuole di criminalità organizzata, il problema della mafia interesserebbe soprattutto gli organi repressivi dello Stato, polizia e magistratura»; e invece la mafia – oggi come allora – è qualcosa che convive con il tessuto sociale, e che beneficia di questa convivenza. Lo stesso vale per il fenomeno del lavoro irregolare che, con varie intensità e modalità, convive con il tessuto economico nazionale.

È bene essere chiari su questo: le decine di migliaia di migranti che lavorano in nero, malpagati e sottoposti a regime di caporalato, sono uno dei pilastri del nostro sistema produttivo e previdenziale, irreggimentati attraverso politiche migratorie ad hoc. Mi riferisco in particolare ai cosiddetti “decreti flussi”, provvedimenti che definiscono il numero di migranti che l’Italia può accogliere come forza lavoro nel proprio territorio. La pratica ha avuto inizio nel 2001 sulla base dalla Legge Turco-Napolitano (40/1998) in materia di immigrazione, poi abrogata e sostituita dalla Legge Bossi-Fini (189/2002). Attraverso questi strumenti legislativi lo Stato esercita una vera e propria contabilità migratoria, che non si limita a gestire i flussi in entrata e in uscita ma aggiunge una doppia registrazione degli immigrati: come stranieri lavoratori regolari, e come “eccessi” irregolari. Prendendo a prestito un concetto della ragioneria, la contabilità migratoria è a partita doppia, ovvero quel metodo di scrittura contabile nato con lo scopo di registrare i movimenti monetari-finanziari e determinare, al contempo, il reddito di un periodo amministrativo. Nel nostro caso, le stesse persone vengono registrate due volte: come parte di un flusso migratorio, e ripartendoli secondo le esigenze del settore lavorativo nazionale. Il decreto flussi per il 2024 prevede 151.000 “quote d’ingresso” per lavoratori non comunitari, e in particolare 61.250 per lavoro subordinato non stagionale e assistenza familiare e 89.050 per lavoro subordinato stagionale, la categoria in cui rientra la maggior parte dei braccianti come Satnam.

Nel 2023 era prevista una quota di 82.705 migranti; erano 30.850 negli anni precedenti al 2021, addirittura la metà nel 2017, ma la quota è stata progressivamente aumentata per integrare lavoratori subordinati non stagionali da destinare alle esigenze dei settori dell’autotrasporto merci per conto terzi, dell’edilizia e turistico-alberghiero. L’incremento di quest’anno non rappresenta neppure un record, dato che il decreto flussi del 2007 fissava a 250.000 migranti il numero di lavoratori subordinati e stagionali. Al di là di ogni retorica politica, il mantenimento di questa contabilità migratoria da parte di tutti i governi degli ultimi vent’anni dimostra in modo inequivocabile la dipendenza del tessuto produttivo italiano – in particolar modo il settore primario – dal lavoro dei migranti.

migrantiL’irreggimentazione di queste persone attraverso il controllo dei flussi e il sistema dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato, la loro integrazione spesso irregolare e sommersa all’interno delle aziende, sottoposti a pratiche ricattatorie o addirittura criminali, è finalizzata a capitalizzare la forza-lavoro dei migranti lasciandoli al contempo in uno stato residuale, al limite tra legalità e illegalità ma più spesso nella seconda. Sono dinamiche che talvolta riguardano anche lavoratori italiani o provenienti da altri Paesi dell’Unione Europea, ma la condizione dei braccianti come Satnam Singh è decisamente più vulnerabile alle forme di sfruttamento e violenza strutturale sopra accennate. Di più: essa fornisce a molte imprese una manodopera a basso costo utile a competere con aziende più grandi o strutturate, e in questo senso fenomeni come il caporalato o lo sfruttamento non sono affatto comportamenti aberranti e isolati ma costituiscono pratiche lavorative perfettamente coerenti con le logiche del libero mercato. Moralmente riprovevoli, illegali, ma ciononostante espressioni “naturali” di un sistema che attraversa l’intera filiera, consumatori compresi.

Allora mi chiedo, quanto costa un pomodoro? L’azienda agricola per cui lavorava Satnam Singh non era collegata alla grande distribuzione: i suoi prodotti finivano sul banco di piccoli negozi alimentari, più spesso mercati paesani e rionali. Gli ortaggi lavorati e imballati dal giovane bracciante non sono finiti nelle dispense di famiglie particolarmente benestanti, ma il prezzo contenuto di quella merce è stato reso possibile dallo sconto sui diritti dei lavoratori e dei migranti. Condannare il comportamento di quell’imprenditore, e dei tanti che come lui continuano a sostenere o convivere con queste pratiche illegali, è doveroso e necessario, ma domandiamoci se siamo sinceramente disposti a sobbarcarci il costo economico. Se eliminassimo il caporalato, regolarizzassimo tutti i lavoratori in nero, e venisse fissato una paga oraria minima per tutti i braccianti, accetteremmo anche di pagare quel pomodoro due o tre volte il suo prezzo attuale? Siamo disposti a pagare per comprare degli alimenti certificati eticamente, per garantire una condizione equa di lavoro e retribuzione a braccianti come Satnam? Può sembrare cinica come domanda, ma se come consumatori non prendiamo coscienza di questa relazione, protestare e indignarci per le morti dei braccianti rimane solo un esercizio retorico. Teniamo poi presente che per molte famiglie non si tratta solo di una scelta di consumo, ma di poter effettivamente comprare qualcosa o non comprare nulla.

Regolarizzazione, verso accordo su permessi di 3 mesiLo stesso pomodoro finisce così per costare troppo o troppo poco: troppo, per tutte quelle persone che non hanno un reddito sufficiente per affrontare un rincaro dei generi alimentari; troppo poco per i lavoratori impegnati nella raccolta, trasformazione e trasporto, ai quali finisce una quota assolutamente marginale del prodotto venduto. Questo è proprio il genere di aut aut cui il sistema capitalista ci mette da parte ogni giorno, costringendo a scegliere tra diritti individuali o diritti sociali, tra sviluppo continuo o recessione, tra sfruttamento ambientale o tutela integrale. Sotto la minaccia di questi aut aut, molti imprenditori scelgono di ricorrere a pratiche illegali, come l’evasione fiscale o lo sfruttamento dei lavoratori, e trovano nei migranti una forza-lavoro già pre-disposta dalle istituzioni statali. Tutto quello che abbiamo scritto finora serviva a descrivere il mondo lavorativo in cui Satnam Singh ha lavorato negli ultimi due anni: un mondo che crea ricchezza attraverso lo sfruttamento del plusvalore generato dai braccianti – e fin qui, nulla di nuovo – a cui però si aggiunge una modalità particolarmente odiosa che “costringe” imprenditori, consumatori e gli stessi lavoratori a convivere con un’oppressione strutturale e sistematica dei migranti, necessaria per “stare al gioco”.

Si potrebbe pensare che quanto accaduto dopo l’incidente sia qualcosa d’altro, che riguarda una dimensione più etica che economica. Invece il punto è proprio questo: la scelta di abbandonare un lavoratore ferito obbedisce alla stessa logica dietro la sua assunzione irregolare, il suo sfruttamento metodico, e il suo mantenimento in una condizione di dipendenza e marginalità. Quello dell’imprenditore non è stato un atto disumano, ma un gesto culturale che riflette determinati valori, e nel caso specifico è espressione lineare del sistema economico nel quale viviamo. In tal senso, anche la macchina che ha strappato il braccio di Satnam è una materializzazione drammatica di quelle dinamiche oppressive: essa ha letteralmente scorporato i mezzi di produzione del bracciante, l’essenza della sua forza-lavoro – le sue braccia, per l’appunto – dal resto del corpo, che l’imprenditore ha poi scartato come si scarta un ortaggio guasto, o come si scarta un lavoratore non più adatto a svolgere le sue mansioni. Le metafore, in questa storia, paiono di cattivo gusto, e forse lo sono. Ma è attraverso di esse che noi cerchiamo continuamente di dare un senso alle cose, anche quando gli eventi sembrano così privi di significato, così tremendi nella loro cruda brutalità. Invece, un senso purtroppo c’è, e sta a noi come antropologi denunciarlo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio, 2024

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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT). Ha pubblicato recentemente la monografia Traduzioni del potere, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 2, Cisu editore (2022).

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