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Questioni di scala: come affrontare la sostenibilità dal punto di vista umano

copertina-1di Linda Armano

Introduzione 

La capacità degli antropologi di sperimentare costantemente metodologie del lavoro etnografico, cercando contemporaneamente di preservarne la peculiare sensibilità nell’indagare la questione umana, è una prova tangibile della malleabilità e della resilienza di questo approccio alla ricerca. Tale metodo di apprendimento del mondo è particolarmente importante nell’analisi multi-scala della ricerca etnografica (Clark, Szerszynski 2020). Oggi, etnografi e ricercatori qualitativi interagiscono in un ambiente in cui il loro lavoro viene letto, citato e valutato anche da esperti di altre discipline come demografi, sociologi quantitativi, economisti ed esperti di management (Small 2009).

Gli antropologi si trovano così sempre più ad affrontare un incremento di richieste di casi di studio che non solo generano nuovi contributi teorici, ma che sviluppano anche studi basati su ricerche empiriche che altre discipline tendono ad analizzare in maniera più astratta. All’interno di queste indagini, molti antropologi hanno incrementato l’utilizzo di metodi misti, qualitativo-quantitativo, selezionando, nelle loro ricerche sul campo, piccoli gruppi di interlocutori per sviluppare progetti commissionati da enti pubblici o privati, ed identificando quartieri e perimetri “rappresentativi” per questi casi di studio etnografici, con l’obiettivo di rendere tali analisi generalizzabili. Questi aspetti, che vedono la pratica etnografica integrarsi con altri approcci metodologici e disciplinari, sono particolarmente evidenti nelle ricerche antropologiche all’interno di organizzazioni.

Numerosi sono ormai gli esempi di studio basati sull’uso dell’etnografia per fornire risultati utili per ricerche di mercato o per incrementare o affinare le politiche sociali. Milena Marchesi (2022), per esempio, esamina l’attuazione del welfare relazionale a Milano attraverso un focus sui nuovi professionisti del welfare che operano nei quartieri svantaggiati di Milano, sui metodi di lavoro finalizzato a stimolare la partecipazione e le energie relazionali tra genitori migranti e a basso reddito. Attraverso la lente del “pubblico intimo” introdotta dalla studiosa, Marchesi analizza come l’incitamento alla partecipazione alla vita pubblica promossa dalla municipalità riformula il privato come spazio di nuove forme di solidarietà e, allo stesso tempo, come potenziale ostacolo alla coesione e all’integrazione sociale. In secondo luogo, la studiosa analizza la natura organica e sostenibile della solidarietà basata sui cittadini e su come essi ridimensionano di fatto il lavoro affettivo necessario per produrla e sostenerla, soprattutto nei quartieri emarginati. 

Welfare relazionale a Milano. Ricerca di Milena Marchesi, 2022

Welfare relazionale a Milano. Ricerca di Milena Marchesi, 2022

Partendo da quest’ultimo punto analizzato da Marchesi, è bene sottolineare il corposo lavoro antropologico sviluppato negli ultimi anni anche sul tema della sostenibilità. A tal proposito, Brightman e Lewis (2017) hanno evidenziato le molteplici e contrastanti definizioni di sostenibilità nonostante la maggior parte di essi si riconoscano nella lunga tradizione euro-americana di gestione delle risorse naturali. È stato messo però in luce come l’antropologia riesca ad offrire una visione alternativa della sostenibilità, partendo dal riconoscimento che una sostenibilità basata sull’oggettivazione della natura è radicata nella stessa ontologia responsabile della crisi ecologica globale che investe la nuova epoca in cui viviamo, ossia l’Antropocene.

Altri studi si sono focalizzati sulle politiche incentrate su discorsi sulla sostenibilità e su quali soggetti, in particolare, esse cercano di sostenere. Alcune di queste analisi hanno dibattuto su come l’antropologia debba andare oltre la semplice argomentazione a favore della conservazione dei modi di vita indigeni per comprendere i cambiamenti sociali e ambientali interconnessi che tengano conto delle complesse temporalità e spazialità di corpi, agency e ambienti interdipendenti: da quello microbico a scala planetaria (Moore 2017). Molti antropologi ormai concordano sul fatto che, storicamente, il modello dominante di conservazione è una delle imposizioni di protezione della natura che proviene dall’alto, ossia da parte dei proprietari terrieri aristocratici, ereditate in seguito dalle agenzie statali e dalle organizzazioni non governative. Anche se gli ambientalisti parlano spesso di “conservazione della comunità”, prevalgono ancora approcci che seguono una logica top-down. William Adams (2017) identifica a tal proposito cinque dimensioni della conservazione contemporanea che segue una struttura top-down e che comprendono: un quadro globale, una dipendenza dalla scienza, un carattere aziendale, un impegno con il neoliberalismo e una dipendenza da sistemi di conoscenza gerarchici. Ciononostante, afferma lo studioso, non tutta la conservazione sostenibile della natura rientra in questo modello. Egli infatti discute sulla possibilità di una nuova conservazione dal basso capace di comprendere una serie di pratiche che emergono da impegni locali e quotidiani tra la natura umana e non umana, tra valori sociali condivisi e l’organizzazione politica. 

COMUNICARE LA SOSTENIBILITA'Analizzare la scalabilità della sostenibilità nelle etnografie con le organizzazioni 

Gli etnografi che lavorano con le organizzazioni riconoscono l’importanza della sostenibilità definita da Hunter come «Treating the world as though we plan to stay» (2020). Alcuni antropologi che lavorano a fianco di corporations con ambizioni di sostenibilità di vasta portata si trovano davanti alla sfida di come poter affrontare questo tema su scala globale pur rendendosi conto della difficoltà di adattarla alla complessità della pratica locale ed individuale. Pertanto, gli etnografi che lavorano nelle organizzazioni sostengono che per influenzare la sostenibilità su larga scala, le corporation dovrebbero attingere alle pratiche e alle convinzioni degli individui che collettivamente interpretano e danno forma a ciò che ritengono sostenibile (Bolognini Cobianchi 2022).

Questo articolo prende le mosse da alcune riflessioni maturate durante due progetti, in collaborazione con esperti di altre discipline, che sviluppai all’interno di un’azienda. Nello specifico, quest’ultima mi chiese di comprendere, in veste di antropologa, le diverse sfumature del concetto di sostenibilità e di come poterle comunicare nel modo migliore ai clienti aderendo il più possibile ai loro sistemi di valori. In particolare, in questo contributo, voglio concentrare l’attenzione soprattutto su uno dei due progetti, il quale si focalizza sull’intersezione tra sostenibilità, cibo e giovani. Nonostante le riflessioni che tale progetto solleva, non mi è possibile qui specificare né il nome dei clienti per cui è stato sviluppato, né i contesti specifici di ricerca, né il nome dell’azienda per cui ho lavorato la quale mi chiese esplicitamente di mantenere l’anonimato e di non fornire dettagli specifici sui lavori condotti. Malgrado tali aspetti siano indispensabili nella descrizione di una ricerca etnografica, prendo atto di tale richiesta al fine di tutelare la privacy dei soggetti coinvolti.

Il progetto interdisciplinare comportò, da parte mia, la conduzione di ricerche etnografiche in tre città italiane. Tali ricognizioni sul campo implicarono la condivisione di un determinato tempo con gli interlocutori, sia online che di persona. In particolare, la ricerca etnografica si basò su tour in mercati curati da alcuni team locali per sperimentare e comprendere in profondità come i giovani residenti in città acquistano e mangiano in modo sostenibile. Durante la mia la permanenza sul campo, ebbi anche la possibilità di parlare di sostenibilità con alcuni chef, con dei dipendenti di aziende di comunicazione, con specialisti di packaging e con attivisti che conducono sforzi significativi in ​​materia di sostenibilità all’interno di ONG e di organizzazioni globali. In ogni città furono coinvolti dai dieci ai quindici interlocutori. Una costante mantenuta in tutte le interviste fu quella di aver posto a ciascun partecipante tre domande relative alla sostenibilità, senza però menzionare esplicitamente la parola “sostenibilità”. Questo approccio consentì di ottenere spunti significativi soprattutto in relazione ad alcuni aspetti peculiari che si delinearono già durante la fase di campo e di cui intendo trattare in questo studio. In primo luogo, un tema emerso durante molte conversazioni riguardò la provocazione se la parola “sostenibilità” fosse essenzialmente priva di significato per molti dei soggetti intervistati. Tale questione sollevò l’inevitabile interrogativo se continuare ad usare il termine “sostenibilità” nonostante il fatto che per molte persone esso avesse poco significato. In secondo luogo fu evidente, durante le interviste, la discrepanza tra il modo in cui le organizzazioni parlano di sostenibilità e di come invece ne parlano il loro target di riferimento e, in generale, le persone nella loro quotidianità. La questione cruciale a tal proposito fu quindi comprendere cosa accadrebbe se riuscissimo a colmare tale divario. Infine, un altro tema interessante emerso durante i colloqui fu quello di “sopravvivenza” il quale sollevò l’interrogativo su cosa significasse, per le persone, parlare di sopravvivenza mentre parlano di sostenibilità. 

Tutti parliamo di sostenibilità come se fosse una cosa 

Qui di seguito intendo presentare alcune riflessioni che emersero dal caso di studio selezionato al fine di analizzare la distanza interpretativa del concetto di sostenibilità tra il punto di vista aziendale e la concezione diffusa tra le persone nella loro quotidianità. Riporto parte dei miei appunti di campo: 

«Sono seduta davanti al mio portatile e rifletto sulle interviste appena concluse ai clienti identificati dall’azienda per la quale sto sviluppando il progetto. Mi chiedo se le domande fatte sono state formulate correttamente. Penso al fatto di come le persone intervistate avessero accettato di condividere con me cosa ci fosse nel loro frigorifero e nella loro dispensa e di come provassi un piacere familiare nell’ascoltare queste persone raccontare ciò che avevano nella loro cucina. Rifletto anche su come, al termine della discussione, avessi notato un imbarazzo e a volte un lungo silenzio da parte di alcuni interlocutori dopo aver chiesto loro di concludere la conversazione mostrandomi l’articolo più sostenibile nel loro frigorifero o nella dispensa. Molti di loro facevano una pausa, per poi rispondere “Immagino questo” mentre afferravano, per esempio, una bottiglia d’acqua. Altre persone si dimostravano addirittura riluttanti a definire sostenibile qualche cibo o bevanda che avevano in casa. Questo aspetto inatteso ha reso però la ricerca etnografica più intrigante, soprattutto in considerazione del fatto che gli interlocutori erano stati reclutati dall’azienda che mi ha commissionato il lavoro la quale li identificò come persone che praticavano la sostenibilità (Novembre 2023). 

150952634xNonostante l’apparente banalità delle note riportate in riferimento a questo caso di studio, fu interessante costruire un’analisi sui vari modi in cui le persone intervistate concettualizzavano e sperimentavano la sostenibilità rispetto alle organizzazioni. Diversamente da questi partecipanti alla ricerca, i dipendenti di agenzie di comunicazione e di corporation parlavano spesso, durante i colloqui, di sostenibilità come se esistesse una sua comprensione tangibile e universalmente accettata e attuabile su larga scala attraverso la vendita e l’acquisto di prodotti e tramite politiche specifiche. Il discorso organizzativo incorporato (che si riflette in pratiche sostenibili, in agency creative per la sostenibilità, nel raggiungimento, per obiettivi, di una vera sostenibilità, ecc.) sembrava presupporre una comprensione condivisa tra i vari dipendenti. Questi ultimi esponevano una vasta gamma di piccole pratiche personali (riciclaggio, dieta a base vegetale, acquisti locali, diritti dei lavoratori) che consentivano loro di sentirsi come se stessero facendo qualcosa di “buono”. Essi sollevarono inoltre il problema del divario tra intenzione ed azione riguardo alla sostenibilità, ma non il fatto che la parola sostenibilità potesse essere compresa in maniera diversa dalle persone nella vita di tutti i giorni. Con tale consapevolezza, nelle interviste agli interlocutori selezionati, prestai particolare attenzione a come poteva essere gestito tale divario interpretativo ed argomentativo.

A differenza di come i dipendenti di aziende discutevano di sostenibilità, le persone intervistate nelle loro case sembravano non parlare in modo sereno e coerente di tale argomento, quasi avessero il timore di sbagliare. Molte di esse, al contrario, affermavano come la loro idea di sostenibilità poteva essere diversa rispetto ad un’altra persona o rispetto ad un’azienda. Alcune delle loro interpretazioni erano ancorate a preoccupazioni economiche (andamento dei loro affari oppure dei loro salari); a preoccupazioni sociali (in relazione alla famiglia o alla comunità); preoccupazioni ambientali (in riferimento al degrado dell’ambiente locale o al riscaldamento globale); oppure a qualsiasi elemento che si riferisse ai mezzi di produzione. I miei interlocutori faticavano anche ad esporre esempi tangibili di sostenibilità nel contesto della loro vita.

capture-e1680484279298Tale aspetto è stato riscontrato anche in altri studi. Per esempio, nel sondaggio annuale Better Futures Report di Colmar Brunton New Zealand (2019) incentrato sul comportamento dei consumatori nei confronti di marchi socialmente, ambientalmente ed economicamente responsabili, è emerso che sette intervistati su dieci non sono stati in grado di nominare un marchio leader nella sostenibilità. Tale studio ha evidenziato che, quando veniva chiesto alle persone di scegliere da un elenco le credenziali di sostenibilità, esse sembravano allinearsi alle comunicazioni complessive del marchio e della narrazione pubblicitaria. Questa mancanza di riconoscimento ha incentivato l’interrogativo se la parola sostenibilità potesse avere un valore e un significato diverso per vari target di persone rispetto al significato commerciale. Un altro rapporto di Nielsen (2018) è arrivato alle stesse conclusioni affermando che la sostenibilità ha avuto, negli ultimi anni, un valore crescente per i consumatori, nonostante questi ultimi non ne discutano o non la esperiscano come le aziende nella loro quotidianità. 

41m3mlwre1l-_ac_ul600_sr600600_La distanza interpretativa ed argomentativa tra dipendenti aziendali e le persone intervistate nelle loro case sollevò un’altra fondamentale domanda. Oltre a notare che questi ultimi faticavano nel parlare di questo argomento, arrivai a chiedermi: di cosa stiamo discutendo quando parliamo di sostenibilità? È possibile trattare la sostenibilità come un concetto-metafore? Moore (2004) afferma che l’utilità teorica delle metafore concettuali sta nel mantenere l’ambiguità ed una relazione tra affermazioni universali e contesti storici specifici e a fungere da meccanismo di comunicazione collettivo. Nel suo lavoro Moore cita il concetto di “scape” di Appadurai inteso come: «space for action and thought not only for anthropologists, but also for…families and individuals» (2004:79). Le parole di Moore fanno riflettere sul fatto che la sostenibilità possa essere intesa come uno spazio di pensiero per gli antropologi. Ciononostante, pochi studi dimostrano che la sostenibilità possa essere considerata tale anche per le persone nella loro quotidianità e quindi essere interpretata come un costrutto del tutto artificiale. La scarsa attenzione a tale questione, ha infatti prodotto lacune negli studi antropologici determinando erroneamente sovrapposizioni tra il concetto di sostenibilità e il campo e quindi sotto sviluppando analisi su come le persone potrebbero dare un senso allo spazio concettuale disegnato dalla sostenibilità. A tal proposito Hasbrouck e Scull, in Hook to Plate Social Entrepreneurship: An Ethnographic Approach to Drive Sustainable Change in the Global Fishing Industry, commentano l’uso del termine sostenibilità nel settore dei prodotti ittici: 

«The imprecision surrounding the definition of “sustainability” has been passed on to consumers, who are largely confused about what it is that “sustainability” means when it comes to fish. “Sustainability,” as a food label term, stands out in its ambiguity even among other ethical food choice labels, whose names are varyingly self-explanatory, such as “free-range,” “shade-grown,” “cruelty-free,” and “fair trade» (2014: 471). 

Mike Youngblood utilizza una definizione ripresa dalla sua introduzione alla Sustainability & Ethnography in Business Series, affermando che: «Sustainability is an approach to acting in the world in a way that consumes resources and produces waste at a rate that could be continued indefinitely» (2016: 1). Se ci soffermiamo su questa definizione, potremmo pertanto chiederci cosa accadrebbe se la sostenibilità, intesa come concetto, non si collegasse in modo sufficientemente appropriato al modo in cui le persone agiscono nel mondo in relazione ai loro consumi o ai loro rifiuti. L’indagine etnografica potrebbe quindi fornire, a tal proposito, importanti contributi teorici e metodologici. Nel suo capitolo “Design Ethnography, Public Policy, & Public Services: Rendering Collective Issues Doable & at Human Scale”, Kimbell sostiene che il valore delle pratiche etnografiche è: 

«Not that they are human-centred but rather they provide a way to understand socio-material assemblages involving complex political, financial, social, and technological systems at human scale…even given limited resources, the analytical orientation of ethnography is productive for asking different questions and provoking new thinking» (2014: 163). 

Ciò che l’etnografia può fare emergere è quindi come le persone, appartenenti a contesti socioculturali ed economico-politici diversi, parlano di sostenibilità. In questo modo, si potrebbe dare la possibilità ai partecipanti alla ricerca di contribuire a definire la sfida che le politiche si prefiggono partendo da concetti sostenibili che gli individui condividono, comprendono e sperimentano.   

10-sinek-s-2011-start-with-why-how-great-leaders-inspire-everyone-to-take-action-portfolio-penguin-londonParlare di piccole cose vs Parlare di grandi cose 

Oltre alle tre domande mantenute in tutte le interviste, lasciai che soprattutto le persone intervistate nelle loro case parlassero liberamente di sé, della loro vita quotidiana e di ciò che preferivano acquistare. In questo modo, riuscii a raccogliere più informazioni rispetto all’uso di domande maggiormente orientate a comprendere cosa fosse per loro la sostenibilità. Durante le conversazioni, molte persone mi spiegarono cosa le preoccupasse maggiormente nella loro vita. In queste occasioni il discorso si spostava spontaneamente anche verso preoccupazioni che riguardavano il pianeta, soprattutto in relazione all’inquinamento, facendo quasi confluire la narrazione sostenibile globale nei discorsi su piccola scala.

La stampa economica ha promosso gli scopi sostenibili come una risorsa chiave per le organizzazioni nell’ultimo decennio attingendo, in particolare, al libro di Sinek Start With Why: How Great Leaders Inspire Everyone to Take Action (2011). Questo uso della sostenibilità all’interno delle organizzazioni fornisce un contesto per una rinnovata attenzione ai grandi ideali articolati come “scopi”. Il boom degli investimenti ESG (ambientali, sociali e di governance), dove dal 2012 il totale delle attività negli investimenti sostenibili è più che raddoppiato, è stato spiegato dall’editore di Visual Capitalist, il quale afferma che: 

«With a wide range of global sustainability challenges and complex risks on the rise, investors are starting to re-evaluate traditional portfolio approaches. Today, many investors want their money to align with a higher purpose beyond profit» (Visual Capitalist, 2020). 

Agenzie di marketing e le PR inseriscono la sostenibilità nei loro report, nei loro imballaggi e nelle loro dichiarazioni sui prodotti nuovi e futuri sostenendo il discorso che molte delle attuali aziende non mirano solo ai profitti, ma intendono contribuire a rendere il mondo un posto migliore. La sostenibilità, in questo modo, si è trasformata in un business. Numerosi sono gli esempi. H&M promuove la sua Conscious Collection; Toyota persegue la creazione di una società sostenibile attraverso le sue attività di Corporate Social Responsibility; BrewDog si impegna a diventare l’azienda di bevande più sostenibile al mondo; Unilever è un’impresa il cui scopo è stato sin da subito rendere la vita sostenibile un luogo comune (Ryan, Wood 2020).

In questo studio però l’approccio aziendale alla sostenibilità contrastava con l’atteggiamento degli interlocutori intervistati nelle loro case. Una delle partecipanti alla ricerca riciclava, coltivava vermi e cuciva coperte all’interno di una piccola comunità. Lei non pensava a sé stessa come un esempio di persona che faceva qualcosa di buono e il motivo di tale considerazione risiedeva nella sua sensazione di non fare abbastanza: 

«In un certo senso, con l’allevamento di lombrichi, ovviamente, riducendo lo spreco di cibo e le cose che finiscono nella spazzatura, cerco di fare la mia parte. Riciclo i vestiti comprandoli in qualche negozio di beneficenza. Poi uso tessuti vecchi, ho un certo talento in queste cose e uso cose che mi sono state donate. Ma immagino che personalmente non sarei una portavoce della sostenibilità perché sono terribile» (Intervista a C.). 

Durante la nostra conversazione, C. parlò delle aziende del settore della moda in cui lavora. Mi spiegò come queste aziende discutano del loro impatto sull’ambiente, ma dal suo punto di vista non starebbero ancora facendo abbastanza soprattutto nelle attività di export di vestiti verso altri Paesi. La conversazione con C. può essere comparata con un altro colloquio avuto con A. la quale era combattuta sul fatto di continuare a mangiare carne. Ciononostante, A. mi spiegava come cercasse di seguire abitudini che lei definiva salutari, come portare il figlio a scuola a piedi, riciclare i vestiti ecc. A. confrontava inoltre i suoi comportamenti con i grandi obiettivi di molte aziende: 

«Non ho fatto grandi gesti. Come se fossi a conoscenza di tutta la carne e di quanta carne utilizza l’industria. Ma amo ancora la carne. Quindi questo non cambierà. Mio cugino e i miei amici sono vegani. Quindi abbiamo molte discussioni. … Proprio quando la vedo perché sai, cosa è peggio essere consapevole, sai, dell’industria della carne e tutta quella roba, essere consapevole degli effetti ma continuare a mangiare carne. O semplicemente, sai cosa intendo? Tipo, cosa è peggio? È peggio, ma ne sono consapevole, ma mangio ancora carne e faccio ancora questo. Ma è semplicemente delizioso. Questa è solo la mia scelta in questo momento» (Intervista ad A.). 

A. era inoltre consapevole di come il termine sostenibilità venga spesso utilizzato nelle dichiarazioni dalle aziende soprattutto per conformarsi agli obiettivi sostenibili delle Nazioni Unite piuttosto che sulla base di un reale ripensamento e rimodellamento del loro business. In un’altra intervista E., CEO aziendale, espose il suo ruolo nel team di comunicazione incaricato di promuovere la sostenibilità all’interno della sua organizzazione. E. così spiegò: 

«Penso che sia solo a causa delle tendenze… pubblicando poster su cosa puoi fare per essere più sostenibile… Siamo bravissimi in quello che facciamo, ma se mettessimo in pratica ciò che predichiamo non lo faremmo, probabilmente non faremmo “x”, “y” e “z”..» (Intervista ad E.). 

E. descriveva come la sua organizzazione pubblicasse informazioni sulla sostenibilità che venivano affisse nei luoghi di lavoro e nelle aree pubbliche come un esercizio di spunta. Con E. discutemmo anche di come, una volta diventato un esercizio di comunicazione, il concetto di sostenibilità non sembrasse più una cosa reale, ma si trasformasse in un concetto lontano dalla vita delle persone. Anche altri dipendenti aziendali notarono la differenza tra il modo in cui le organizzazioni parlano di sostenibilità e le reali azioni che fanno per combattere, per esempio, il cambiamento climatico. A loro volta, queste riflessioni contrastavano con le azioni messe invece in atto dalle persone intervistate nelle loro case le quali si sentivano autorizzate nel fare del loro meglio per rendere il loro mondo (locale) un po’ migliore. Ciononostante, queste ultime affermavano che i loro comportamenti fossero troppo piccoli per apportare un reale cambiamento. Alla base di tale affermazione c’era un loro senso di colpa per non riuscire a migliorare ulteriormente alcune loro abitudini. 

61xnnfdefsl-_ac_uf10001000_ql80_Abbracciare il piccolo e parlare di piccole cose quando si discute di sostenibilità 

Bronislaw Malinowski introdusse, nel suo saggio “The problem of meaning in primitive languages” (1923) il termine “phatic communion” per spiegare la comunicazione verbale o non verbale che ha una funzione sociale. Il riferimento a Malinowski è indispensabile in questo studio per riflettere su come le conversazioni che esulavano specificatamente dal tema della sostenibilità erano, durante le interviste soprattutto alle persone nelle loro case, un mezzo utilizzato per affrontare anche tematiche di portata globale.

Il suggerimento che, alla fine delle mie etnografie, diedi all’azienda che mi commissionò il progetto sull’analisi dell’interconnessione tra sostenibilità, cibo e giovani, fu quello di comunicare la sostenibilità partendo da dove si trovavano le persone, ossia dal piccolo e dal concreto. Ryan e Wood (2020) affermano infatti come il nostro cervello fatichi a sostenere la complessità su larga scala dato che gravitiamo naturalmente e quotidianamente sulla piccola scala. Grazie a questo studio, ho potuto far notare all’azienda come la sostenibilità si interponga tra noi e il nostro rapporto con l’ambiente all’interno di una sfera eminentemente locale. L’Oxford English Dictionary identifica il significato primario di sostenibilità attraverso il verbo “sostenere” ossia: «to keep in existence, maintain; spec. to cause to continue in a certain state for an extended period or without interruption». Tutti i partecipanti alla ricerca sapevano, malgrado non fossero in grado di articolarlo, che l’attuale modo di vivere non può continuare. Essi però sembravano interpretare il concetto di sopravvivenza con una forma obsoleta di sostenibilità che deriva concettualmente da “sostenere”, dal francese antico “sostenir”, che significa “reggere, soffrire, sopportare”.

Mentre le persone con cui parlai affermavano di adattarsi ai segnali di un futuro oscuro, esse stesse nutrivano qualche speranza nelle loro azioni, nonostante i sensi di colpa nel non riuscire a fare abbastanza. Questi loro atteggiamenti riguardavano cose intime relative alla loro vita personale che erano però considerate importanti a livello umano. Tra gli interlocutori intervistati a casa sembrava esserci inoltre una scelta nel non usare un vocabolario che aderisse a discorsi burocratici e astratti come invece preferivano usare i dipendenti aziendali. Ciò che quindi lo sguardo antropologico è riuscito ad apportare a questa inchiesta è stata la consapevolezza di come le persone a livello locale consentono di rielaborare le azioni sostenibili a livello globale partendo dalla concretezza di come esperiscono la sostenibilità nelle loro vite.

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Riferimenti bibliografici 
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Bolognini Cobianchi A. (2022). Comunicare la sostenibilità oltre il Greenwashing. Hoepli, Milano. 
Clark N., Szerszynski B. (2020) Planetary Social Thought: The Anthropocene Challenge to the Social Sciences. Cambridge, UK: Medford, MA. 
Colmar B. (2019). “Better Futures: Celebrating a decade of tracking New Zealanders’ attitudes & behaviours around sustainability”. Colmar Brunton website, https://static.colmarbrunton.co.nz/wp-content/uploads/2019/05/Colmar-Brunton-Better-Futures2019-MASTER-FINAL-REPORT.pdf 
Hasbrouck J., Scull C. (2014). Hook to Plate Social Entrepreneurship: An Ethnographic Approach to Driving Sustainable Change in the Global Fishing Industry. In Denny R., Sunderland P. (eds.) Handbook of Anthropology in Business. Walnut Creek, CA: Left Coast Press: 186-201. 
Hunter L. n.d. “Laura Hunter.” Intent website, 2020. Accessed [September 30, 2020] https://www.intentjournal.com/features/laura-hunter/ 
Marchesi M. (2022). The intimate public of relational welfare in Milan. Ethnography, 23(3): 358-381. 
Moore, H. L. (2004). Global anxieties: concept-metaphors and pre-theoretical commitments in anthropology. Anthropological Theory 4 (1): 71-88. 
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Ryan L., Wood L. (2020). Sustainability. Addressing Global Issues at a Human Scale. Epic Proceedings 2020. Ethnographic Praxis in Industry Conference: 300-321. 
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Youngblood M. (2016). Sustainability and Ethnography in Business: Identifying Opportunity in Troubled Times. Epic website, December 5. https://www.epicpeople.org/sustainability-ethnography/

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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali. Ha pubblicato recentemente la monografia Esplorare valore e comprendere i limiti, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 3, Cisu editore (2022).

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