di Marianna Mazzetto
L’Afghanistan è stato definito da molti un Paese difficile, soprattutto per le donne. Nonostante gli accordi di pace firmati a Doha, Qatar, tra Stati Uniti e Talebani nel febbraio 2020 (primo passo verso una possibile attenuazione di un conflitto che ha visto l’Afghanistan come protagonista), il Paese rimane tra gli ultimi al mondo per la condizione femminile. Il tasso di analfabetismo del genere, nelle aree rurali, si attesta quasi al 90% (Gobbo, 2020); prima dell’arrivo dei Talebani le donne ricoprivano un ruolo essenziale nel sistema educativo a Kabul, ma nel 1997 il regime impose un ban educativo a tutte le donne che istituirono scuole private nelle proprie abitazioni. La risposta da parte del regime l’anno seguente fu un decreto secondo il quale l’istruzione era consentita ai minori di otto anni solo per lo studio coranico.
Sempre nel 1997 fu redatto un ulteriore editto che sanciva il divieto per le donne di lavorare in luoghi pubblici. Solo su pressioni delle Nazioni Unite il regime talebano acconsentì alle vedove il lavoro nel settore medico, limitatamente a coloro che non avevano altro modo di sostenersi. Nonostante ciò il numero di vedove istruite con un posto di lavoro era estremamente basso. Ne risentì anche l’istruzione maschile giacché la maggioranza delle insegnanti erano donne. Prima dell’arrivo dei talebani la presenza di donne nel mondo lavorativo era importante, come scrive Katha Pollitt infatti:
«Before the Taliban took power, women in Kabul were 40 percent of doctors, 70 percent of teachers and 50 percent of the civil service; there were many thousands of female university students. In fact, the Taliban represent a modern and extreme version of Islam that was historically unknown in Afghanistan» (Pollitt, 2000)
Con la caduta del regime nel 2001 l’istruzione ha ripreso piede nel Paese, ma la vera svolta la si ebbe nel 2004 quando l’Afghanistan aderì agli Obiettivi del Millennio delle Nazioni Unite promuovendo l’istruzione e l’eliminazione della disparità di genere nelle scuole primarie e secondarie secondarie (si veda WideAngle).
Nonostante la caduta del regime talebano nel 2001 l’autonomia e lo spazio di azione delle donne sono tuttavia confinati e tuttora limitati dalla plasmazione di un regime di genere. Mobilità e sessualità femminile restano di fatto recluse in una politica a predominanza maschile, l’onore della famiglia va rispettato e da qui nasce il divieto per gli uomini di guardare le donne (purdah) le quali devono indossare il velo. La politica e il ruolo dello Stato assumono un grande primato in tutto ciò e, ancor più, lo scontro tra i conservatori e i progressisti.
Il termine bacha-posh è in lingua Dari, lingua persiana dell’Afghanistan, e significa: dressed as a boy. Si tratta di una pratica culturale e sociale tramite cui le bambine si vestono e si atteggiano da maschi per far fronte alle difficoltà quotidiane. Non vi sono numerosi articoli o testi inerenti a questa tematica né tantomeno documentari, su YouTube è tuttavia visibile un breve film, intitolato She is my Son, interamente dedicato alle bacha-posh e il film afghano del 2003 Osama. Storie diverse di bambine, o giovani ragazze, che, per scelta o necessità, diventano ragazzi e come tali si comportano.
La bacha-posh nasce per far fronte all’inarrestabile rafforzamento della società patriarcale e per colmare la mancanza di figli maschi. La scelta spetta alla famiglia e solo le persone più fidate sanno la verità. La bambina è libera di uscire, socializzare, frequentare la scuola e, nel caso in cui la famiglia lo necessiti, di lavorare. Il libro più accreditato, e tra i pochi che si occupano di questo tema, è The Underground Girls of Kabul della giornalista svedese, con base a New York, Jenny Nordberg. Avere un figlio maschio è fonte di onore e orgoglio, la stessa Nordberg osserva infatti quanto segue: «Having a made-up son was better than none» (Nordberg in Corboz 2019: 3).
La povertà è, tra l’altro, il motivo principale per cui viene attuata questa pratica: nel film d’animazione del 2017, The Breadwinner, basato sui romanzi di Deborah Ellis, la protagonista Parvana decide di tagliarsi i capelli e fingersi un ragazzino dopo l’arresto del padre, accusato di favorire l’educazione occidentale durante l’ascesa del regime talebano. Seppur si tratti di un film d’animazione la pellicola offre uno spaccato ben dettagliato della vita quotidiana dell’Afghanistan durante il regime, sino all’inizio della guerra nell’ottobre del 2001. Parvana, che decide di essere chiamata Aatish, incontra Shauzia, Deliwar da ragazzino, e iniziano a lavorare assieme per racimolare un po’ di soldi. La giovane Parvana realizza sin da subito come essere un ragazzo abbia i suoi vantaggi: al mercato non incontra alcuna difficoltà nell’acquistare cibo e i mercanti risultano essere amichevoli. Come Parvana molte giovani, per guadagnare più soldi, sono disposte a sottoporsi a lavori pesanti non adatti a bambine.
Sulla medesima linea è il film Osama girato a Kabul nel 2003 i cui attori sono i veri cittadini. Il film è drammatico nella sua realtà e narra la storia di Maria, poi chiamata Osama. La madre della piccola Maria, rimasta senza marito e fratelli, perde il lavoro a causa della nuova legge. La nonna suggerisce quindi di tagliarle i capelli così da renderla un ragazzino. In un momento di disperazione la madre della giovane protagonista dice: «I wish I had a son instead of a daughter. He would help me with work. I wish God hadn’t created women!». La povertà e la mancanza di sussistenza non lasciano altra soluzione e Maria diventa una bacha-posh accompagnata dalle parole della nonna: «A shaved man under a burka looks like a woman. A woman with short hair, a hat, and pants looks like a man» La piccola Maria diventa ben presto Osama e inizia a lavorare per il lattaio locale, viene successivamente arruolata nel campo di addestramento talebano ma viene scoperta essere una ragazza e data in sposa al vecchio Mullah del paese. Il suo amico Espandi non può far nulla per salvarla.
Il film di Siddiq Barmak offre un ritratto reale della situazione femminile in una società patriarcale; in una scena Maria e sua madre vengono accompagnate a casa in bicicletta da un uomo il cui padre malato era governato appunto dalla madre di Maria. Lungo il tragitto vengono fermati da dei soldati che riprendono l’uomo per aver fatto salire la donna in bicicletta e successivamente minacciano quest’ultima per aver mostrato i piedi. La madre di Maria indossava dei sandali con i tacchi e li nascondeva alla vista della pattuglia sotto il burka.
Da comprendere sin dall’inizio è il motivo per cui questa pratica sociale è messa in atto e voluta dalla famiglia. Le donne non possono lasciare la loro abitazione se non sono accompagnate da un uomo, sia esso il marito, il fratello o un parente, mahram. La donna, nel momento in cui non riesce a dare alla luce eredi maschi, viene definita come doktar zai: colei che dà alla luce solo figlie femmine («she who only brings daughters»). Vi è una forte stigmatizzazione e l’onore dipende dal genere del nascituro; il padre di famiglia verrebbe additato come mada posht: «he whose woman will only deliver girls» (Nordberg 2014: 16).
Sul bacha-posh si potrebbe sin da subito stabilire se questa sia una pratica culturale o piuttosto la nascita di un terzo genere. Come scrive Hashimi infatti: «In Afghanistan there are girls, there are boys, and there are the bacha posh, a temporary third gender for girls who live as boys» (Hashimi, 2015 in Diksha, 2019: 210). Attraverso il docu-film She is my son si comprende la ragione per cui molte ragazze siano decise a mantenere l’identità di bacha-posh anche dopo la pubertà. Asiya, per esempio, ha assunto caratteristiche più mascoline: porta i capelli corti, non indossa il velo, si atteggia come un ragazzo ma, nonostante ciò, riconosce di essere una ragazza, soprattutto quando afferma di aver ricevuto dichiarazioni e apprezzamenti da parte di altre coetanee. Le bacha-posh confermano quindi il loro genere ma rifiutano la condizione in cui questo è inserito nella società, le privazioni, la segregazione e le regole cui è sottoposto. Le ragazze che acconsentono, o scelgono, questo cambiamento vengono considerate underground e invisibili.
Nel film, The Breadwinner, Deliwar si rivolge ad Aatish dicendo: «You’re not a boy, you’re not a girl. If you look like you believe it, then they will too». Si può quindi parlare di identità negata nel caso delle bacha-posh? Considerando i motivi per cui la pratica viene attuata, e il fatto che la scelta è mossa da un patriarcato ben radicato in ogni settore, la teoria può essere confermata. Le bacha-posh, coloro che scelgono di esserlo, sono ribelli e rigettano in ogni modo la credenza secondo cui la donna debba sposarsi e procreare.
Corboz, nel suo contributo, pone l’attenzione su due città: Kabul e Nangarhar. Nei due centri presi in considerazione per gli studi vi è subito una netta differenza etnica: nella città di Kabul le etnie sono miste e comprendono Tajiki, Pashtun e Hazara, a Nangarhar vi è una predominanza Pashtun. In quest’ultima le donne hanno meno mobilità in quanto la zona è più conservatrice rispetto Kabul (Azarbaijani-Moghaddam 2012 in Corboz 2019: 4).
Sulla base di queste considerazioni è evidente il potere che la società patriarcale ha all’interno del Paese, molti sono i dubbi e le domande sulla vera ragione per cui le ragazze siano introdotte al bacha-posh ma una risposta ben plausibile può essere, ancora una volta, trovata nelle parole di Asiya:
«In Afghanistan people don’t have the same rights. In other countries men and women are equal, but that’s not the case here. Maybe that’s why I became a bacha-posh. Women aren’t able to do what men are»
Gli effetti a breve e lungo termine della ri-conversione da bacha-posh a ragazza è sottovalutata dalle famiglie. La salute mentale, il trauma prodotto, vengono minimizzati dinanzi ai nuovi impegni che la ragazza deve portare a termine. La sfera comportamentale è ribaltata, la voce deve tornare ad essere femminile, la camminata aggraziata e il viso coperto dall’hijab. Il carattere ribelle deve essere domato ed istruito a provare vergogna per l’onore della famiglia. È difficile comprendere se le cicatrici e i traumi d’identità della bacha-posh siano compatibili con una disforia di genere o, piuttosto, alla sua non-conformità. Diane Ehrensaft scrive sulla non-conformità:
«To be gender nonconforming is to risk being killed, but on a daily basis it more likely means being harassed, confused and misunderstood in the community [...]» (Ehrensaft, 2011: 20).
Riportando alcuni casi di pestaggi e omicidi di ragazzi che manifestavano la volontà di esprimere la loro identità, Diane Ehrensaft pone l’attenzione non solo sul ruolo dei terapeuti che si occupano dei bambini, ma sulle molestie quotidiane cui le persone che manifestano una non-conformità di genere vanno incontro. Come già accennato si è parlato di third gender al fine di definire le bacha-posh transgender: le giovani che esprimono la volontà di “convertirsi” in bacha-posh sono considerate tomboy, maschiacci, ribelli. Sempre prendendo in considerazione la storia di Asiya, si nota come questa scelta non sia sempre condivisa ma, anzi, possa creare problemi. Per strada le bacha-posh più grandi, in piena età adolescenziale, possono essere bersagli facili per commenti poco gradevoli diretti a mettere in dubbio l’identità della giovane o a sottolineare la finzione di genere (“some call me a transvestite”).
L’American Psychiatric Association definisce così i due concetti:
«People with gender dysphoria may allow themselves to express their true selves and may openly want to be affirmed in their gender identity [...] Gender dysphoria is not the same as gender nonconformity, which refers to behaviors not matching the gender norms or stereotypes of the gender assigned at birth. Examples of gender nonconformity (also referred to as gender expansiveness or gender creativity) include girls behaving and dressing in ways more socially expected of boys or occasional cross-dressing in adult men»
Le ragazze si trovano quindi in una condizione di limbo che può essere paragonata al trishanku induista. Pabitra Bharali espone la questione del Trishanku Location ponendolo sul piano diasporico del termine, correlandolo al concetto di transnazionalità. Per affermare la sua tesi Bharali prende in considerazione due testi di Michael Ondaatje: Running in the Family e Anil’s Ghost, strettamente e parallelamente connessi alla diaspora tra lo Sri Lanka e l’Occidente. Se il primo è un romanzo di finzione che narra la storia coloniale tramite la ricostruzione del lignaggio famigliare, il secondo tratta il tema postcoloniale e della guerra civile nel Paese. Entrambe le opere hanno in comune la ricerca delle proprie radici a livello identitario e comunitario (Bharali, 2017: 263-264). Lo scrittore cingalese Michael Ondaajte sottolinea come la perdita di identità sia dovuta al rifiuto di un ruolo all’interno della società (ibidem).
Nel caso delle bacha-posh si può parlare di anima ed identità frammentata e di situazione liminale?
La pratica del bacha-posh può essere compresa nei termini diasporici del trishanku, in termini di fluidità e hybridization. Homi Bhaba definisce l’identità, e il suo costrutto essenziale, come un prodotto finito (Bhaba, 1994: 73 in Bharali, 2017: 263). Nei termini della diaspora Bhaba enfatizza l’identità ibrida ponendola in un contesto di spazi in-between che preludono a nuovi segni d’identità (Bhaba, 1994 in Bharali, 2017: 263). Le persone fanno parte di un processo politico:
«[…] “the people” are there as a process of political articulation and political negotiation across a whole range of contradictory social sites. “The people” always exist as a multiple form of identification, waiting to be created and constructed» (Rutheford, 1990: 220).
In attesa di essere creata e costruita, l’identità delle bacha-posh all’interno di un contesto politico viene idealizzata affinché possa assumere un ruolo indipendente. Nel libro Anil’s Ghost (2000) Ondaatje mostra come Anil si sia ribellata alla categorizzazione di genere adottando un nome maschile: «By blurring the lines between masculinity and femininity». Si tratta di una costruzione culturale che mira ad offuscare e mettere in crisi la tradizionale idea del genere stesso (Bharali, 2017: 266). Tale concetto è facilmente applicabile al caso delle bacha-posh e alla loro appartenenza ad un limbo nel momento in cui gli si chiede di abbandonare l’identità maschile.
Le bacha-posh esprimono una non-conformità di genere, elemento, quest’ultimo, connesso alla libertà. Una volta adolescenti le ragazze più riformiste assumono una maggior considerazione del loro ruolo all’interno della società e il motivo per cui non vogliono lasciare le vesti di bacha-posh è proprio perché la libertà, e la sua ideologia, permettono loro di identificarsi nella loro non-conformità. In Afghanistan non vi è alcuna legge che vieta il bacha-posh tant’è vero che nel Paese è comune la pratica del bacha-bazi: una forma di schiavitù sessuale perpetrata nei confronti di minori i quali vengono venduti a uomini ricchi per intrattenerli. Il bacha-dazi è illegale e contrario alla Sharia ma, purtroppo, raramente la legge viene applicata nei confronti di potenti e ricchi uomini.
In conclusione, il bacha-posh è un elemento caratterizzante della società afghana, sostenuto da motivi economici, socio-culturali ed identitari. La questione di genere è legata alla libertà, è una risposta alla società maschilista, una presa di posizione che si oppone ad una gerarchia patriarcale ed oppressiva. Bacha-posh si è o si diventa: molte giovani sono obbligate ad esserlo per motivi economici, si tratta di famiglie estremamente povere in cui la mancanza di un erede maschio è maggiormente sentita, d’altro canto molte ragazze esprimono il desiderio di essere bacha-posh, riconoscono sé stesse nella figura di tomboy consapevoli di poter così frequentare la scuola e, se possibile, evitare il matrimonio. Le ragazze bacha-posh sono considerate invisibili, costrette a nascondere e a rinunciare alla loro identità ma, in molti casi, si tratta di una riscoperta, una rivalutazione di sé volta a rafforzare il carattere e a lottare per eguali diritti in un Paese che è ancora troppo lontano dal riconoscerli.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association: https://www.psychiatry.org/patients-families/gender-dysphoria/what-is-gender-dysphoria
Azarbaijani-Moghaddam, S. 2012, A Study of Gender Equity through the National Solidarity Programme’s Community Development Councils: “If Anyone Listens I Have a Lot of Plans”, Kabul: Danish Committee for Aid to Afghan Refugees (DACAAR). https://landwise.resourceequity.org/records/1873
Bahaba, Homi K. 1994, The Location of Culture, London and New York: Routledge, 2010.
Corboz, Julienne & Gibbs, Andy & Jewkes, Rachel, (2019), Bacha-posh in Afghanistan: factors associated with raising a girl as a boy, in “Culture, Health & Sexuality”, 22, 1-14. 10.1080/13691058.2019.1616113.
Ehrensaft, D. 2011, Gender born, gender made: raising healthy gender-nonconforming children, New York: Experiment.
Gobbo R. 2020, L’Afghanistan non è un Paese per donne. https://www.osservatorioafghanistan.org/articoli-2020/2517-l-afghanistan-non-%C3%A8-un-paese-per-donne.html
Ondaatje, M. 1982, Running in the Family, London/Berlin/New York: Bloomsbury, 2009
Ondaatje, M. 2000, Anil’s Ghost, London: Vintage Books, 2011
Pollitt, K. 2000, Underground Against the Taliban: https://www.thenation.com/article/archive/underground-against-taliban/
Rutherford, J. 1990, The Third Space: Interview with Homi Bhaba-Identity, Community, Culture, Difference, London, Lawrence and Wishart: 207-221
https://www.pbs.org/wnet/wideangle/uncategorized/a-woman-among-warlords-womens-rights-in-the-taliban-and-post-taliban-eras/66/
Materiali multimediali
Osama, diretto da Siddiq Barmak. Prodotto in Afghanistan. Anno: 2003. Disponibile su YouTube al seguente link: https://youtu.be/mpFJJd3ZNPo
She is my Son. Afghanistan’s Bacha Posh. When girls become boys. Prodotto da RT Documentary. Anno: 2016. Disponibile su YouTube al seguente link: https://youtu.be/b1E9uWm9nJc
The Breadwinner. Diretto da Nora Twomey. Prodotto in Canada, Irlanda e Lussemburgo da Cartoon Saloon. Anno: 2017. Disponibile su Netflix US.
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Marianna Mazzetto, ricercatrice indipendente, laureata in Beni Culturali (Archeologia) e Antropologia Culturale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dopo la laurea ha trascorso più di un anno in Germania e attualmente si trova negli Stati Uniti. Si occupa di storia antica, di etnografia, di cartografia e di fotografia. Collabora come autrice con il blog di antropologia HomoLogos.
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