di Giovanni Cordova
La minaccia sull’Esagono
Lo scorso 29 ottobre, intorno alle 9 del mattino, Brahim Aoussaoui, giovane tunisino recentemente giunto in Europa attraverso la rotta del Mediterraneo centrale e da poche ore sul suolo francese, si è avventato contro tre persone nella cattedrale di Notre-Dame a Nizza, uccidendole con un pugnale al grido di “Allah(u) Akbar”. Dodici giorni prima, l’insegnante di storia e geografia di un istituto scolastico di Conflans Saint-Honorine era stato decapitato da un diciottenne di origine cecena, dopo che il professore aveva mostrato alla classe, nei giorni precedenti, le note vignette satiriche di Charlie Hebdo sul profeta Maometto. Ma il mese di ottobre è stato anche il mese delle polemiche internazionali tra la Francia e diversi Paesi a maggioranza musulmana. Dal Bangladesh alla Giordania, dal Qatar alla Siria, passando per la Turchia, il Pakistan e l’Iran, appelli al boicottaggio dei prodotti francesi e invettive contro il capo di Stato francese sono stati rilanciati in mobilitazioni molto partecipate, convocate dopo che Emmanuel Macron aveva difeso il diritto a esporre e pubblicare le citate caricature ispirate a temi e personaggi della religione musulmana.
In seguito a questi episodi, compreso l’attentato compiuto a Vienna lo scorso 2 novembre da un simpatizzante dell’ISIS e a causa del quale hanno perso la vita quattro persone, Macron ha condannato il “separatismo islamico”, sintagma con cui il Presidente francese indica la crescente islamizzazione dei territori della République. Più in particolare, il concetto di “separatismo islamico” fa riferimento all’istituzione di una cesura nel territorio della nazione, una faglia giuridica, morale e politica che preserverebbe l’identità religiosa e culturale di parte della popolazione di fede musulmana, rendendola impermeabile alla giurisdizione normativa e morale dello Stato francese. In altri termini, la minaccia intravista da Macron prenderebbe forma nella ghettizzazione e nell’auto-segregazione di vicinati e comunità nelle quali l’Islam assurge a fonte di ispirazione valoriale e giuridica; insieme fede, complesso di istituzioni e regolamentazione sociale; allo stesso tempo sfera pubblica e disciplinamento di prototipi comportamentali ed emozionali, ovvero plasmazione delle soggettività [1].
Va specificato che la lotta francese al “separatismo islamico” si afferma nel dibattito pubblico mentre viene presentata in Parlamento la legge Darmanin-Schiappa [2], che si prefigge di combattere il radicalismo islamico con un rafforzamento della laicità dello Stato, deducibile da una maggiore neutralità negli apparati amministrativi; l’anticipazione della scuola dell’obbligo a partire dai tre anni, in modo da sfavorire il ricorso all’istruzione privata a domicilio, sovente impartita da figure sapienti come gli imam; l’individuazione di criteri più stringenti per l’autorizzazione alla costituzione di gruppi con finalità associative; la riforma dell’Islam “francese”; una maggiore presenza dello Stato nelle periferie. Quanto a quest’ultimo punto, il tempo permetterà di comprendere se il potenziamento degli apparati dello Stato “nei margini” s’indirizzerà nel solco della già consolidata tendenza alla sostituzione delle reti di sicurezza sociale con le retate della polizia, i tribunali e le carceri, secondo una dinamica di modellamento politico dell’esclusione sociale, razziale e di classe, che caratterizza i processi di marginalizzazione nella città post-fordista – tanto in Francia quanto sulla sponda opposta dell’Atlantico (Wacquant 2016).
Per quel che invece riguarda la definizione di un Islam “francese”, nulla di nuovo, in realtà, tenendo conto del fatto che a differenza che in Italia, dove solo negli ultimi anni il percorso di “integrazione” istituzionale dell’Islam ha portato a un timido riconoscimento di una configurazione nazionale della religione dei musulmani (Mancuso 2012), in Francia – e altrove in Europa – questo credo è ormai parte stabile di un paesaggio religioso pluralista e dinamico (e per questo anche conflittuale). La stabilizzazione dell’Islam in Europa e in Francia in particolare ha determinato, come puntualizza Stefano Allievi, il passaggio da una compresenza in un territorio comune di entità distinte e impermeabili (Islam ed Europa) a una diffusione massiccia della religione musulmana tramite l’apporto delle migrazioni transnazionali (l’Islam in Europa) che oggi si traduce in una transizione «verso una terza fase, un processo che potremmo chiamare di ‘endogenizzazione’: il passaggio dall’Islam in Europa all’Islam d’Europa; per avviarci – quarta fase – a quello che sarà semplicemente l’Islam europeo» (Allievi, 2015).
Tale congiuntura getta le basi per un intervento evidente dello Stato in materia di religione, specie in un Paese dalla tradizione filosofico-politico centralista come la Francia, che già da diversi anni concerta insieme a Stati da cui provengono ormai stabili flussi migratori, in primis il Marocco, politiche culturali inerenti alla formazione degli imam, la regolamentazione delle moschee e dei luoghi di culto, i caratteri dottrinali del credo religioso (Bruce 2018; Amselle 2018). Non appare anodino considerare come l’ormai assodato interventismo francese nell’emendazione della sfera pubblica da tratti confessionali visibili non possa essere associata a una reale separazione delle sfere della politica e della religione. In linea con quanto affermato dallo studioso tunisino Mohammed-Cherif Ferjani (2017), attribuire all’Islam carattere di eccezionalità nella sua – presunta – ambizione fusionale totalizzante tra “politico” e “religioso”, “pubblico” e “privato”, “temporale” e “spirituale”, equivale a rinunciare a cogliere i complessi processi di politicizzazione e depoliticizzazione cui le articolazione tra religione e architettura istituzionale del potere danno vita in ogni società (Carré 1993). A ben vedere, sia l’Islam che il cristianesimo hanno conosciuto nella loro lunga storia fasi di iniziale politicizzazione, successiva de-politicizzazione, e recente ri-politicizzazione – nel caso del cristianesimo, quest’ultima stagione si poggerebbe sulla base giuridica della separazione tra Chiesa e Stato.
Cercherò adesso di ragionare criticamente sul concetto di “separatismo islamico”, valutandone la pertinenza anche rispetto alle basi sociologiche e antropologiche della presenza musulmana in Europa.
La politica dell’Islam
Appare intanto necessario percorrere un terreno accidentato, quello dei rapporti tra religione e società, tenendo a mente che ogni religione, Islam compreso, consta di una struttura semiotica “aperta” (Campanini 2016, Fabietti 2001), suscettibile di ricezioni plurali, reinterpretazioni variabili, manipolazioni imprevedibili. Pertanto si rivelerebbe inutile, oltre che fuorviante, rintracciare un nucleo fondativo e archetipico in grado di rischiarare una presunta essenza del religioso nelle articolazioni di credo, prassi, istituzioni sociali. Riconoscere all’Islam statuto di “fatto sociale totale”, cioè di fatto sociale soggetto a codificazioni multiple in più segmenti della vita associata, non equivale ad asserirne una sovrapposizione totale e omogenea con Stato e società o, peggio ancora, una predisposizione culturale se non biogenetica alla ricezione del suo messaggio da parte delle popolazioni del dar al Islam.
Certo, il fondamentalismo moderno e contemporaneo postula l’unità di din wa dawla, religione e Stato. L’archetipo di questa costruzione isomorfica e adamantina, non a caso riferimento obbligato di ogni azione o mobilitazione fondamentalista da due secoli a questa parte, è data dalla consustanzialità di religione, potere e legge civile ricreatasi a Medina in seguito all’hijra, la migrazione del Profeta Maometto e dei suoi fedeli dall’ostile Mecca. Tale equilibrio si sarebbe mantenuto quanto meno durante la guida dei primi califfi, rashidun, termine approssimativamente traducibile con l’espressione di “ben guidati”, così differenziati dai successivi, la cui problematica assunzione del comando avrebbe prodotto, già dalla contesa attorno alla guida di Ali, cugino e genero del Profeta attorno al quale originerà la fazione sciita, fratture, discordia, ostilità in senso alla comunità dei credenti.
È bene ricordare che il mito delle origini permea tensioni e frizioni negli spazi politici e sociali attraversati dall’Islam, con densità e intensità variabili, anche ai nostri giorni. I gruppi radicali contemporanei propugnano tutt’oggi una certa separazione dalla jahiliyya, la società avvolta in una condizione di “ignoranza” come le popolazioni arabe prima della rivelazione offerta da Maometto. Ciò si traduce in posture e discipline del Sé che certificano allontanamento e distinzione dalla società egemonica, talvolta in modi visibili (codificati nell’abbigliamento e nell’estetica corporea); talaltra attraverso vie meno appariscenti ma pur sempre evidenti, nell’adozione (o nella dismissione) di particolari pratiche sociali o nell’incorporazione di regimi etici ispirati alla pietà personale (Mahmoud 2012). Negli anni Settanta dello scorso secolo, in Egitto, i membri della jama‘at al-Muslimin (la Società dei Musulmani) non soltanto si rifiutavano di pregare nelle moschee ufficiali, allestendone di proprie, ma compievano un distacco radicale dalla quotidianità, reiterando l’hijra del Profeta e trasferendosi sulle montagne dell’Alto Egitto, dedicandosi alla preghiera e all’ascesi.
Più recentemente, in una ricerca tra i giovani tunisini delle classi medie, molti dei quali recentemente convertiti a forme accentuate di religiosità informate del pensiero salafita, ho avuto modo di constatare come questo “ritiro” sia selettivo, limitandosi cioè a specifiche condotte percepite come inadatte al percorso spirituale improntato al disciplinamento etico ed estetico della soggettività (fumo, consumo di alcol, esecuzione di musica, ecc.), senza pregiudicare nettamente i rapporti con l’ambiente sociale “esterno”.
Spazi islamizzati possono riformulare in chiave religiosa le identità locali, tanto nelle “tradizionali” società musulmane quanto in Occidente. Gli esempi non mancano, e certificano – dall’Egitto al Pakistan, passando per la Nigeria – un fenomeno che consta della trasformazione di un territorio incorporato nei confini dello Stato in un’entità connessa a network religiosi transnazionali (Roy 2004).
Nelle città occidentali, la localizzazione spaziale di solidarietà e identità di matrice religiosa assume sovente la forma di una segregazione etnica, specie nei vicinati caratterizzati da minori dotazioni di capitale economico. Gruppi fondamentalisti si distaccano dalla moschea locale e ricreano un ambiente sociale retto da particolari costumi e misure. In Paesi come la Francia, questa scissura è stata storicamente messa in atto dal movimento transnazionale di origini asiatiche Tabligh, ma negli ultimi anni esempi di questa tendenza possono essere ravvisati pressoché in tutti i principali Stati europei caratterizzati da una presenza cospicua di popolazione di fede musulmana. Anche in Italia, le cronache relative a giovani (italiani o meno) fascinati dalle sirene dello Stato Islamico ci restituiscono pattern di sequenze biografiche molto simili: isolamento dalla comunità religiosa “ufficiale” – autoformazione dottrinale e spirituale – partenza per la Siria.
Eppure si commetterebbe un grosso errore ad attribuire a questa dinamica statuto maggioritario nel mondo musulmano. Nella storia dell’Islam e nell’elaborazione filosofico-politica preminente, soprattutto in area sunnita, è stata codificata e accettata una separazione de facto tra Stato e religione (Zubaida 2010), con quest’ultima che, ancora oggi, determina quasi esclusivamente la sfera giuridica del diritto familiare e personale.
Scrive Giorgio Vercellin che in terra di Islam, già dai primi secoli del califfato abbaside, «la distinzione tra la giurisdizione della shari‘a e le altre giurisdizioni risulta nei fatti qualcosa di assai simile alla distinzione odierna fra tribunali religiosi e tribunali civili». Per questo, non è errato sostenere che
«molto tempo prima del contatto con l’Europa moderna (dove una simile divisione si è imposta da pochissimi secoli), la comunità islamica aveva già attuato di fatto una separazione di poteri fra una magistratura religiosa – che in realtà si occupava di questioni personali […] – e una magistratura temporale che aveva competenza sul diritto penale e della proprietà, pur muovendosi sempre nell’ambito di norme islamiche» (Vercellin 2002: 282-283).
Inoltre, il significato dell’Islam nei campi politici moderni è assai vario. Diverse sono le modalità in cui idee e movimenti politici ad esso ispirati si articolano nel contesto degli Stati nazionali contemporanei. Oltre all’esperienza di movimenti e partiti populisti islamici,
«(l)a maggior parte degli Stati mediorientali […] aderisce all’Islam istituendolo in un modo o nell’altro quale religione di stato, pur garantendo a tutti pari cittadinanza a prescindere dalla religione praticata e promuovendo forme laiche di governo, di ordinamento giuridico e di istruzione (con alcune specifiche, segnatamente riguardo alla legislazione sullo statuto personale e ai relativi procedimenti). Si potrebbe sostenere che fino a tempi recenti queste normative siano state puramente simboliche» (Zubaida 2010: 197).
Territori e Islam globale
Punto ancor più importante, il concetto di “separatismo musulmano” stride con la configurazione deterritorializzata che oggi viene attribuita all’Islam globale. Olivier Roy (2017; 2002) ha tracciato un percorso di studi ancora attuale, a partire da quando, ormai quasi due decenni fa, esaminava il caleidoscopico aggregato determinato dalla disintegrazione dell’Islam politico e dall’occidentalizzazione dell’Islam seguente alla globalizzazione e ai flussi diasporici. Roy non si limita a constatare che le istituzioni giuridico-religiose dell’Islam europeo tendono sempre più ad assumere prospettive e valori occidentali man mano che si radicano nel contesto della sfera pubblica delle società di immigrazione, associandosi sovente alle componenti conservatrici del panorama politico anche se in contraddizione con le principali tradizioni discorsive islamiche. Ciò è evidente nel dibattito su temi etici quali l’aborto o il divorzio, che nel diritto musulmano classico è oggetto di un trattamento assai diverso da quello riservatogli dal codice del diritto canonico e, più in generale, dalla prospettiva culturale cattolica.
Lo studioso francese sottolinea soprattutto come le dinamiche di reislamizzazione o di reviviscenza religiosa non preludano necessariamente all’affermazione dell’Islam politico, conducendo piuttosto all’indebolimento di ogni legame che i (giovani) musulmani intessono con le forme religiose istituzionali. Vivere l’Islam in un contesto nel quale esso è minoranza religiosa e la cui connessione con le sfere della vita sociale è molto meno auto-evidente che nel Paese di origine (sempre più spesso, di origine dei genitori o dei nonni) non può non riflettere il rafforzamento dell’autonomia sociale di giovani generazioni musulmane che «assumono l’Islam nelle proprie mani e lo piegano secondo i loro obiettivi. Si tratta più dell’affermazione di una nascente società civile che di un ritorno a una politica olistica» (Roy 2004: 220 [traduzione mia]).
Dal punto di vista di forme e contenuti del religioso, questo passaggio segna l’affermazione di una religiosità che, sincretizzandosi con il “mercato religioso” contemporaneo e adottando l’enfasi new age sulla spiritualità che assegna statuto premiale al rapporto individuale e personale col sacro, privilegia – specie nelle espressioni più radicali – l’accentuazione della ritualità quotidiana a scapito della profondità della speculazione teologica. Da un punto di vista sociologico, invece, la transizione colta da Roy si riflette in espressioni cultuali non controllate dalle figure generalmente detentrici del monopolio esegetico. L’affiliazione entro i gruppi di matrice fondamentalista matura al di fuori di tradizioni o legami familiari; anzi, una confraternita soppianta spesso precedenti legami di solidarietà ormai indeboliti o in crisi, come rivelano le fratture in seno a famiglie migranti in cui i figli rimproverano ai genitori la dismissione di una corretta professione di fede, da cui può derivare il disconoscimento dell’autorità paterna e l’assunzione, da parte dei discendenti, di una missione soterica chiamata a redimere l’intera famiglia grazie al loro ritrovato rapporto con Dio.
La formattazione dell’Islam globale contemporaneo riguarda tanto le forme religiose generalmente rappresentate come popolari (è il caso del sufismo) quanto quelle espressioni radicali più recentemente al centro dell’attenzione per la loro impronta politica (è il caso del neo-salafismo); coinvolge inoltre l’Occidente quanto le società musulmane tradizionalmente identificate con il Dar al Islam.
In una recente intervista pubblicata sul portale francese di Middle East Eye [3], dopo aver riflettuto sulla natura suicidaria dei recenti attentati in Europa e sul loro intento di sconvolgere l’opinione pubblica più che di arrecare danno a obiettivi politicamente sensibili, Olivier Roy evidenzia come gli attacchi determinatisi dopo il 2015 non sono stati perseguiti da gruppi costituiti in reti organicamente collegate tra loro sul territorio in cui operano. Per intenderci, dietro l’attacco sanguinoso al Bataclan vi erano cellule in contatto con gruppi già attivi e strutturalmente parte della ramificazione europea di Al-Qaeda o Daesh. Negli anni successivi, questo networking sarebbe stato molto più sfumato o disarticolato. Il punto più importante considerato dallo studioso, tuttavia, consiste nel negare una radicalizzazione territoriale alla dinamica neo-fondamentalista o jihadista contemporanea. La formazione dei gruppi radicali non nasce da una socializzazione nelle moschee, per quanto esse possano essere guidate o meno da imam radicali. L’atto terroristico non è la logica conseguenza della radicalizzazione, e tanto meno viene registrata una incubazione salafita che prelude al passaggio all’azione, dal momento che il neo-fondamentalismo consta anche di posture quietiste e disinteressate all’agone politico contemporaneo.
Ciò non significa negare una codificazione simbolica che attinge al repertorio di immagini religiosamente orientate, come quella del martirio, ma ratificare un funzionamento della nebulosa terrorista certo difficile da dipanare, dal momento che l’affiliazione – il sentimento di un’appartenenza – a un’organizzazione come Daesh non coesiste necessariamente con un collegamento ai suoi apparati istituzionali. La stessa scelta di adoperare un’arma bianca e non un kalashnikov, dimostra al contempo l’incapacità dei “lupi solitari” di procurarsi agevolmente armi, testimoniando tuttavia un’adesione simbolica – per la verità, tutta da indagare – al registro sacrificale dello sgozzamento, per realizzare il quale l’attentatore assurge a operatore rituale che perpetua una sanzione religiosa.
L’attentatore di Nizza era da poche ore in Francia quando ha compiuto la sua azione terroristica. Difficile addebitarla all’effetto del sedicente “separatismo musulmano”. Bisognerebbe riconoscere l’aporia di determinismi di ogni sorta, così come di basi solide, irreversibili e lineari, nel delineare le tracce che conducono individui e gruppi all’azione, alla violenza, al sacrificio. Lo Stato Islamico, incubo geopolitico degli ultimi anni, evoca nel nostro senso comune l’immagine di una distopia retrograda, eppure le sue poetiche sono saldamente contestualizzate nella modernità e nella globalizzazione. Inoltre, il contesto in cui matura l’azione dei cosiddetti “lupi solitari” richiama più la cultura individualista globalizzata che non una tradizione discorsiva islamica. Basti pensare per un momento all’estetica che orienta la tremenda messa in scena delle esecuzioni di Daesh, in cui nulla è lasciato al caso; così come all’uso strumentale dei mezzi di comunicazione e dei social network, modalità che indicano un’evidente consapevolezza dei meccanismi che strutturano identità, consenso, paura e appartenenza nel mondo contemporaneo.
In fin dei conti, per quanto tentiamo di respingerlo fuori da noi o di racchiuderlo nell’intimità della torbida psiche di sanguinari giustizieri, il terrore parla dei fantasmi delle nostre vite e delle nostre comunità più di quanto siamo disposti ad ammettere.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Esula dagli obiettivi di questo breve scritto una riflessione sulla contraddizione tra la “sensibilità” del presidente francese in tema di Islam e diritti umani e il conferimento della Legion d’Onore al Presidente egiziano Al Sisi.
[2] La proposta di legge porta i nomi rispettivamente del ministro dell’Interno e del ministro delegato responsabile della cittadinanza: https://www.policymakermag.it/dal-mondo/lotta-in-francia-al-separatismo-islamico-di-macron/.
[3] L’intervista è consultabile al seguente link: Olivier Roy : « Les pouvoirs publics sont complètement à côté de la plaque. La radicalisation se fait ailleurs » | Middle East Eye édition française
Riferimenti bibliografici
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Giovanni Cordova, dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb. Per la sua ricerca di dottorato sta esaminando la dimensione politica ‘implicita’ nella vita quotidiana dei giovani tunisini delle classi sociali popolari nonché la commistione tra i linguaggi della religione e della politica. Prende parte alla didattica dei moduli di antropologia nei corsi di formazione rivolti a operatori sociali e personale della pubblica amministrazione in Calabria e Sicilia.
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