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Ragionando tra Soft Power e Hard Power. È falso credere che la guerra sia la prosecuzione della politica con altri mezzi

vonclausewitz_guerra_100421di Roberto Settembre                  

Non molto tempo fa Papa Francesco ha detto che la guerra di aggressione contro l’Ucraina scoppiata in Europa il 24 febbraio 2022 è stata l’effetto del continuo abbaiare dell’Occidente alle porte della Federazione Russa. Sconcertino o no queste parole pronunciate da un Capo di Stato posto al vertice della Chiesa Cattolica, è opportuno analizzarne il significato, poiché tale frase contiene due concetti, l’abbaiare e il muovere guerra, e un nesso di causalità che sembra richiamare un pensiero di Karl Von Clausewitz, quando duecento anni fa coniò uno slogan azzeccatissimo: la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi.

Invero due secoli fa un tale assunto comprimeva in poche parole quanto gli esseri umani avevano appreso sul campo e sui loro corpi nel corso dei millenni, tanto quanto l’aver attribuito all’ordalia il compito di risolvere una disputa giudiziaria assegnando alla divinità lo strumento risolutore dell’impasse, per cui la gente credeva che sbudellare l’avversario guidato dalla mano di Dio fosse il veicolo attraverso il quale il diritto, con altri mezzi, trionfava sul conflitto. Ma sostenere che spaccare la faccia al nostro contradditore durante una disputa sia la prosecuzione del confronto dialettico con altri mezzi è falso. Spaccare la faccia o la testa al nostro contradditore non significa proseguire il confronto delle idee o delle argomentazioni con altri mezzi, significa invece stroncarlo, cioè negarlo.

Parimenti la guerra e la politica, poiché concettualmente la politica, guidata da Polemos, la lotta, è la lotta regolata dalla legge all’interno delle comunità di appartenenza. Che poi questa lotta venga contaminata dalla violenza, significa mutarne la natura, e quanto più la violenza ne muta la natura, tanto più la politica diventa altro da sé, poiché la politica attiene agli scopi, e in essi vi si esaurisce concettualmente, mentre la violenza ha a che fare esclusivamente coi mezzi, essendo essa stessa un mezzo (Hanna Arendt, Sulla violenza, Guanda, 1996: 50,56).11

Ma se nel corso dei secoli questo assunto è stato interiorizzato e il diritto delle comunità, come strumento necessario del “ne cives ad arma ruant” ha attraversato i secoli fino a concretizzarsi in quello Costituzionale che organizza la modifica stessa delle comunità in modo pacifico (né si venga a dire che il colpo di Stato, l’uccisione degli avversari politici, il terrorismo stragista o mirato sia un modo alternativo di fare politica, lasciandolo invece a chi confonde la politica con la conquista violenta del potere, tanto quanto una banda di criminali o di mafiosi sanguinari è lontana da ogni concezione della politica) significa respingere la negazione del concetto stesso di politica.

In definitiva, uccidere l’avversario politico non significa fare politica con altri mezzi, ma uccidere la politica. Che poi le modalità del confronto politico siano cortesi o sgarbate, o attraversino trucchi, alleanze pelose, giochi sporchi, corruzioni e intimidazioni anche sul piano della sopravvivenza economica e/o civica, rientrano pur sempre nelle manifestazioni dell’agire umano, tutt’altro che etico, più o meno tollerabili o sanzionate dall’opinione pubblica nella sua azione sulla politica o dal potere coercitivo dello Stato. Ma si tratta di un agire politico in senso ampio, che si arresta di fronte a ciò che lo distrugge.

L’incapacità di capire questo dato di fatto non è frutto di miopia intellettiva, ma di cosciente adesione a una visione della conquista del potere incardinata sulle ideologie che fanno della brutalità dell’agire il mantra del concetto di azione politica, che riteniamo viceversa sia sic et simpliciter mera antipolitica. Sempre ammesso che la percezione della realtà abbia un senso nella costruzione del pensiero, e che tale senso lo tramuti in pensiero attivo e non in un pensiero pensato dall’ideologia. Infatti

«il pensiero ideologico diventa indipendente da ogni esperienza… emancipandosi così dalla realtà percepita coi cinque sensi, insiste su una realtà più vera che è nascosta dietro alle cose percettibili denominandole tutte… ordinando i fatti in un meccanismo… che parte da una premessa accettata in modo assiomatico, deducendone ogni altra cosa, procedendo con una coerenza che non esiste affatto nel regno della realtà» (Hanna Arendt, Le origini del totalitarismo, Ed. Comunità, 1996: 645).

9788824505284-itE si pensi, ad esempio, all’assunto per cui la percezione della Storia è la percezione del dominio dell’uomo sull’uomo, e si trasformi questo assunto nella premessa dell’indagine storiografica mossa da un presupposto unilaterale, e cioè dall’idea che ogni narrazione discendente da una ricerca, sia elusiva della complessità e riducibile a un solo aspetto: la storiografia come prodotto manicheo della mente del vincitore.

In verità è sempre necessario distinguere la Storia dalla storiografia, poiché la conoscenza della prima attiene alla percezione, alla raccolta, all’interpretazione delle fonti. La seconda ne costituisce l’esito, ed è su questo esito che deve fermarsi l’attenzione di chi desidera, nel caso che abbiamo fatto, liberarsi del pregiudizio del vincitore. Pregiudizio che affonda la sua ragion d’essere nello slogan di Von Clausewitz.

Vogliamo dire, riprendendo il discorso, e attraverso un parallelo metaforico, che, se il fine ultimo della medicina non è eliminare le malattie ma curare gli esseri umani aggrediti dalle malattie attraverso la difesa della vita del malato, anche durante una terribile pandemia, sterminare tutti gli esseri umani contaminati e pure quelli che lo sono potenzialmente, eliminando e incenerendo ogni essere vivente possibile portatore del male, sarebbe un rimedio, pur se efficace, contro la diffusione della malattia e forse anche contro la sostanza stessa della malattia, ma estraneo al concetto stesso di medicina. Per cui credere il contrario, credere fideisticamente che lo sterminio sia la prosecuzione dell’operato della medicina con altri mezzi, è solo il frutto di una concezione della medicina basata su una premessa estranea all’Idea stessa di medicina. Così ammazzare gli oppositori politici rispetto all’idea di politica.

Tuttavia, francamente, argomentare in questi termini crediamo sia inutile, essendo superfluo con chi ne è persuaso, e sterile con chi è convinto assertore che raggiungere i propri obiettivi politici anche attraverso l’uccisione del prossimo sia un modo di far politica, perché la guerra significa perseguire la morte dell’avversario. Viceversa la politica, nelle sue diverse declinazioni, significa agire in un tessuto di relazioni, e massimamente quella estera, che si concretizza nei provvedimenti di governo tesi a indirizzare e a regolamentare le relazioni di uno Stato con gli altri soggetti del diritto internazionale (così la definisce il Dizionario della lingua italiana Sabatini Coletti), non certo a distruggerli.

In verità, la lettura dell’agire politico che si vuol dimostrare estraneo all’assunto di Von Clausewitz, è il frutto del pensiero umano trasformatosi in azione nel corso dei secoli, e la sua interpretazione giuridica e filosofica ha condotto la società umana a erigere edifici sempre più sofisticati, che l’onestà intellettuale degli osservatori consente di distinguere da ciò che vi è contrario.

14Allora, tornando alla questione che ci occupa, possiamo dire che fino all’altro ieri, in termini di misura storiografici, nei rapporti fra gli Stati valeva lo slogan di Von Clausewitz tanto quanto valse l’assioma soprannaturale dell’ordalia per le popolazioni selvagge nel medioevo europeo.

Sul punto, e su quanto sia necessario procedere svincolati dalle premesse ideologiche, come tali non solo fasulle, ma sviatrici della comprensione e tali da renderne il soggetto permeato ulteriormente permeabile a inferenze sbagliate e pericolose (e vedremo più avanti di quali pericoli si sta parlando), è indispensabile affermare una sorta di dover essere dell’intelligenza. Vale a dire sulla necessità di «interrogarsi di nuovo e da capo sulla relazione tra vita e potere, sul rapporto tra realtà e finzione e sul problema della metamorfosi del male» (Simonetta Forti, Spettri della totalità, in “Micromega, Almanacco di filosofia”, 5/2003: 200).

Questo perché cedere al potere del pensiero ideologico in nome del presunto primato di una filosofia analitica della verità, significa non capire che oggi la filosofia si propone come un’ontologia dell’attualità, necessaria per verificare non la violenta materialità di concetti che le ideologie edificarono per dominare le menti, ma che ancora esistono come spettri della totalità (uno dei quali riteniamo sia lo slogan di Von Clausewitz, che, interiorizzato, spinge, attraverso la sua terribile semplificazione, a equivalenze e a condotte irragionevolmente orrifiche), quali, citando ancora Simonetta Forti, «lo spettro dell’Iper-umanità» (o spettro biopolitico); lo spettro della menzogna assoluta (o spettro della crisi del reale), e spettro della normalità del male (o spettro dell’irresponsabilità organizzata) (ibidem: 200).

Allora la necessità del dover essere dell’intelligenza, riteniamo debba affrontare il dilemma di quante volte l’Umanità è stata sul crinale e ha scelto, e quante volte questa scelta ha determinato il mondo in modo tale da far credere all’inevitabilità dell’accaduto! E quanti “se” sono stati pronunciati prima di fare quelle scelte che, a posteriori, si sono credute obbligate. Si pensi alla Sofistica che si oppose invano al Platonismo (per quanto di intrinsecamente ostile all’idea stessa di democrazia vi era connesso), all’imperatore Giuliano nella sua lotta al fanatismo integralista cristiano, alla decisione di edificare la dittatura brutale del bolscevismo, quando Lenin ordinò all’esercito di aprire il fuoco contro la folla che manifestava per chiedere l’Assemblea costituente.

Eppure è importante comprendere che ci sono voluti secoli di orrori prima di accedere a un pensiero diverso, e trasformare in diritto un’istanza di civiltà della ragione sull’idea dominante. Ne consegue quanto sia prezioso riflettere sul fatto che la ragione umana ha elaborato il Diritto Internazionale (del tutto disgiunto da quello interno) come regolatore dei conflitti. E sebbene si tratti di un evento recentissimo, relativo a come e a quanto ridurre la violenza tra i soggetti antagonisti. (Sul punto v. su “Dialoghi Mediterranei”, n. 67, maggio 2024, Roberto Settembre, Il Diritto internazionale fra Storia e nuova preistoria, ragioni per un giudizio), pur essendo consapevoli della sua limitata portata, vogliamo evidenziare la differenza ontologica tra azioni commesse attraverso l’esercizio del c.d. soft power, e l’esercizio del c.d. hard power, che sono l’uno il contrario dell’altro, così come l’uccisione dell’avversario politico è estranea al conflitto in politica.

Questo perché il lemma pontificio dell’abbaiare reca in sé un equivoco pericoloso. Infatti, se l’abbaiare di un cane – ma riteniamo che il lemma pontificio alludesse a una muta intera – rende plausibile la reazione mortale, allora le azioni di disturbo dell’Occidente nei confronti della Federazione Russa, coerenti con l’esercizio del soft power (che esamineremo nel dettaglio più avanti), sono assimilabili all’abbaiare minaccioso di una muta di cani, e la reazione rabbiosa e mortifera ne costituisce il pendant, per cui la guerra diventa il logico corollario della politica. Ma questo significa ulteriormente assoluta incomprensione del fenomeno. Si tratta tuttavia di un assunto non facile da interiorizzare, poiché la totale differenza di senso tra i due concetti attiene alla comprensione del senso attraverso la loro ragione storica e filosofica.

Quindi, sul piano strettamente storico, è necessario prendere in esame la successione delle vicende umane attraverso l’indagine della materialità epigrafica, archeologica, economica, storiografica e delle fonti di ogni natura e, altresì, sul piano filosofico, attraverso la ricerca delle cause e delle ragioni ideali degli eventi, così come esaminate e descritte nel farsi delle idee maturate al tempo dei contemporanei e nelle epoche ulteriori sul piano giuridico, filosofico, letterario, religioso, di costume. Cioè, richiamando quanto appena detto, si tratta di un’operazione percettiva della realtà a cui è estraneo il dominio del pensiero ideologico.

Pertanto restare ancorati a uno slogan valido per un tempo in cui il senso della conoscenza storico- filosofica degli eventi umani era diverso da ora, significa dimenticare che un paio di secoli (tanti ci separano dal Von Clausewitz) nell’era moderna non sono assimilabili a due secoli nelle epoche precedenti, sempre più perduti nello spazio dei millenni e degli imperi del passato. Ma significa soprattutto smettere di interrogarsi sul percorso che la ragione umana, il logos, ha fatto attraverso il XIX e il XX secolo, quando la ragione umana ha dovuto confrontarsi con eventi di tale immane devastazione, da dover cercare soluzioni alternative a quello slogan di duecento anni fa.

E questa è la ragione per cui il Diritto Internazionale bellico non si occupa dell’esercizio del soft power, ma del suo contrario, cioè dell’hard power. Dal che discende un corollario: il soft power non è il veicolo o la causa dell’hard power, nessun esercizio del soft power è causa del suo contrario, che lo nega, così come il fatto di un energumeno bendato e incatenato a un ceppo che con un colpo d’ascia apre il cranio, ammazzandolo, a un energumeno bendato e incatenato al medesimo ceppo con un’ascia in mano non ha niente e che vedere con la contesa giudiziaria, per quanto aspra sia.

Tuttavia il soft power è concetto elaborato da un politologo neoliberalista, tale professor Joseph Nye della Howard Kennedy School of Government negli anni 90 del secolo scorso, percorso del pensiero che segue lo sviluppo delle teorie liberali come ideali sociopolitici, frutto del pensiero filosofico occidentale, sorto nel Secolo dei lumi, cioè nel secolo che vede gli albori del capitalismo. Ed è pure il tempo nel quale nasce lo slogan di Von Clausewitz di cui ci stiamo occupando, come sintesi concettuale della crasi fra politica espansiva del capitalismo e le guerre ottocentesche e poi novecentesche, dove non c’è dubbio che la guerra sia la massima espressione dell’hard power.

Allora Capitalismo, liberalismo, slogan di Von Clausewitz, guerra, diventano facilmente diverse unità di misura con egual valore, talché viene affermata una serie di equivalenze, come Capitalismo=liberalismo=slogan di Von Clausewitz=guerra, dove le proprietà simmetrica e transitiva consentono di sostituire a piacimento la posizione delle singole unità di misura l’una con l’altra.

124Peccato che questa semplificazione incontri un limite nei dati di realtà. Nel secolo dei lumi il Capitalismo è ancora ben lontano dal suo trionfo, mentre l’elaborazione dei principi liberali tocca vertici impensabili in epoche precedenti (si pensi alla teoria kantiana della pace perpetua o all’opera di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene del 1764), ma non solo, e non è questo il luogo per parlare dei pensatori illuministi francesi, inglesi e americani, tuttavia il rapporto tra liberalismo e capitalismo non è automatico, né riteniamo che sia corretto attribuire all’uno la paternità dell’altro, e i due concetti e le loro implicazioni non hanno pari valore, come viceversa significherebbe credendo alle equivalenze di cui sopra. È quindi necessario esaminare come i due fenomeni si pongano l’uno rispetto all’altro, e da ciò possono trarsi alcune considerazioni ulteriori.

Infatti, e certamente, il liberalismo, il cd. neoliberismo e il soft power stanno in relazione concettuale con il Capitalismo e non si elidono a vicenda (almeno nel mondo occidentale), sebbene non si equivalgano sia per valore sia per significato. E non solo, poiché il neoliberismo, pur avendo preso a prestito una serie di concetti del liberalismo, li ha piegati alle esigenze del Capitalismo, sostituendosi al liberalismo ed entrando nell’equazione (che vedremo essere sbagliata) Capitalismo=neoliberismo=soft power.

D’altronde non è un mistero che il liberalismo classico, la sua teoria marginalistica pura si rivelarono inefficaci a garantire il trionfo del Capitalismo, come dimostrato dalla grande depressione iniziata nel 1875 e conclusa nel 1895, e poi, quella mondiale della fine degli anni venti del ‘900, da cui uscì attraverso radicali modificazioni del suo funzionamento (si pensi a Maynard Keynes e a F.D. Roosevelt, ad esempio, da un lato, e al nazifascismo dall’altro, mentre il sistema sovietico adottava un Capitalismo di Stato alternativo a quello occidentale), e attraverso l’economia di guerra. Il che ha spinto molti a formulare l’ulteriore equazione di Capitalismo=neoliberismo=hard power, e quindi a equiparare l’hard power al soft power. Ma l’hard power ne è l’esatto contrario, sebbene gli epigoni che vedono nel Capitalismo la fonte di tutti i mali, vedono tale fonte anche nel liberalismo che nasce quasi coevo al capitalismo, e quindi, mutatis mutandis, vedono questa fonte anche nel soft power.

Ne conseguono, quindi, le ulteriori equivalenze: soft power=hard power=slogan di Von Clausewitz=guerra. È un non senso, come vedremo, ma gli epigoni di quel pensiero non se ne danno conto, poiché, come ogni credente nella sua ideologia, mostrano cecità di fronte alla complessità del reale che può essere indagato in modo fruttuoso solo per mezzo del sincretismo ermeneutico. Riteniamo cioè necessario ricercare il senso di quell’equivalenza attraverso un esame comparativo dei concetti usati, quanto al loro valore e al loro riscontro come percorso intellettivo per il giudizio, e non, viceversa, partendo dall’assunto che quell’equivalenza è vera perché… è vera. Rifiutiamo quindi di ragionare così perché si appartiene a una fede, poiché la ragione e la fede appartengono a territori diversi della mente.

Ma, tornando alla questione iniziale, per cui affermare che il soft power sia equivalente all’hard power, a causa dell’equivalenza sopraddetta, rende necessario prendere in esame l’uno e l’altro per evidenziarne le differenze ontologiche, e poi, e solo poi, esaminarne le ragioni per cui i due concetti sono antitetici e nemmeno complementari, poiché l’uno nega l’altro come suo contrario.

Certo, riprendendo lo slogan di Von Clausewitz, io ben posso decidere di ammazzare il mio avversario politico (nella specie lo Stato mio vicino, tanto per citare Carl Schmitt) per ragioni politiche, ma affermare che questa uccisione sia un mezzo della politica è falso, poiché significa confondere i mezzi coi fini. Infatti, come si è detto, la politica è un mezzo per conseguire un fine, ma si tratta di un mezzo che determina il carattere del suo fine, che è politico, e attiene cioè alla relazione umana. Ma sostenere che esiste una forma di relazione umana tra un soggetto vivo e uno ammazzato è, nella migliore delle interpretazioni, una perversione ipocrita, tanto quanto sostenere che il medico alle prese con un paziente affetto da una grave malattia infettiva, se si toglie il camice, afferra un lanciafiamme e incenerisce il malato stia continuando a fare il medico.

Con questo vogliamo dire che il Capitalismo ha certamente usato il liberalismo come mezzo per affermare la sua egemonia culturale, ma come ogni egemonia culturale, il suo percorso, per quanto non estraneo a quello dell’eventuale violenza bellica, è soprattutto seduttivo, e come ogni seduzione attiva emozioni positive, coinvolgenti, includenti, ammiccanti, lontane dalla brutalità dell’hard power.

Ebbene, se esaminiamo con attenzione in cosa consistono i punti di forza intellettuali del liberalismo, ne cogliamo una serie molto estesa, non sempre coincidente, atteso che il liberalismo non è concetto monolitico, ma ha bisogno, per essere definito, di aggettivi, come “Classico”, “Sociale”, “Economico”, “Libertario”, “Socialista” e altri, ma all’interno di questo concetto si trovano idee di equità, di giustizia, di tolleranza, di inclusività, di pluralità, di uguaglianza, di solidarietà, di intraprendenza, di libertà positiva e di libertà negativa. L’hard power ne è l’esatto opposto, recando in sé idee di violenza, di sopraffazione, di conquista, di forza, di distruzione, di morte.

Ora, senza dubbio, il Capitalismo ha spesso tradito le idee contenute nel liberalismo, accedendo a quelle dell’hard power, quando si è accorto che il liberalismo non era congruo ai suoi progetti. Ma in questo caso ha negato valore al liberalismo, togliendogli il compito di sua ancella, e in questo modo è uscito dall’equazione.

Ma il liberalismo, quando il Capitalismo ha smesso di ricorrere all’hard power, ha distillato il neoliberismo e ha partorito l’idea del soft power, il cui progetto di persuadere, convincere, attrarre, cooptare le menti attraverso la cultura, i valori normativi e fattuali, e le istituzioni della politica attraverso un complesso meccanismo di interdipendenze (utile ai progetti di produzione, commercio e infiltrazione mercantile, di investimenti di capitale e profitti) ha sedotto gli esseri umani del pianeta, ma è l’esatto contrario del procedere alla conquista attraverso il potere duro e coercitivo delle armi.

9788861595859_0_536_0_75Ne consegue che quando l’Occidente capitalista ha proseguito nella conquista dell’egemonia culturale, lo ha fatto su diversi binari paralleli: il liberalismo, il neo liberismo, il soft power e talvolta ricorrendo all’hard power quando ha creduto di esportare la democrazia con mezzi diversi, fino all’uso delle armi, sconfiggendone i nemici sul campo di battaglia, ma lo ha fatto negando gli altri binari.

Su un altro piano, che reca tuttavia molti punti di convergenza, si muove la polemica anti-illuminista di Horkheimer e Adorno, quando viene contestato il primato della ragione che non può dire più nulla dopo Auschwitz, «senza forse comprendere che la tragedia deriva dall’oblio dei suoi principi, dalle sue posteriori mitizzazioni e non dalla sua forza contraddittoria che tiene in vita la dialogicità e la criticità del pensiero» (Elio Franzini, Elogio dell’Illuminismo, Bruno Mondadori, 2009: 2, 90).

Ma questo significa che estendere quell’equivalenza fino a includervi il soft power per connetterlo con lo slogan di Von Clausewitz, significa approdare a una semplificazione ideologica nemica di un’analisi più approfondita e tale per cui allo stesso soft power, proprio a causa di quell’equivalenza sbagliata, viene attribuita una valenza analoga a quella dell’hard power. Il corollario allora è che all’azione del soft power possa legittimamente reagirsi con l’azione dell’hard power (Sparare ai cani che abbaiano) che quasi sempre è stato speculare a un soft power antagonista, mentre il senso logico (e la corretta interpretazione degli eventi) vuole che l’hard power sia la reazione a un hard power antagonista, talvolta camuffato da soft.

la-disinformazione-nella-politica-estera-395195Ciò detto, va approfondito l’esame del soft power come prodotto della cultura liberale, i cui riflessi ne determinano azioni di natura poliedrica, che hanno influito nei Paesi di diversa cultura tanto da indurli a forme analoghe di soft power, che, a sua volta, si sono riverberate nel mondo liberale in modo differente da come quelle del mondo liberale hanno agito in quello.

Questo poiché è necessario partire dalla premessa circa la natura del tessuto culturale dei sistemi liberali improntati, fra gli altri, ai principi della tolleranza, delle plurisoggettività, dell’inclusività, della libertà di opinione, di aggregazione, di manifestazione e di stampa, avendo ben chiaro, però, che nessuno di questi principi è sinonimo degli altri.

Il che rileva nel nostro discorso. Infatti l’inclusività e la plurisoggettività consentono a individui e gruppi eterogenei non solo di entrare e di far parte della società liberale, ma, attraverso il rispetto e l’operatività dei principi di libertà e di tolleranza, di incidere sul suo funzionamento. Ma questo significa anche l’apertura verso modifiche sostanziali dell’opinione pubblica, che agisce sul terreno del cd “flusso di influenza”, cioè influenzando la formulazione delle politiche, i cui decisori devono tener conto di una moltitudine di indicazioni, interessi e preferenze, e del cd “flusso di opinioni” che vede «l’importanza delle opinioni dei cittadini nel monitorare e vigilare la condotta della politica da parte dell’esecutivo» (S. Giusti, La disinformazione in politica estera, Ed. vita e pensiero, 2023: 59-60).

screenshot-2024-02-29-alle-15-43-54E come tutto ciò inneschi meccanismi pericolosi si desume dal fatto che non necessariamente questi gruppi e queste persone abbiano accolto nella loro visione politica gli stessi principi e i medesimi valori che hanno consentito loro di assumere posizioni influenti. Si pensi ad esempio al modo e alle conseguenze che il crescere dell’ideologia Woke si è imposto e si sta imponendo nel mondo occidentale con le sue sfumature nella cancel culture, nell’intolleranza verso persone e idee ritenute antagoniste, nella ricerca di dominio su molteplici palcoscenici della cultura occidentale, dallo spettacolo, alla libertà di insegnamento, al movimentismo nella prospettiva della politica estera (Francesco Erario, Woke. La nascita di una nuova ideologia, ed Idrovolante, 2022).

Allora si noti come questa eclatante declinazione della cultura aperta, nel suo esprimere forme paradossali di cultura chiusa, sia uno degli obiettivi verso i quali vengono lanciati gli strali attraverso l’analogo e speculare soft power dei Paesi c.d. illiberali. Ma non solo, poiché il tessuto culturale delle società liberali è vulnerabile alla disinformazione, sia sul piano interno (che non è quanto ci occupa in questa sede) sia su quello esterno, ecco che lo stesso soft power diventa permeabile alle aporie della cultura liberal democratica (Jacques Derrida, Stati canaglia, ed. Cortina, 2003: 67,69).

stati-canaglia-355Detto questo, è opportuno esaminare in che modo il soft power (cioè l’abbaiare dell’Occidente secondo le parole del Pontefice) agisce sulle persone esterne al mondo che l’ha prodotto e lo usa per diffondere il suo progetto socio politico. Si tratta cioè di un complesso di informazioni sui criteri di organizzazione sociale che determinerebbero in primis una modifica dell’organizzazione sociale (e/o politica), in cui i destinatari del messaggio sono immersi; e, in secondo luogo, di una serie di informazioni sulle conseguenze di questa modifica.

Ora, essendo il mondo liberale il principale artefice di questa trasmissione del pensiero, ne discende che i destinatari, mentre raccolgono l’informazione, non hanno alcuna evidenza delle conseguenze del suo uso nel mondo in cui si trovano ad agire, ricavandone conoscenza dalla mera osservazione (peraltro parziale) del mondo da cui provengono tali informazioni.

A questo punto entra in gioco la condivisione delle informazioni, che si scontra con le credenze sulla base delle quali esiste il mondo di appartenenza. Ora, queste credenze discendono da due fattori: le informazioni descrittive delle ragioni e delle modalità di funzionamento del mondo di appartenenza, e le evidenze concrete, palpabili, degli effetti del funzionamento di queste credenze. Così i soggetti che condividono le informazioni provenienti dal mondo esterno, sia sul piano teorico, sia su quello fattuale, si divideranno tra chi le accoglie, mettendole a confronto con le conoscenze teoriche e fattuali del mondo in cui si trova, e operando quindi sul terreno dove le nuove credenze possono sostituire le vecchie, determinando un effetto a catena sull’azione politica finalizzata alla trasformazione del mondo di appartenenza, oppure una reazione di tipo teorico che le respinge, e che, parimenti, mira a essere condivisa.

Ma è a partire da questo momento che l’azione politica del potere minacciato da quelle informazioni diventa, da teorica, pragmatica. Per queste ragioni gli Stati hanno elaborato una scienza che analizza gli effetti delle informazioni attive, cioè capaci di produrre modifiche delle credenze, pervenendo a costruire sofisticati modelli sul funzionamento della rete comunicativa (Cailin O’Connor e James Owen Weatherall, L’era della disinformazione, ed. Franco Angeli, 2019: 75-85), che apre la strada a una conoscenza complessa del mondo, ma, altresì, alla propagazione delle false credenze.

L'ERA DELLA DISINFORMAZIONEÈ in questo tipo di propagazione che consiste l’azione pragmatica del potere che resiste alla penetrazione del soft power e che agisce, per converso, svolgendo un’analoga opera nel Paese dal quale proviene l’attacco del soft power. Allora entrano in gioco le attività razionali della conoscenza, e quelle fideistiche, e trattandosi di letture del mondo e del suo funzionamento alternative (scambio di latrati?) il punto focale attiene alla scelta, dove molto dipende dalla configurazione di ogni tipo di rete composta da gruppi di soggetti che scelgono l’una o l’altra ipotesi sulla struttura socio politica di appartenenza, e la comunicano agli altri membri del gruppo (I sistemi liberali lo consentono in forza dei principi che ne informano la natura, gli altri li reprimono in vari modi).

Ne consegue che l’attribuzione di valore condivisibile a una credenza o a un’altra, dipende dal grado di fiducia che il singolo membro gode all’interno del gruppo, e questo quantum di fiducia dipende da due fattori: la concreta credibilità delle informazioni fattuali e la loro coerenza con gli aspetti teorici, cioè normativi di queste informazioni, da un lato, e il carisma del soggetto che le diffonde dall’altro, dove il concetto di «norma rimanda a ciò che deve o dovrebbe essere e appartiene al mondo dei valori» (M. Dorato, Disinformazione scientifica e democrazia, Ed. Cortina, 2029: 19788832851168_0_536_0_759).

Ma questo carisma non è verificabile facilmente sul piano razionale. Lo dimostrano, come abbiamo anticipato, le fedi. Per cui, se i soggetti del gruppo ricevono da chi gode di maggior azione un’informazione appetibile, l’effetto è di essere via via condiviso da tutti i membri del gruppo. Tuttavia succede anche qualcosa di diverso, poiché il tipo di modello che descrive la rete di appartenenza del gruppo è determinante sugli effetti della condivisione che agisce in modo esponenziale, per cui, all’aumento del numero di condivisioni, cresce il numero di persone che costruiscono attorno al messaggio la loro credenza. Ebbene, questo riguarda pure la diffusione delle Fakes, e questo accade indipendentemente dal Bias del conformismo, che è il meccanismo mentale a causa del quale le persone, ci credano o no, accettano la credenza invece di approfondirla e/o di contrastarla.

Per sommi capi, abbiamo cercato di mostrare la struttura di funzionamento del soft power, ma il discorso non è ancora concluso, essendo necessario esaminare le ragioni per le quali accade che uno Stato risponda al soft power con l’hard power, cioè rovesciando il tavolo. Questo perché è altrettanto importante evidenziare come il soft power abbia più declinazioni, tali per cui la sua natura può venir modificata ad arte per perseguire scopi di natura politica, che sono, tuttavia, gli obiettivi della prosecuzione della politica con vari mezzi, tutti coerenti con la spregiudicatezza della contesa politica sul piano internazionale, che giungono a sfiorare l’hard power e talvolta a integrarlo con le sue forme meno feroci, ma pur sempre estranee alla guerra guerreggiata. Si tratta del cd “smart power” che accosta e dosa in maniera sapiente e strategica alcune risorse dell’hard power al fine di perseguire obiettivi specifici (Giusti, cit.: 78).

Allora, esaminando la questione in modo più approfondito, si può notare come il prodotto del soft power, quando si trasforma in smart power, buchi l’informazione indipendentemente dal suo fondamento di verità, e perché la relazione tra la verità e la menzogna sia appetibile per gli agenti del soft power, da un lato, e ritenuta pericolosa da chi sorveglia i destinatari del soft power in politica estera, continuando a ricordare che obiettivo primario del soft power è produrre degli effetti nello spazio politico altrui, senza ricorrere all’uso delle armi; anzi investendo risorse in campi estranei e diversi dalla ricerca e dalla produzione stessa delle armi.

9788861057210_0_536_0_75Ora, senza dilungarsi sulle conseguenze dell’apparizione della rete sulla scena mondiale, l’entusiastico accoglimento dell’iperconnessione ricevuto dalla popolazione terrestre, che ha reso fluido lo scambio di informazioni e la condivisione di notizie e contenuti, mescolando le sfere del pubblico e del privato, convincendone i fruitori di costituire una sfera pubblica con una propria opinione dove poter diffondere e condividere contenuti privati e viceversa, ha spalancato la strada all’azione di trolls e di bots, i primi in quanto «account non automatizzati gestiti da umani che possono essere creati in modo anonimo e con un’identità inventata ad hoc» per distribuire informazioni fuorvianti sui social, e i secondi come «account automatizzati che eseguono determinati comportamenti basati su una serie di istruzioni» (Giusti, cit.: 34).

Si pensi a quanto accadde tra l’ottobre 2013 e l’estate del 2016 quando apparve Anonymous Ukraine «o qualcuno che si presentava come una sua emanazione che pubblicò circa cento post su CyberGuerrilla che contenevano almeno trentasette leak, in genere frutto dell’hacking di qualche email. Tra i leak i falsi erano almeno una dozzina, (ed) è tuttora impossibile stabilire quanti post su CyberGuerrilla fossero opera di veri attivisti e quanti di operazioni di intelligence russa per interferire con la situazione ucraina (Thomas Rid, Storia della disinformazione, ed Luiss, 2022: 349).

Questi strumenti, attraverso la strategia del cd clickbaiting, con l’uso di immagini estreme, frasi di odio e similari, incrementando in modo virale la diffusione dei contenuti informativi (Cailin O’Connor cit.: 106), ha veicolato sia l’informazione sia la disinformazione in modo tale da rendere così fruttifera l’interazione fra verità e menzogna da costituire un vero cavallo di Troia per l’inganno, ed è questo il vero pericolo che scatena la reazione di chi si sente attaccato.

Utile e divertente è una storiella raccontata dal filosofo sloveno Slavoj Zizek (Ucraina, Palestina e altri guai, Ponte alle Grazie, 2024: 19) dove si narra di una moglie che 

«…chiede al marito di andare dal tabaccaio più vicino e di comprarle un pacchetto di sigarette. Lui va ma il tabaccaio è chiuso, e prova in un bar, dove attacca bottone con la barista giovane e sensuale, finché finiscono a letto a casa di lei. Dopo un paio d’ore di passione, lui si preoccupa della scusa da inventare con la moglie, poi gli viene un’idea e chiede alla donna del borotalco che si strofina sulle mani. Quando arriva a casa trova la moglie infuriata, che gli chiede dov’è stato e lui risponde: “Il tabaccaio era chiuso, sono andato in un bar dove ho attaccato bottone con la barista giovane e sensuale e siamo finiti a letto a casa sua”. “Bugiardo!” lo interrompe la moglie, “Credi che non abbia notato la polvere sulle tue mani? Hai fatto quel che volevi da anni anche se te l’ho sempre proibito: hai passato la serata a giocare a bowling coi tuoi amici!”».

9791255820239_0_0_980_0Ebbene, l’inganno consiste nel creare le condizioni perché la verità venga percepita come una menzogna, e viceversa, con l’obiettivo «di produrre il dubbio (che) è il mezzo migliore per competere con i fatti che si sono insediati nella mente» dei destinatari (O’Connor, cit.: 127).

Effetti ulteriori sono quelli di «innescare l’autoinganno, un meccanismo mentale che induce il soggetto a ritenere, con più o meno consapevolezza, che la falsità sia la verità, in quanto la falsità rappresenta ciò che il soggetto desidera soddisfacendo i suoi obiettivi politici» (Giusti cit.: 42), o, per converso, effettuare una manipolazione psicologica tale da indurre la vittima a mettere in dubbio la validità dei suoi pensieri (Giusti, cit.: 21), fenomeno definito col termine “Gaslighting”, capace di alterare e di modificare il tessuto della credenza di una pluralità di soggetti all’interno di un gruppo. Poi, trovato «qualcuno che condivide con questo gruppo altre credenze e altri valori», questo fenomeno fa in modo che questa persona sostenga il punto di vista di questo gruppo in quello di appartenenza, con effetti a catena (O’Connor,cit.: 224).

Si ha a che fare, allora, col c.d. “sharp power”, una sorta di rivisitazione contemporanea della tradizionale “Disinformacija”, cioè la tecnica di disorientare l’antagonista, mettere in crisi le certezze, indebolirne la determinazione, diffusa dall’Unione Sovietica (Giusti, cit.: 78).

Sul punto la monumentale opera di Thoma Rid (ed Luiss, 2022 ) analizza ampiamente le modalità con cui operarono gli agenti della disinformazione, sia ricorrendo alla malainformazione, (cioè qualsiasi tipo di informazione, anche non manipolata, diffusa per recare danno) sia alla misinformazione (qualsiasi tipo di informazione falsa, manipolata o erronea, non intenzionalmente prodotta), nel corso di tutto il XX secolo, a partire dall’Operation Trust, del 1921, ideata da Felix Edmundovic Dzerzhinsky, fondatore della Ceka e poi del GPU e del GRU, passando al Mein Kampf giapponese, col memoriale Tanaka del 1929 sul misterioso e fasullo documento sulla politica giapponese, passando per la disinformazione USA nella DDR, per mezzo della pubblicazione e della diffusione di centinaia di migliaia di copie di riviste comuniste accuratamente contraffatte, per giungere alle sofisticatissime azioni della disinformazione negli anni ’60, fino a cogliere come e quanto i meccanismi di gaslighting avessero avuto successo nell’opera di propaganda contro la Bomba al neutrone degli anni 70, fino a indurre lo stesso presidente Carter a impedirne la produzione, poi nelle azioni di sovversione sistematica del pacifismo dell’Europa Occidentale con l’operazione “Friedenkampf” (pace-guerra) tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80, che spinse migliaia e migliaia di persone a manifestare per la pace e a lottare contro gli euro missili, senza peraltro contestare gli SS20 sovietici (come diversamente fece il movimento di Bertrand Russel negli anni 60, osteggiato dal Cremlino) fino alla famigerata operazione MARS per ottenere il congelamento nucleare dei primi anni 80, attraverso la diffusione capillare di immagini e prospettive terrificanti dell’inverno nucleare che attendeva gli europei, per arrivare infine alle azioni di hackeraggio che giungono ai nostri giorni, senza dimenticare la disinformazione sull’AIDS (poco tempo fa sul Covid), ai leak elettorali, e alla gigantesca opera di falsificazione dei fatti che hanno scatenato la guerra di invasione dell’Ucraina.

1-banner-blog-pm-russia-moralizzatrice-def-1È allora significativo notare come siano ricorrenti, in quegli anni e in questi, serie analoghe di mantra ideologici, utili ed efficaci per colonizzare le menti, sulle malefatte del complesso industriale militare che dalle tensioni internazionali e dalle guerre guadagna miliardi nella ricerca e nella produzione di armi sempre più sofisticate, sostituendosi surrettiziamente ai decisori politici, o sulla contaminazione nazifascista delle democrazie occidentali (si vedano il capitolo “Svastiche rosse”: 128-136, e “Progettare il razzismo”: 137-144” del libro di Rid. citato). E si colga quanto la propaganda antioccidentale batta la grancassa delle democrazie associate «alla licenza, alla troppa libertà, al libertinaggio, al liberalismo, addirittura alla perversione e alla delinquenza, alla colpa e alla trasgressione, alla legge del – tutto è permesso –» (Derrida, cit.: 43 e, tra i molti recenti, Marta Allevato, La Russia moralistica, Piemme 2024: 157 e ss.).

la-q-di-qomplotto-cover-sitoD’altronde non è un fenomeno nuovo quello dell’attuale polarizzazione politica e la circolazione di narrative manichee, quali la teoria cospirazionista di Qanon partita a fine 2017 con l’evento comicamente drammatico del “Pizzagate” (Giusti, cit.:38) molto ben descritto in La Q di complotto, W Ming 1, (Ed. Alegre, 2021) che analizza la funzione sistemica delle fantasie del complotto, che muovono dalla costruzione delle prove per attingere l’amigdala del cervello umano attraverso tre pregiudizi cognitivi: quello di “intenzionalità” (se qualcosa è accaduto, dev’essere stato voluto), di “proporzionalità” (un evento su larga scala deve dipendere dalla grande volontà di qualcuno), e quello di “conformità” (la scelta delle informazioni che rafforzano la convinzione) (W Ming cit.: 153-154, 157).

Sul punto è utile un semplice esperimento mentale sulla vulgata odierna che vede nella UE la concretizzazione di un progetto imperiale bellicista, messo in atto fino dal suo albore, e cioè, come ha sostenuto un importante pensatore come Luciano Canfora, che il fondamento della UE sia la CED (Comunità Europea di Difesa), che ora mostra la sua perversa conseguenza nei progetti di riarmo contro la Russia. Sebbene la risposta dovrebbe trovarsi nel fatto storico dell’affossamento dell’idea della CED, proposta e subito smantellata dalla Francia nel 1952, questo assunto è condiviso o respinto da migliaia di persone schierate secondo opposte polarizzazioni ideologiche, in barba a ogni fact checking.

E, a questo punto, proseguendo nell’esperimento mentale, s’impone una seconda domanda: se non è stata la CED, allora cosa si nascondeva sotto la CECA? Così come quale mistificazione nascondeva il piano Marshall, giustamente (sic!) respinto dall’Unione Sovietica? E ancora, cosa significano questi fatti e quali conseguenze ebbero sulla politica estera della UE e dei suoi singoli Paesi? Qual è il significato dello sviluppo economico e sociale dell’Europa unita? E ancora, gli 80 anni successivi alla Seconda guerra mondiale, in Europa, si sono declinati o no attraverso le premesse, gli sviluppi e i cambiamenti geopolitici della guerra fredda, e, poi, del collasso dell’URSS? E come leggere la progressiva dipendenza energetica europea dalla Russia?

Lasciamo pure le risposte al lettore, non essendo questo lo spazio idoneo ad argomentarle, ma, detto questo, e tornando alla questione iniziale che vede fronteggiarsi gli avversari politici sul terreno transnazionale, resta una domanda: perché, essendoci due modi per sconfiggere l’avversario che si arma contro di noi, mentre noi ci armiamo contro di lui, invece di cercare di sconfiggerlo sul campo di battaglia, ricorrendo alle forme più estreme dell’hard power, non lo convinciamo inducendolo a smettere di armarsi e a desistere dall’ iniziare l’aggressione?

E questo, dopo tutto, per quanto passi anche attraverso l’insegnamento di Sun Tzu (L’arte della guerra, Feltrinelli, 2023), per cui «Tutto in guerra si basa sull’inganno» che sembrerebbe assimilarla all’esercizio del soft power declinato in mala o misinformazione, ha bisogno di un’ulteriore e finale analisi delle ragioni per cui viene abbandonato il ricorso al soft power e imbracciate le armi dell’hard power.

41o6stvdc8l-_ac_uf10001000_ql80_Questo perché la distanza fra la guerra e la politica risalta emblematica nella differenza ontologica tra il potere e la violenza, dove il potere è intrinseco alla politica, appartenendo alla stessa categoria concettuale, e trovando la sua ragion d’essere nella legittimazione che appartiene al passato, remoto o prossimo che sia, ed è per questo un fine in sé.

 Al contrario la violenza, e la guerra essendone la sua massima declinazione, ha bisogno di una giustificazione in rapporto con un fine altro da sé, che sta nel futuro. E quanto più il suo fine si allontana nel tempo, tanto più la violenza è ingiustificata. Lo si vede, per chi abbia l’onestà e la libertà intellettuale di riconoscerlo, nella guerra europea attuale, giustificata dalla Federazione Russa dapprima con la denazificazione dell’Ucraina, dove l’aspettativa di un’accoglienza da liberatori degli eserciti russi si è scontrata con l’essere ricevuti come brutali invasori, talché il fine si è allontanato diventando una lotta per la vita o per la morte contro il becero e guerrafondaio Occidente. Infatti il fine che giustifica il mezzo dev’essere immediato, a pena di crollare come sotto l’imposizione di una menzogna, e a causa del bisogno di questa immediatezza, si coagula la necessità di fondere potere e violenza.

Ma da ciò discende un corollario, per cui la difesa da un’invasione e da un’occupazione salda la legittimità del potere che vi si oppone con la violenza messa in campo per resistere. Allora la legittimità del potere che resiste discende dalla forza della politica, come veicolo biunivoco tra i cittadini che lo sostengono e il potere che ne invoca e guida l’azione, e la giustificazione della lotta armata il cui fine immediato è sia la resistenza, sia il progetto politico di impedire all’invasore di costruirsi una legittimità attraverso la costituzione di un potere che non potrebbe sopravvivere attraverso la mera violenza, se non a prezzo di continui massacri che finirebbero per minare il potere stesso togliendogli ogni legittimità (Analogamente Hanna Arendt in Sulla violenza, cit.: 47 e ss.).

9788817157292_0_536_0_75Detto questo, ancora non si è esaminato il vero perché dell’uso estremo dell’hard power, atteso che sia l’assunto di Von Clausewitz, sia quello conseguente del Pontefice riteniamo siano falsi. Ma si tratta di un esame molto arduo, poiché gli studi sulle vere ragioni della guerra, che non siano dettate dall’ideologia e dalla propaganda, sono molto pochi. Tuttavia siamo propensi a credere che questa ragione stia nel cortocircuito fra le credenze, la paura, la razionalità e gli istinti, dove le credenze escludono dall’attenzione (cioè dall’uso dell’intelligenza critica) alcune conoscenze privilegiandone altre; la paura che, surrettiziamente, rende inclini all’accettazione delle credenze come verità; la razionalità che soccombe alle credenze costruendo meccanismi mentali coi quali agisce in due modi: sia ordinando in senso finalistico (scopi) le credenze trasformandole da stati della mente in strumenti per l’azione, sia edificando piani e costrutti privi di punti deboli, utili e necessari per credere nel successo dell’azione. Infine gli istinti, così forti da soverchiare i sentimenti del c.d. “paradosso della bontà”, descritto dall’antropologo Richard Wrangham, secondo il quale «all’incremento della docilità dell’uomo corrisponde un suo perfezionamento nell’arte di uccidere, per di più su scala maggiore» (Miriam Macmilliam, War, come la guerra ha plasmato gli uomini, Rizzoli, 2020: 32).

E quanto la guerra veleggi lontano dalla politica che coincide col proprio scopo, emerge lampante dall’acuta analisi arendtiana sulla guerra del Vietnam, per cui «la dissimulazione, la falsità e il ruolo della menzogna deliberata (fossero) diventati i temi principali dei Pentagon Papers» dove «la stragrande maggioranza delle decisioni in questa disastrosa impresa sono state prese con la piena consapevolezza che, verosimilmente, essa non avrebbe potuto venir attuata: perciò gli obiettivi dovevano mutare continuamente» (Hanna Arendt, La menzogna in politica, ed. Marietti, 2018:26).

imagesDetto questo, forse la diagnosi più sicura dell’evento guerra discende dall’indagine sui meccanismi della c.d. “Trappola di Tucidide”, che sintetizza il cortocircuito testé descritto e che, nel bel libro di Graham Allison, Destinati alla guerra (Fazi editore, 2018) prende in esame 500 anni di storia, partendo dalle guerre combattute e da quelle (poche) non combattute a partire dal XV secolo sino ai giorni nostri, e dove l’ascesa di una nazione, quando apparentemente minaccia la posizione di una potenza dominante, o che si sente tale, e sembra alterare gli equilibri, induce questa a scatenare la guerra, rinunciando alla funzione della politica, così come accadde per la guerra del Peloponneso tra Sparta e Atene.

Ora, non essendo questa la sede per indagare il futuro del mondo, se, ad esempio, gli USA attaccheranno la Cina o viceversa (che è l’oggetto primario del libro di Allison) o se la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina degenererà in una guerra totale con l’Occidente, Allison fa un’affermazione capitale, e scrive: «Quando due Stati arrivano a possedere entrambi un arsenale nucleare invulnerabile, il conflitto non è più un’opzione giustificabile». Si noti l’aggettivo “giustificabile” e non “legittima”.

«Tutte e due le nazioni sono tenute a integrare questa realtà di fatto nelle loro politiche estere… significa che entrambe devono trovare il modo di giungere a compromessi che, in circostanze diverse, giudicherebbero intollerabili, e impedire a se stesse e ai propri alleati di intraprendere azioni capaci di innescare una guerra totale» (Allison, cit.: 234).

destinati-alla-guerraA questo punto non resta che richiamare le parole del politologo Mauro Giro in un suo recente editoriale (Domani, 8 giugno 2024) dove richiama il pensiero di Etty Hillesum, l’ebrea olandese autrice di un diario che va dal 1940 al 1942, redatto contro l’odio che toglie spazio alla ragione, interrotto dalla sua deportazione ad Auschwitz dove verrà uccisa nel 1943. Dalle parole di Etty Hillesum emerge come la paura di perdere il proprio mondo (l’identità nazionale, la casa, oggi l’Europa per noi europei, o il mondo slavo con le sue declinazioni religiose e politiche, Israele o la Palestina), che ammala l’anima e spinge a odiare il nemico, che produce l’ira e acceca, allontani dagli scopi della politica, così come fece la Germania nel suo agghiacciante apogeo del 1945,

«quando la leadership nazista rifiutò di prendere misure per preservare la vita dei tedeschi, (e) quando il Comitato internazionale della Croce Rossa suggerì di allestire zone di sicurezza a Berlino dove i civili potessero radunarsi durante l’imminente battaglia, il capo di stato maggiore tedesco rifiutò con sdegno… perché -acconsentire sarebbe il primo passo verso il cedimento» (Macmillan, War, cit.:127).

Quanto simili fatti di un orrendo passato risuonino vicini all’orrore della guerra di Gaza, dove due entità nazionali si scontrano dominate dall’odio, e una, la maggior vittima attuale, a fronte della guerra spietata mossa dall’altra che vi ha scatenato la furia di centinaia di migliaia di giovani ebrei, rifiuta di proteggere i suoi cittadini per analoghi motivi, usandoli come scudi umani, talché, come allora in Germania, lì quel simulacro di Stato, da un lato, e l’altro Stato dall’altro, sono tali per cui questi non appartengono più ai loro cittadini, ma viceversa, ecco che la politica nega se stessa. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024

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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.

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