Rinaldo dei Chiaramonti, personaggio creato dalla fantasia di vasta letteratura attorno all’epopea carolingia, uno dei dodici paladini di Francia scelti da Carlo Magno, nonostante il suo spirito ribelle ed insofferente a tutte le autorità, quella volta, secondo la narrazione di Ludovico Ariosto, non riuscì a fermarsi a Ferrara, peraltro ancora piccolo borgo sorto in mezzo alle paludi e tuttavia destinata a diventare in seguito una città «ornata e bella». Troppi affanni e risentimenti tenevano prigioniero il suo animo e urgenti gli si presentavano le imprese da portare a termine in paesi lontanissimi per consentirsi la licenza di fermarsi da turista per caso in quel semplice agglomerato urbano, invero alquanto terragno e ferrigno e assai lontano, allora, dai più sofisticati stili che adornano il potere attraverso musica, poesia, pittura e architetture prestigiose. In fondo, era pur sempre un professionista abilissimo nel mestiere delle armi e le missioni da compiere lo chiamavano altrove immediatamente.
Appena sveglio, mentre l’imbarcazione che lo trasporta a Ravenna vola «come per l’aria augello», riesce a vedere soltanto le due rocche di Casteltedardo e l’isola periferica del Belvedere, percependo appena le parole del suo compagno di viaggio, Malagigi, che gli rappresenta la visione felice ma avveniristica di una Ferrara da altri riconosciuta in seguito per la sua impareggiabile seducente bellezza.
La sua mente, alquanto turbata, è invece rivolta al Catai e all’isoletta di Lapadusa, nel mare Mediterraneo prossimo all’Africa. Infatti Rinaldo, in linea principale, è ancora, nonostante abbia bevuto alla fontana del disamore, «captivo in amoroso duolo»: non perdona ad Angelica di essersi donata «in tutto» ad un giovane africano offrendogli le «primizie inante». Non si rimargina una simile ferita, tanto più quando viene declinata con pensieri deliberatamente razzisti (saracino, africano, vilissimo barbaro) che tuttavia reclamano vendetta anche nei paesi più lontani d’Oriente. Al più presto. Inoltre a questo dolore si aggiunge altro dolore, che fornisce ulteriore giustificazione soggettiva all’avventuroso velocissimo viaggio: gli viene rivelato che a Lampedusa, per porre fine a quella tremenda sanguinosa guerra, si sfideranno in un combattimento ormai imminente tre paladini cristiani (Rinaldo, Brandimarte e Olivieri) e tre campioni islamici (Agramante, Gradasso e Sorbino). Ma come – pensa Rinaldo – da poco tempo, in terra di Francia, l’Imperatore Carlo lo aveva prescelto a singolare marziale agone contro il valoroso musulmano Ruggero e ora lo escludeva dallo scontro decisivo? Egli non era sempre lo stesso paladino, secondo a nessuno per valore? («Ecco Rinaldo, che per molte prove/mostra che non minore d’Orlando sia»). Il sangue gli ribolle nelle vene e l’orgoglio del combattente si ribella. Via allora verso Lampedusa, a combattere accanto ad Orlando ormai guarito dopo l’intervento di Astolfo. Soffre Rinaldo ma s’offre in difesa della cristianità. Raggiunta Ravenna, sbarca e procede a cavallo verso Urbino e Cagli, attraversa gli Appennini, s’imbarca ad Ostia, raggiunge Trapani e quindi finalmente Lampedusa dove però l’attende altra delusione: il combattimento è terminato con il trionfo dei cristiani costretti purtroppo a lasciare sul campo il prode Brandimarte. Non gli resta che assistere ai solenni funerali di quest’ultimo nella spiaggia di Agrigento e partire verso nuove avventure, magari per dimenticare il perduto amore di Angelica e il tradimento delle sue aspettative di combattente, perfino deprivato delle affabulazioni visionarie e cortigiane di Malagigi-Ariosto sulla Ferrara non più crisalide.
Alcune di queste vicende sono raffigurate in Sicilia nei vivaci carretti tradizionali o rappresentate nell’Opera dei Pupi, oppure nei cartelli dei cantastorie girovaghi di piazza. Il poeta dialettale siciliano Nino Martoglio, sottolineando in una gustosa composizione che Orlando e Rinaldo erano entrambi innamorati di Angelica, mette in campo in singolar tenzone i due paladini, «addivintati du’ nimici feri», che combattono già da tre giorni e che alla fine «cadono storditi ambo all’unisono/per sette giorni intere e sette notti!». La poesia epico-cavalleresca così nell’Ottocento diventava farsa e dai palazzi del potere si trasferiva nei cortili e nelle strade.
Dialoghi Mediterranei, n.9, settembre 2014
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Giuseppe Inzerillo, è stato a lungo Provveditore agli Studi di Ferrara e successivamente Sovrintendente scolastico per l’Emilia Romagna, studioso attento della legislazione scolastica, autore di uno studio prezioso Storia della politica scolastica in Italia, pubblicato da Editori Riuniti nel 1974. Autore di saggi di storia, arte e letteratura, nel 2013 ha curato per l’Istituto Euroarabo la stampa del volume del padre Lorenzo, Una città di polvere e gelsomino, testimonianza del suo affetto filiale e del suo amore per la città dove era nato, Mazara del Vallo.
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