di Eva Carlestål
Questa è la storia di un’antica casa situata a Nuoro, una piccola città nel centro della Sardegna, Italia. In questa casa, che ho conosciuto da quando sono arrivata a Nuoro, nella primavera del 2010, una stessa famiglia ha vissuto per almeno cinque generazioni. Fin dal primo momento in cui sono entrata ho sentito fortemente che la casa e i suoi abitanti sono una cosa sola e hanno creato una atmosfera molto aperta e amichevole [1]. In questo articolo il mio scopo è quello di mostrare questo processo continuamente in corso. Sono le voci dei membri della famiglia che verranno ascoltate, così che ciò che segue è una storia basata empiricamente sulla stretta relazione tra una particolare famiglia e la loro casa; scriverò dunque di vita sociale, di memoria e, soprattutto, del sentimento di appartenenza. «Gli edifici, come le poesie e i riti, sostanziano le culture» (Glassie 2000:17).
La casa
La casa in cui entro nel 2010 è un edificio di quattro piani. Due sorelle anziane, che formano una famiglia, hanno la loro cucina al piano terra e le loro camere da letto al terzo piano. Una di loro è rimasta nubile e ha vissuto tutta la sua vita in questa casa. L’altra sorella si è trasferita lì quando suo marito è morto negli anni ‘90. Sono entrambe senza figli. Il primo e il secondo piano sono occupati da una terza sorella, suo marito e tre dei loro figli. Anche se la casa appare divisa in due famiglie distinte, non è costituita da due appartamenti nettamente separati, muovendosi i membri della famiglia liberamente tra tutti i piani.
La vita quotidiana si svolge al piano terra e al primo piano, essendo gli altri due utilizzati solo per dormire. Entrambi i piani hanno ciascuno una cucina e un soggiorno, ma c’è una marcata differenza tra di essi. Il piano terra è molto simile a un museo creato dalla sorella che ha vissuto tutta la sua vita nella casa. Lei non solo ha mantenuto mobili e altri oggetti delle generazioni precedenti, ma ne ha anche aggiunto alcuni antichi che si è procurati da sola. In cucina, per esempio, ha organizzato una grande collezione di vecchi utensili in una sorta di mostra espositiva.
La mia informatrice principale, Nevina, è la terza sorella che vive al primo e al secondo piano. Fin dal primo giorno in cui ci siamo incontrati, Nevina è stata entusiasta nel raccontarmi della casa che significa tanto per lei e che lei sogna molto spesso la notte. Considera il piano inferiore molto più bello del suo, che direi piuttosto tipico per una coppia della loro età: il soggiorno ha un gruppo di divano e poltrone vicino al camino aperto, un televisore, un armadio antico, appartenente ad una delle sorelle che vivono al piano di sotto, e una tipica cassapanca sarda. La cucina è moderna. Le camere da letto ai piani due e tre hanno tutte letti antichi. Nevina ama molto questi letti e un giorno mi ha invitata per vederli. Sia nelle camere da letto che nei salotti, ci sono le foto dei membri della famiglia deceduti, alcuni dei quali morti prematuramente. Della generazione nata nella metà del l’Ottocento ci sono grandi dipinti.
La casa dispone di un cortile circondato da un muro in cui la famiglia una volta manteneva animali come conigli, galline e un maiale. Nella parete l’anello in cui l’asino veniva legato è ancora a vista. Vi cresceva da molti anni una magnolia bianca, che il padre delle tre sorelle aveva portato dal nord Italia. Nel cortile si svolgeva il lavoro domestico, ma era anche un importante punto di ritrovo soprattutto in estate per la famiglia così come per i vicini e i parenti che non vivevano nella casa. Ogni generazione ricorda di aver giocato nel cortile, mentre i più anziani tenevano un occhio su di loro. Non solo l’atmosfera ma anche letteralmente è sempre stata una casa aperta. Solo la sera, quando cominciava ad imbrunire, sia il cancello esterno che la porta della casa si chiudevano.
La casa è stata ricostruita e rinnovata in più occasioni. Nel 1965 fu eseguita una ricostruzione di vasta portata, ovvero una demolizione come tiene a precisare Nevina, la quale è dell’opinione che la vecchia casa era molto più bella di quella attuale, anche se riconosce da apprezzare ora il fatto di avere, ad esempio, bagni interni. Ma la sera la casa torna ad essere nei sogni come quando era bambina.
Campanilismo e proprietà della casa
Il campanilismo (o patriottismo locale) è stato a lungo considerato come qualcosa che caratterizza gli italiani. Le persone si identificano con il loro luogo di nascita, ne sono straordinariamente orgogliose e spesso si riferiscono ad esso nel presentare se stessi (Carlestål 2005:160-165). Così, a Nuoro mi è capitato sovente di ascoltare persone che si presentano pronunciando il nome e il paese da cui provengono. I nuoresi più anziani possono anche riferire da quale parte della città provengono perchè una volta consisteva di due parti, che sul finire dell’Ottocento sono state unite dal lastricato Corso Garibaldi (strada principale).
Inoltre, nel sud e centro Italia ho osservato come i genitori si sforzino con duri sacrifici per anni per fornire ai loro figli una casa propria al momento del loro matrimonio. Potrebbe essere una casa o un appartamento che apparteneva alla generazione più anziana, ora in fase di ristrutturazione perchè i giovani la possano prendere in consegna (le persone tendono a mantenere le case che appartengono alla famiglia anche se per il momento nessuno vive lì – un giorno potrebbe servire ad un figlio o un nipote, dicono) o una casa di nuova costruzione situata sul pezzo di terra della famiglia.
Insieme con il campanilismo questi modelli di residenza significano che le persone si spostano in misura assai rara e ridotta sia da una località ad un’altra e sia da una casa all’altra. Così, il sistema crea una appartenenza di lunga durata, nonché l’identificazione con un certo luogo e spesso con una casa specifica, come è il caso per la famiglia le cui voci ho raccolto in questo articolo [2]. Nevina non può nemmeno pensare di lasciare né Nuoro né la casa che abbraccia tutta la sua vita, dice. Inoltre, una casa è generalmente indicata come casa della donna o della madre, come avremo modo di constatare [3].
Visita alla casa
Nel visitare la casa nel tardo pomeriggio (l’ora abituale delle visite nel Sud Italia), incontro spesso le tre sorelle anziane sedute vicino al caminetto al piano inferiore. «Questa è la classica immagine di mia madre e delle sue due sorelle», mi ha detto uno dei figli di Nevina. Questo è anche il modo in cui generazioni prima di loro erano solite intrattenersi insieme, quando non sedevano fuori nel cortile in estate. Una delle tre sorelle è l’esperta del camino, quando si tratta di mantenere perfettamente acceso il fuoco. Ogni tanto aggiunge altra legna, rinvigorisce le fiamme o vi soffia con un lungo tubo di metallo.
Mentre siamo sedute a chiacchierare parenti e amici vengono a fare una capatina. La casa è sempre stata e ancora oggi è un punto di riferimento, dicono tutti i membri della famiglia. Non ci sono grandi ovazioni nel salutare chi arriva, soltanto un benvenuto semplice ma profondamente sentito. Potrebbe essere offerto un caffé oppure dei biscotti. Gli argomenti trattati riguardano ogni cosa, dalla vita familiare alle notizie locali, dalla politica alla letteratura e molto altro ancora. Le sorelle mostrano un vero e proprio interesse per il mondo circostante e sono aperte verso ciò che è nuovo o diverso. Tant’è che uno dei figli di Nevina mi ha detto una volta che i suoi genitori non hanno mai limitato o condizionato i loro figli per quanto attiene la religione o la politica, nonostante i genitori stessi fossero apertamente di sinistra.
Le visite più frequenti sono quelle dei figli di Nevina che non vivono più nella casa e delle sue tre nipoti, che vengono con regolarità dopo la scuola – una di loro con la compagnia del suo amato cane. Le ragazze sono libere di muoversi per tutta la casa, anche se sembrano preferire la cosiddetta sala computer dove si trova anche la maggior parte della biblioteca della famiglia. «Questa è la nostra stanza», dicono le ragazze. Qui possono chiudere la porta in modo da non essere disturbate quando giocano, leggono, disegnano o fanno i compiti. Di tanto in tanto possono andare nella cucina della nonna per prepararsi uno spuntino. L’unica regola pronunziata che ho sentito è che a loro non era permesso di portare cibo nel salone al piano di sotto, dove si trova la maggior parte dei mobili antichi.
I figli di Nevina, che ora hanno 40-50 anni, ricordano anche che c’è sempre stato un costante andirivieni di vicini, parenti e amici. Così hanno fatto, per esempio, i loro cugini che vivono nelle vicinanze e venivano regolarmente a giocare con loro. Insieme giocavano tanto nel cortile così come nella strada al di fuori della casa, che per loro costituiva un tutt’uno. Ora questi cugini sono tra i frequenti visitatori della casa. Le relazioni con i vicini di casa erano solitamente buone e quando la madre aveva preparato qualcosa di speciale mandava loro tramite i suoi figli una parte di quanto cucinato. Un gesto che muoveva non dalla necessità, ma dalla tradizione: qualcosa che semplicemente si faceva. Tutti i figli ricordano questa amorevole vivacità della casa insieme con gli odori del cibo e del vino prodotti all’interno o nel cortile.
Come ho già detto, una cosa che mi ha colpito quando ho fatto conoscenza con la famiglia è stata non solo la loro cordiale ospitalità ma anche il fatto che il cancello e le porte della abitazione fossero sempre aperti. Quando ne parlo con loro, mi dicono che hanno sempre gradito incontrare le persone, compresi gli estranei. Io non sono certo l’unica straniera che è stata accolta in casa. Mi raccontano di altri forestieri con i quali sono stati a lungo in contatto oltre che con gli immigrati che vengono per accattonaggio o per la vendita di oggetti di artigianato, alcuni di loro con una certa regolarità. Questi visitatori non hanno mai trovato la porta chiusa. Che tristezza è stata tornare in una delle mie visite successive a Nuoro e trovare che la famiglia era stata costretta a mantenere il cancello definitivamente chiuso, dal momento che in una occasione ignoti erano stati trovati all’interno della casa, dopo essere entrati di nascosto. Era stato dunque costruito un confine indesiderato col mondo esterno facendo in tal modo sentire la famiglia chiusa. Invece del loro cancello aperto ora avevano installato a casa un citofono.
Fin dal primo giorno in cui sono entrata nella abitazione, grazie ad uno dei membri della famiglia che avevo incontrato in altre circostanze, ho sempre amato tornarvi. La mia impressione personale è che questa è una casa felice. Nonostante alcuni membri della famiglia abbiano sofferto la malattia e la morte prematura, entrare in quella casa mi ha comunicato una sensazione di calore e di gioia. I miei informatori stessi dicono che la famiglia ha avuto in sorte una buona vita e che neppure durante la guerra hanno sofferto come tanti altri. Non erano ricchi ma non mancavano di nulla grazie al reddito del padre insegnante e grazie ai prodotti provenienti dai campi della famiglia situati alla periferia di Nuoro, dove venivano coltivati tutti i tipi di raccolto (cereali, frutta, verdure) che inoltre offrivano la possibilità di operazioni di baratto.
La casa e la famiglia si plasmano l’un l’altra
La casa non ha un nome particolare. I nipoti di Nevina vi si riferiscono come la casa della nonna proprio come fa la generazione di mezzo, anche se per loro la nonna di cui si parla è la madre di Nevina. Nevina e le sue sorelle da parte loro si riferiscono ad essa come la casa della mamma o, più raramente, la casa delle zie dalle quali è stata ereditata. Al di fuori della famiglia la casa è solitamente indicata utilizzando il nome di famiglia delle tre sorelle anziane.
Tutti i membri della famiglia esprimono un fortissimo attaccamento alla loro casa e sottolineano l’importanza che essa in futuro resti in possesso della famiglia. Questo vale anche per la generazione più giovane. Inoltre, per tutti loro la casa e la famiglia sembrano creare una sola unità a cui sentono tutti profondamente di appartenere (cfr House Life 1999: 8ff). «Siamo cresciuti insieme con la casa», ha detto una delle figlie di Nevina. Quando Nevina da ragazza è andata in uno dei villaggi vicini, dove la sorella appena sposata si era stabilita, sentiva nostalgia di casa già sul bus che la portava lì. Aveva una stretta relazione con la madre: «ero attaccata alle sue gonne»; tuttavia, non poteva dire se era la madre o la casa di cui sentiva maggiormente la mancanza. Lei semplicemente non riusciva a fare una chiara distinzione tra le due, per lei esse si integravano reciprocamente in una sorta di consustanzialità.
Ritratti, dipinti da artisti ambulanti, delle zie e del loro fratello dai quali la madre di Nevina ereditò la casa sono appesi sulle pareti al piano inferiore insieme con grandi foto di altri antenati. Questi furono conosciuti in prima persona dalla generazione più anziana ora vivente e, in parte, dalla seconda generazione, ma anche la mia informatricee più giovane che non li conobbe di persona può nominarli tutti quanti. Così, si può dire che sono parte della memoria collettiva della famiglia. Lo stesso vale per la maggioranza dei mobili antichi e degli utensili che una delle sorelle ha disposto al piano inferiore e per la qual cosa lei è molto apprezzata dagli altri membri della famiglia. Ogni cosa ha una sua storia e a ciascuna di esse viene data importanza e valore come parte del patrimonio comune oltre che bene prezioso per l’antichità in quanto tale. Molte di queste cose abitano nei sogni notturni frequenti che Nevina fa sulla vecchia casa.
Le tre sorelle che vivono nella abitazione sono tutte tra gli 80 e i 90 anni. Nevina confessa che si dovrebbe pensare alle ultime volontà e a ciò che accadrà alla casa quando un giorno lei sarà morta, e anche il marito le dice la stessa cosa. Tuttavia, trova queste questioni difficili da affrontare. Si ricorda che sua madre diceva ai figli che essi avrebbero dovuto discutere cosa fare con la casa quando lei non ci sarebbe stata più. Ma l’hanno mai fatto e in seguito Nevina si dispiacque di ciò. È convinta che la sua saggia madre avrebbe affrontato meglio la distribuzione della proprietà di quanto non avevano fatto successivamente lei e le sue sorelle. Mi sembra chiaro, però, che tutta la famiglia vuole che l’attuale generazione più giovane viva nella casa in futuro. Questo include anche la mia informatrice più giovane, la quale sente che «questa è la mia casa», e non esita ad esprimere legami altrettanto forti ad essa come fa la nonna. Finora non ha mai vissuto nella casa, ma dice che lei è più qui che a casa propria e qui conserva i suoi ricordi più importanti. Rifiuta il pensiero che la casa un giorno possa essere venduta. Al contrario, il suo sogno è quello di mantenere il piano inferiore esattamente com’è, perché quello è il piano che veramente conferisce alla casa il suo fascino, e vorrebbe trasformarlo un giorno in un museo vivente. Lei e i suoi cugini desidererebbero poi vivere insieme nella casa e aprire un laboratorio di prodotti artigianali e venderli al piano inferiore ai visitatori, mentre la vecchia generazione potrebbe essere osservata mentre svolge i propri compiti quotidiani. « Sarebbe qualcosa di ancora più bello del vicino museo di Grazia Deledda» [4], dice la ragazza.
La famiglia è anche consapevole del fatto che la loro casa è speciale non solo per loro, poiché in città non ci sono tante grandi vecchie abitazioni come la loro con un cortile tradizionale. Una delle nipoti di Nevina ha scritto una composizione a scuola sulla casa e ha portato qui i suoi compagni di classe per mostrarla. Altre classi scolastiche sono anche venute a visitare il cortile, i turisti scattano foto e in un paio di occasioni la famiglia l’ha prestata a mostre d’arte e di artigianato. «Sono tutti benvenuti», dicono i miei informatori.
Non esistono foto della casa prima della ricostruzione degli anni ’60; qualcosa di cui la famiglia si rammarica e non sanno neanche quando o da chi sia stata originariamente costruita, anche se credono che sia stato più di duecento anni fa. Su mia iniziativa assieme ad un membro della famiglia sono andata al locale Archivio di Stato per verificare se ci fosse qualche documentazione di interesse. Non ne abbiamo trovata. Ci sono altri archivi ufficiali nella città, che presumibilmente avrebbero potuto avere informazioni su questa casa, ma io non insistetti per visitarli. Inoltre, in possesso della famiglia vi è una vecchia valigia con documenti sulla casa. Tuttavia, poichè questi sono in lingua latina e spagnola [5] e la scrittura, inoltre, si è sbiadita, sembra che nessuno se ne preoccupi. Nel complesso, i miei informatori sembrano più interessati ai loro personali ricordi della casa e dei suoi abitanti che di qualsiasi archivio. La memoria è vita, è presente, mentre la storia è ricostruzione/rappresentazione di ciò che non è più (Nora 1989: 8-9) e per la famiglia la vita sembra certamente più importante della sua ricostruzione.
“Abbraccia tutta la mia vita”
Non ho mai dovuto convincere Nevina di parlarmi della casa e mi ricordo che durante il nostro primo colloquio ha detto ai suoi nipoti presenti di ascoltare, poichè voleva che sapessero anche loro. Non sa se è nata nella casa, ma con l’eccezione di un paio di anni dopo il matrimonio nel 1958, ha vissuto qui tutta la vita. Rispetto alle sorelle lei è quella che ha trascorso la maggior parte del tempo all’interno della casa insieme con la madre. Le altre ragazze si spostarono in altri luoghi nei pressi di Nuoro al loro matrimonio e/o furono formate per entrare nel mercato del lavoro. Poichè lei non è mai uscita per andare a lavorare, parlando della casa può dire con convinzione che abbraccia tutta la sua vita. Tra quelle pareti è cresciuta, ha celebrato il suo matrimonio (come hanno fatto tutte le sue sorelle), ha dato alla luce tre dei suoi figli, e qui li ha allevati tutti. Trasferirsi in un altro luogo è impensabile per lei che ama davvero parlare della casa, così piena di ricordi per lei.
«Ho sognato la vecchia casa anche la scorsa notte», disse un giorno quando andai a trovarla. In un’altra occasione mi ha confessato che sogna la casa quasi ogni notte e che per lei la sua casa significa la madre. Nei suoi sogni vede la casa come era prima della ricostruzione del 1960, i suoi mobili e i suoi abitanti. Quella stessa notte aveva sognato la stanza con una stufa di ferro che condivideva con una delle sorelle. Un’altra notte – ha riferito – aveva sognato un certo tavolo. Una delle sorelle che stava ascoltando disse che sapeva esattamente a quale tavolo Nevina si riferisse. Sognando la stanza della madre (sala computer di oggi) lei apre l’armadio e cerca gli scialli della madre, proprio come faceva da bambina. Possiede ancora questi scialli – uno di seta e un altro di velluto. A volte sogna la stanza che sembra aver amato di più, la sala al piano inferiore dove la famiglia una volta teneva il grano. C’era anche un divano, una credenza e, a partire dall’inizio del 1950, una piccola radio che le permetteva di ascoltare la musica. La morte improvvisa dell’unico fratello un decennio prima aveva fatto sì che per cinque anni Nevina e le sue sorelle indossassero il nero (la sorella più giovane aveva solo cinque anni quando il fratello morì e anche il suo cappottino fu tinto di nero) e le loro uscite furono molto limitate a parte l’andare a scuola; era come se la casa fosse stata coperta da un velo di lutto. Infine con la radio un po’ di felicità rientrò nella casa.
La vecchia casa aveva due piani e una mansarda dove venivano conservate frutta e verdura. Da bambina Nevina amava andare in soffitta a giocare, nascondersi (come quando una volta la madre aveva preparato un minestrone che non le piaceva) oppure fare capolino in mezzo alla strada e nella campagna. Da qui lei poteva anche sentire le figlie dei ricchi vicini suonare il pianoforte. Come avrebbe voluto un piano anche lei! Tuttavia, sarebbe stato troppo chiederlo, pertanto non aveva mai nemmeno pensato di domandare a sua madre di comprarne uno per lei. La sua casa di famiglia era «meravigliosa, non c’era casa migliore della mia» e, come le sue sorelle, Nevina oggi gode nel raccontarmi più in dettaglio della vecchia casa, della sua vecchia cucina, le scale, i pavimenti in legno, e le finestre che in seguito sarebbero state ricostruite e in parte rimosse. Le tre sorelle, tuttavia, non hanno sempre la stessa memoria visiva e, quindi, a volte iniziano a discutere come tutto sia stato davvero.
Nevina ricorda la casa come molto aperta e piena di vita, la gente andava e veniva continuamente. Gli amici dei suoi genitori come pure i suoi e quelli delle sorelle e del fratello erano tutti benvenuti. Nevina ricorda che i suoi amici venivano più spesso a casa sua di quanto lei non andasse da loro. Ancora oggi le amiche di Nevina fanno riferimento al modo gentile in cui venivano ricevuti. Si offrivano loro degli spuntini, qualcosa che Nevina non ricorda delle altre case, mentre stavano seduti intorno al camino a chiacchierare. È rimasta una casa aperta anche dopo la morte del fratello sebbene l’atmosfera fosse cambiata. Per anni non ci fu musica in casa e la madre che soffriva di forti mal di testa spesso doveva andare a letto. Nevina, avendo paura che la madre potesse essere morta, era solita sbirciare nella stanza per vedere se lei respirasse ancora.
A parte la famiglia, anche le cameriere vivevano nella casa e Nevina ricorda in particolare due di loro, una delle quali era la cugina di sua madre. Una rimase per trent’anni con la famiglia – divenne un membro effettivo della famiglia, dice Nevina. Inoltre, la casa non era solo un luogo per viverci, ma anche per la produzione. Mandorle, olive, ortaggi, frutta e grano venivano consegnati quotidianamente da persone che lavoravano per loro sulla loro terra. Anche il padre andava nei campi nel pomeriggio, dopo aver terminato i suoi doveri di insegnante. Nevina ricorda le piccole ciliegie dolci e dice che non ne ha mai più gustato buone come quelle. La prima volta che ho incontrato Nevina, ha cominciato spontaneamente a raccontarmi come facevano il pane sua madre e le sorelle più grandi, quando lei stessa era bambina. Confezionavano enormi quantità del tradizionale pane sardo sottile e croccante, chiamato carasau, perché potesse durare per mesi, nonché torte e biscotti.
Mentre ascolto mi colpisce che Nevina nel raccontare della casa per la maggior parte parli dei vecchi tempi, e in particolare di sua madre. Di rado parla della sua grande famiglia nucleare, della sua vita quotidiana come madre e moglie che ha significato prendersi cura dei figli e della gestione della casa compresa l’economia con i soldi che il marito portava a casa dal suo lavoro da dipendente. Dicendo questo Nevina mi spiega che in Sardegna il marito ha sempre consegnato il suo reddito alla moglie – «l’uomo non comandava».
Tuttavia, va da sé che Nevina era sempre felice di avere sette figli suoi. A volte avrebbe anche desiderato di averne di più; quando vedeva una donna incinta in strada, di solito la invidiava. «Anche se i bambini significano sempre problemi, la gioia è tanto più grande», dice. A causa della sua grande famiglia per molti anni ha avuto poco tempo da trascorrere con le sue amiche, cosa che ha poi iniziato di nuovo. Ricorda perciò come era solita ascoltare le amiche di sua madre che venivano in visita la domenica pomeriggio quando era solo una bambina.
Nevina dice che ha avuto una vita felice. Essere in buona salute e avere una famiglia significa che uno non manca di nulla. Se i suoi giorni una volta erano molto intensi, ora lo sono molto meno. Ora lei gode nel trascorrere un po’ del suo tempo a scrivere poesie e a dipingere, anche se ride quando racconta dei suoi scritti, dicendo che non sono nulla. Ma mi mostra alcuni dei suoi dipinti e quando una volta la famiglia aveva messo a disposizione il cortile per una mostra d’arte lei espose alcuni dei suoi piatti dipinti. Per tutta la vita le è anche piaciuta la lettura, non ultimi gli scrittori della Sardegna come Grazia Deledda, premio Nobel di cui ha letto tutto, e i politici di sinistra Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer.
Le sorelle di Nevina non parlano spontaneamente molto della casa, della madre e dei vecchi tempi come fa lei e una di loro ha detto che non sogna la casa. Ciò che le unisce molto nel ricordare i vecchi tempi, tuttavia, è la morte prematura del fratello, dopo la quale sembra che la loro madre non abbia mai pienamente recuperato. Quando il marito di Nevina ha cominciato a frequentare la casa, tanti anni più tardi l’ha trovata molto seria e la madre indossava ancora il lutto. Anche la successiva generazione ricorda la nonna come una donna molto severa sebbene molto affettuosa.
Nel complesso ogni generazione ha memoria di due generazioni indietro. Non di più e non di meno. La generazione di mezzo di oggi ricorda i nonni e racconta di loro. A seconda della loro età hanno ricordi più o meno distinti: la nonna in cucina e il nonno tornare a casa dai campi la sera. In comune a tutte e tre le generazioni è l’immagine del vivace andirivieni di persone, gli odori delle produzioni alimentari e i giochi in cortile.
In una delle mie prime visite sul campo ho scattato alcune foto della casa, fuori e dentro, dopo che mi era stato detto che purtroppo non ne avevano alcuna. Quando le consegnai alla mia successiva visita tutti sembrarono apprezzare le immagini, dicendo ad esempio che la casa sembrava più bella nelle mie istantanee che nella realtà. Una delle figlie di Nevina spontaneamente mi ha fatto notare quali pezzi di mobili e quali porte erano antiche e quali non lo erano. Come sempre mostravano vera conoscenza di ciò che è antico e ciò che non è, apprezzando le cose vissute più delle moderne poichè sono parti importanti della storia della casa.
Il pianoforte
Tornando nell’autunno del 2016 sapevo che non avrei incontrato Nevina. Con una e-mail una delle sue figlie mi aveva informato che la madre era morta. Per me Nevina era diventata molto più che informatrice dell’antropologa, era diventata una cara amica e non ero sicura dei miei sentimenti quando incontrai la sua famiglia e, non meno importante, quando entrai in casa senza trovare lei seduta davanti al camino. Che conforto tornare e scoprire che, nonostante il dolore, la famiglia mantiene la calda atmosfera della casa come prima! E anche se Nevina li ha fisicamente lasciati, e così aveva fatto il marito due anni prima, i suoi ricordi sono ancora lì come lo sono i ricordi di tutti i membri della famiglia deceduti prima di lei.
Ora i figli di Nevina vogliono tutti che la casa rimanga all’interno della famiglia e rimanga il punto d’incontro per la famiglia allargata e gli amici, come è sempre stata. Ma, proprio come la madre, Nevina non ha mai scritto alcuna volontà. E proprio come una volta mi ha detto che sarebbe stato meglio se la sua saggia madre avesse lasciato un testamento scritto, una delle sue figlie dice che lei e le sue sorelle e fratelli avrebbero tutti accettato qualsiasi cosa la madre scrivesse nella convinzione che lei sapeva che cosa sarebbe stato meglio. Invece ora spetta a loro prendere le decisioni necessarie, anche se non sembra esserci alcuna fretta nella convizione taciuta e condivisa che saranno in grado di concordare senza alcuna difficoltà.
Sono stata anche molto toccata nello scoprire che non molto tempo prima della scomparsa di Nevina il suo desiderio di bambina era finalmente diventato realtà. Ora c’è un pianoforte nel salotto che ricorda a tutti e a ciascuno della loro madre, nonna, sorella e amica.
Poscritto: Parlando con una delle figlie di Nevina su questo articolo ho chiesto il suo consiglio se usare un nome fittizio per Nuoro o no, poiché si tratta di una piccola città e potrebbe essere possibile riconoscere la famiglia leggendo questo testo. Sorridendo ha detto che si sentiva abbastanza sicura che sua madre, al contrario, avrebbe voluto che utilizzassi sia il suo nome che quello reale della città perchè lei era sempre così orgogliosa della sua amata città natale. Con le parole di Nevina: «Mamma, Casa, Nuoro».
(traduzione dall’inglese a cura di Giuseppa Ripa)
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Note
[1] Intendo il concetto di casa come un luogo che è stato creato dagli uomini e continuamente influenzato e cambiato da essi stessi, il che li rende parte della casa. Essa è intesa come un processo in corso che oggettiva la storia dei suoi abitanti e contribuisce alla loro identità. Così, la casa agisce allo stesso tempo come le storie raccontate su di essa e le memorie che le persone hanno di essa le conferiscono il suo significato sociale, culturale e storico (cfr Birdwell- Pheasant & Lawrence-Zúñiga 1999)
[2] Oggi il pendolarismo sarà spesso la soluzione quando questi modelli tradizionali di insediamento dovrebbero inserirsi nel moderno mercato del lavoro.
[3] Questo non è qualcosa di unico rispetto al resto d’Italia, ma è interessante notare che a Nuoro è in parallelo con una discussione comune su un presunto matriarcato. In nessuna altra parte del Sud Italia dove ho trascorso diversi anni, ho sentito informatori usare il termine matriarcato, anche se si sarebbero potuti riferire a donne molto forti che sono il fulcro delle loro famiglie. Tuttavia, il matriarcato in Sardegna non è da intendersi come noi antropologi intendiamo il concetto, cioè che le donne hanno anche il potere politico, ma come una situazione in cui esse hanno una influenza particolarmente forte sulla vita familiare inclusa l’economia della famiglia.
[4] Grazia Deledda (1871-1936) ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura nel 1926. È nata a Nuoro e la casa dei genitori è stata trasformata in un museo.
[5] Latino e spagnolo sono stati entrambi in momenti diversi nel corso della storia lingue ufficiali in Sardegna.
Riferimenti bibliografici
Birdwell-Pheasant, Donna and Denise Lawrence-Zúñiga (1999), HouseLife – Space, Place and Family in Europe. Oxford: Berg.
Carlestål, Eva (2005), La famiglia – The ideology of Sicilian Family Networks. DICA Dissertations in Cultural Anthropology, Uppsala University: Uppsala; trad. it. La famiglia. Un’indagine su una comunità di pesca in Sicilia, Istituto Euroarabo, Mazara del Vallo, 2012.
Glassie (2000), Vernacular Architecture, Bloomington: Indiana University Press.
Nora, Pierre (1989), Between Memory and History: Les Lieux Mémoire, in Representations, n.26: 7-24.
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Eva Carlestål, studiosa svedese, già collaboratrice negli anni settanta del sociologo Danilo Dolci, ha insegnato presso l’Università di Uppsala ed è attualmente Director of doctoral studies presso il Dipartimento di Language&Culture in Europe dell’Università di Linköping. Intrattiene assidui rapporti di collaborazione scientifica con istituzioni culturali italiane, partecipando a convegni di studi e conducendo ricerche in Sardegna, nel Lazio e in Sicilia. Ha pubbblicato nel 2005 a cura del Dipartimento di Antropologia culturale dell’Università di Uppsala il volume La famiglia. The ideology of sicilian family networks, edito in Italia nel 2012 a cura dell’Istituto Euroarabo con il titolo La famiglia. Un’indagine su una comunità di pesca in Sicilia.
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