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Raniero, ‘al sommo dio’. Disegni erotici, magiche figure, l’entomologia

Palermo, Villa Alliata

Palermo, Villa Alliata

di Aldo Gerbino 

Nota Suburanas inter Telesina puellas,/  quae, puto, de quaestu libera facta suo est,/cingit inaurata penem tibi, sancte, corona:/  hoc pathice summi numinis instar habent. 

Telesina, nota fra le ragazze di Suburra,/che, penso, s’è resa indipendente col mestiere,/d’una ghirlanda d’oro, o venerando, ti cinge il fallo:(Le puttane lo ritengono pari al sommo dio [Carmi priapei, I sec., 40 (ed. 1996; trad. L. Mariani] .

La palermitana via Serradifalco rispecchia, nella sua impervia frammentazione, tutta la violenza urbanistica ancor più sommersa dall’inarrestabile disordine della viabilità e dall’incuria abbattutasi, da tempo immemore, sulla città fenicia. Di contro, essa onora la figura del nobile siciliano antiborbonico Domenico Lo Faso di Pietrasanta, duca di Serradifalco, un illuminato archeologo, umanista e architetto (sarà lui a realizzare, con Giachery, il Teatrino della Musica al Foro Italico). Nell’intricato e asimmetrico asse di tale via lo spazio toponomastico accoglie, ben profondata dall’impenetrabile catenaria dei decenni, la Villa Alliata di Pietragliata che fu dimora di Raniero Alliata fino all’ottobre del 1979, anno della sua morte.

L’immagine della villa, poco visibile (anche dall’ingresso di via Sirtori) da quanti percorrono la strada (ma è stata visibilissima da quanti hanno saccheggiato impunemente il sito), ancora riluce del suo originario ordine neogotico-catalano. È molto probabile che tale assetto, finché fu dimora di Raniero, tendeva ad ammantarsi – nelle sere in cui il bagliore lunare si stendeva sulla città – di quella simbolica atmosfera che leggiamo in Arnold Böcklin: l’artista di Basilea, autore della notissima serie di dipinti l’Isola dei morti, in cui ha mirabilmente espresso tutta la sua carica visionaria volta a svelare dall’ombra, analogicamente, il multiverso della realtà. E non è improbabile, considerando il cupo e fantasmatico clima di cui l’edificio è circondato, che qualcuno, in quegli ormai distanti anni Settanta del secolo scorso, non abbia intravisto il principe stringere nella mano un teschio e inveire contro il mondo, oppure scorto, da una delle torri, Helga, la segregata amante-sposa scandinava dai fulvi capelli e dal seno armonico.

Sappiamo che ‘patina’, ‘astanza’ e ‘flagranza’ sono i ben noti concetti esposti da Cesare Brandi nella sua teoria del Restauro; essi ci consegnano, e correttamente si attagliano, a ciò che persiste della Villa Alliata di Pietragliata: dimensione, spazio mentale e intima musicalità di un’architettura, la quale, di certo, è reflexing di più anime e in particolare di un’anima. Il neogotico della Villa, firmato dall’architetto Francesco Paolo Palazzotto (1883) su commissione del padre di Raniero, il principe Luigi, offre, da egregio rappresentante della linea eclettica e neogotica, tutta la sinergia con il portato culturale, psicologico, antropologico dell’ultimo rampollo degli Alliata.

copertinalibroUna villa, con i suoi riferimenti all’architettura di Matteo Carnilivari, – e, sottolinea con accuratezza Pierfrancesco Palazzotto in Palazzo Termine Pietratagliata tra tardogotico e neostili (2013: 116) – «coerentemente sviluppata secondo uno stile tardo quattrocentesco con archi ribassati, cornici a piattabanda e, proprio nei partiti centrali dei due prospetti, alcuni elementi la cui fonte è tutta palermitana». Poi il «fronte chiuso dalla corte, derivata dai corpi bassi della struttura settecentesca, è caratterizzato al centro da una struttura sporgente che funge da moderno bow windows retto da un arco ribassato, e su cui si affaccia il terrazzino della zona padronale. Il prospetto di quest’organismo [si continua] è spiccatamente tratto dai piloni che serrano i tre archi della facciata della chiesa di S. Maria della Catena di Palermo. L’inserimento dei doccioni zoomorfi sulla stessa corte non manca di rimandare a quelli di palazzo Abatellis».

D’altronde, già con Benjamin, l’occhio della critica d’arte s’era acceso nell’accezione terminologica di Reflexionsmedium – cioè “mezzo di riflessione” (1919) – in cui opportunamente s’agitano ‘forma’ e ‘ambiente’, e, soprattutto, quel maturare l’estensione del corpo mentale dell’Autore e ancora – aggiungiamo noi – di quanti hanno vissuto il luogo abitativo, impregnandolo e trasformandolo con un palmare contributo alla patina.

Nel segno acquarellato di Casimiro Piccolo e versi di Lucio.

Nel segno acquarellato di Casimiro Piccolo e versi di Lucio

Appare, dunque, para-fisiologico lo sconfinamento di Raniero, in tale ambiente in cui scorre un nostalgico fluido neomedievale (corroborato, in quel tempo, dalla mano del mobiliere e artista Andrea Onufrio, padre dello scrittore Enrico), verso esperienze della pittura automatica in ‘trance’: quelle “trachettili” che hanno avviato recenti esperienze evocative e creative di intensa ed emotiva partecipazione. E, similmente accostabili a Raniero, per idealità, a modelli “trachettiformi” e vicinanza entomologica, l’analisi contemporanea testimoniata dalla mimetica difensiva del fenotipo degli insetti nel rapporto tra arte e spiritismo sviluppata in “Mimicry” da Łukasz Huculak (2022; cfr. F. Galluzzi, Fantasmi elettrici). Tali immagini ectoplasmatiche mosse da un mesmerismo occasionale e informale, son veri e propri scorrimenti ansiogeni in cui il tenebrore insito nell’habitus del nobile Raniero trova consonanza, pur con le dovute differenze, nella dimensione esoterica di Casimiro Piccolo e, per aspetti non soltanto estetici, nella stessa poetica di Lucio Piccolo e in quella enclave palermitana del Circolo Bellini dove le sedute spiritiche erano accadimenti di certo non rari.

Tutto ciò si sostanzia nell’entomologo in un’orgasmica tensione biologica portata all’auto-esasperazione di un soggetto in cui il tocco di De Sade coincide con le osservazioni di Georges Bataille e i suoi Madame Edwarda (1928) e Storia dell’occhio (1927). Testi per cui lo scrittore e antropologo francese, partendo da speculazioni anatomiche (su testicoli, uova, globo oculare), dichiara: «e adesso ero in grado di spiegarmi quei nessi così straordinari, ipotizzando una regione profonda del mio spirito in cui convergevano immagini elementari e tutte oscene, immagini cioè assolutamente scandalose, quelle su cui la coscienza sorvola all’infinito, incapace di tollerarle senza profondo, aberrante turbamento». In tal modo le ‘trachettili’ di Raniero, nel loro inconscio alito dadaista sono descritte, – a partire dall’icona abitativa leggibile anche nella resinotipia (incisione da matrice fotografica propugnata da Rodolfo Namias) del fotografo d’arte (cugino di Tomasi, di Casimiro, Lucio e Agata Giovanna Piccolo), Filippo Cianciàfara Tasca di Cutò, – nel capitolo “I quadri magici” da Bent Parodi (Il principe mago, 1987: 58-66), assumendo forme che si dichiarano quali autonome Forze gemmate dalla composizione creativa; così si chiarisce, nel dialogo tra Raniero e Papilio, quanto segue: 

 «prese una bustina di cellophane, staccandola da un pacchetto di sigarette e riempitala di cenere, con uno spillo fece tre buchi a mo’ di triangolo nell’involucro, che annodò nella parte superiore. Pronunciò alcune frasi incomprensibili sussurrandole a mezza voce (probabilmente formule evocatorie in ebraico) e, lentamente, prese a sbattere ritmicamente la bustina su un foglio di carta Fabriano, scegliendo punti diversi. La cenere così fuoriuscita macchiò il foglio disordinatamente. La cosa continuò per diversi minuti, mentre Raniero aveva un atteggiamento ieratico come di chi sta appunto celebrando un rito sacro. Compiuta l’opera, prese dalla scrivania una tavoletta di cera da disegno, e cominciò lentamente, ma con decisione, a levigare il foglio espandendo le macchie di cenere in modo uniforme. In gran silenzio e con la massima serietà tirò avanti per un buon quarto d’ora. E fu a quel punto che Papilio cominciò a notare con estrema sorpresa una straordinaria metamorfosi: sul foglio trattato con la tavoletta si stavano formando delle figure umane minute, particolari che in breve assunsero le forme di un paesaggio boschivo… – Si chiamano trachettili – disse Raniero. – E non hanno nulla a che vedere con i quadri ordinari. Devi sapere che ci sono tanti modi per realizzare un’opera d’arte ma quello delle trachettili è fondato su criteri magici. Occorre evocare la forza creativa che ci circonda e ci avviluppa – proseguì con tono fermo.  – Ah, lo sospettavo… – disse Papilio. – Allora ha ragione Casimiro quando afferma che tutta la realtà nasce dal pensiero. – E chi ti dice che una trachettile sia prodotta da un pensiero? Io in verità sono solo uno strumento e non so mai cosa spunterà fuori». 
Lucio Piccolo a Villa Calanovella (ph. F. Allotta, 1967)

Lucio Piccolo a Villa Calanovella (ph. F. Allotta, 1967)

E non è certo un caso che nello spazio mentale in cui egli agisce, fino agli estremi confini della solitudine, ritrovi le sue ossessioni, i suoi travagli mossi convulsamente tra cultura e visioni, tra lucidità biologica e carnalità esasperata, tra l’oggettività, la metapsichica e la metafisica in quanto, – per citare un trattato di Julius Evola, Metafisica del sesso, – riscopre malefiche attrazioni sul versante della digressione, della libido, dell’affermazione carnale per un se stesso vagolo e impietrito. Nel capitolo “Sesso fisico e sesso interno”, Evola ritiene, infatti, che possa essere un punto di vista «astratto e inorganico; nella realtà esso può valere unicamente per una umanità sfaldatasi per regressione e degenerescenza. Chi lo segue, mostra di saper soltanto vedere gli aspetti terminali più grossolani e tangibili del sesso. Ma la verità è che il sesso, prima ed oltre che nel corpo, esiste nell’anima e, in una certa misura, nello stesso spirito». Asserzioni premonitive tendenti a dialogare con sponde neurofisiologiche e con gli attuali temi sulle disforie.

In tale confliggere – si insiste – del modo in cui «si è uomo o donna all’interno, prima di esserlo esteriormente», bisogna tenere presenti, infatti, «la qualità maschile o femminile primordiale», una qualità che «compenetra e imbeve tutto l’essere, visibilmente e invisibilmente, nei termini detti più sopra, come un colore compenetra un liquido». Un approdo, per Evola, all’esistenza dei «gradi intermedi di sessuazione, ciò vuol solo dire che l’accennata qualità-base, manifesta una intensità ora maggiore e ora minore a seconda degli individui».

Łukasz Huculak, Apparition, 2015.

Łukasz Huculak, Apparition, 2015

L’entomologo esoterista, amante di un Darwin liberamente interpretato e di Ernst Haeckel (lo studioso dei ‘Radiolari’), e della pittura, vive, dunque, nutrendosi di se stesso, in una sorta di ampolloso egoismo e di una visione in cui il suo alieno pangermanesimo trova, in modo esclusivo, collocazione nell’isterica e irrazionale gestione del consesso umano, atteggiamenti simili, per veemenza, a quel singolare Oscar Panizza (nato in Franconia) autore di Psychopathia criminalis, notato da Walter Benjamin per la sua ‘fantasmagoria creativa’. In ogni caso la radicalizzazione delle idee è parte caotica del registro di Raniero, anche se la spinta alla ricerca, la suggestione fortemente attrattiva proveniente dall’esoterismo, dallo spiritismo (pagina propulsiva stimolata dal declino del positivismo, negli anni della sua formazione) conferisce un acuto desiderio di trascendenza e trasgressione, pronte ad essere lanciate contro un dio che umilia il desiderio alla libertà d’espressione del proprio corpo. Il suo cinismo, avverte Parodi «più che un atteggiamento, era dettato dalla sua particolarissima formazione culturale, in cui la misantropria si fondeva con un malinteso senso di superiorità razziale e intellettuale».

Così la pittura (i suoi ‘disegni erotici’), pur nella sua esplicita modalità grossier di leggere realtà e pulsioni, si materializza in una sorta di graphic-novel in cui il pulp (il suo fuoco interno), staccato, come per un décollage dal muro della realtà, può finalmente mostrare l’intimo della natura, nel momento in cui sembra varcare, in anticipo, la soglia delle disforie di genere col promuovere il valore androginico, l’orgiastico, il tutto in una primitiva assunzione di narcisistiche visioni. Le sue tempere concedono una pedana in cui Priapo viene celebrato nella mescolanza etero-omo o nella provocazione schiettamente carnale di una libido portata all’eccesso, e in cui ogni azione silenzia il registro ideativo, le scelte, al fine di un nichilistico gusto del piacere. In ogni caso è lo stesso Evola a ricordare le calmieranti parole di Mélinaud che, leggendo il ‘pudore’, affermava come esso proceda «da un impulso più o meno inconscio dell’uomo in quanto tale a porre una certa distanza fra sé e la natura, non altro la vergogna che si prova per l’animalità che è in noi».

Le danze itifalliche d’iniziazione alla virilità (secondo alcune interpretazioni) riscontrabili a Palermo nelle incisioni preistoriche delle grotte dell’Addaura su Monte Pellegrino (a far data dall’Epigravettiano al Mesolitico), sono altresì esempi di estremo interesse estetico in quanto consentono di osservare uomini ed animali qui dotati di un’eleganza formale che stupisce; per questo ci attrae la scelta di un artista toscano, Paolo Malfanti, quando, nella sua tavola intitolata Palermo (2007; Accademia delle Scienze Mediche “Giovanni Filippo Ingrassia”; Università di Palermo), cita la ritualità itifallica propiziatoria dell’Addaura di cui parla Luigi Bernabò Brea. Una determinazione segnica, in Raniero, che si esplicita, invece, con una certa rabbia compositiva, proprio nell’esercizio del grottesco rivolto all’erotismo a cui possiamo associare, concettualmente, un orizzonte critico attinto dal contemporaneo ora con il polacco Łukasz Huculak e l’ambiente siciliano tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo,  atto a dimostrare le sollecitazioni ermetiche attraverso le figure di Raniero e Casimiro, ora  nella misura del giovane artista ungherese, Kis Róka (Budapest, 1981) per cui – avverte Mario Casanova – come «le mitologie siano per Kis Róka archetipi del suo essere intimo e profondo, le sue radici» e, proprio «alle radici vanno gli estremi pensieri, quando l’inesorabile arriva sicuro e certo», e, in tale certezza, vi scorge «quel riso amaro che è un pianto di piacere».

Łukasz Huculak, Nature 3, 2014.

Łukasz Huculak, Nature 3, 2014

Per l’appunto, con Raniero, la scomposta (allegorica) danza itifallica si trasforma in un groviglio ove Priapo ne costituisce la linfa vitale, la denominazione comune capace di scompigliare generi e desideri, incanalandoli sempre più nel tenace simbolo priapeo. Questo dio della fertilità, virilità e natura, figlio di Afrodite, è di certo un paterno nume; egli – rileva il latinista Umberto Todini – «trae coscienza da se medesimo, dalla propria capacità di distinguersi in qualcosa che nessuna delle altre divinità, chiamate sovente a confronto, possiede in pari misura»: un dio, va inteso, come ‘un’autorità di natura’ il quale emerge nei citati Carmina priapei (testi del I sec.  d. C.) nei cui versi si confrontano i vari calchi poetici: da Giovenale a Marziale, da Tibullo a Properzio, da Afranio ad Orazio a Ovidio, al fine di accertare – insiste Todini – «un’ira stilisticamente ottenuta e che riconduce all’aggressività di diritto che questo dio esprime; disincantata e liberatoria misura di un mondo del quale Priapo e i suoi dotti fedeli, illustrano in versi l’esercizio di questo jus, divino ed umano. Divinità in effetti “fra cielo e terra” quanto nessun’altra, minore – se e, non di meno, tutt’altro che infima».

Le tempere, le matite, le tecniche miste, nei 29 materiali fogliacei di Raniero, si accalcano, o meglio son governate da moltitudini femminili intente all’esibizione fallica in cui esposizione e fellatio, erezioni, eiaculazioni, accennate zoofilie, e rapporti, più che parafilici, normofilici (d’una normofilia portata alla spettacolarizzazione), sono contenuti in colori che tendono ad un climax di basso voltaggio. È il segno a marcare, avvoltolato in una allure prona al grottesco; volti, organi, posture, accoppiamenti, il tutto in uno scenario dove si avverte la denudazione globale nel bagno rutilante di un assoluto naturale, fuor da costrizioni, gioiosamente e inconsapevolmente consenzienti: visi, sguardi, accesi sorrisi d’invito, concentrati in un’eccitazione diffusa, fluviale, votata alla sintesi degli opposti e collocati in viluppi, in corpi che si affrontano, e che nelle singole matite si attivano in movenze più agili, spedite, ironicamente esultanti.

In alcune immagini, come quella legata a movimenti assorti nella loro nudità erettile, mentre le figure fanno ruotare intorno al loro corpo degli hula-op, si avverte un riflesso delle dinamiche posturali associabili, per ben altre superiori intese estetiche, al mondo figurativo di Alberto Bragaglia, il pictor-philosophus, con le sue ‘figure in movimento’ avvinte da armoniosi e fluttuanti vortici.

Certamente il Novecento – Picasso in testa – ha elargito disegni, olî per una arte erotica di grande pregnanza: da George Barbier a Grosz, a Friedrich Wilhelm Kleukens; e ancora, negli infuocati anni Venti, con Denis Verlaine, ecco apparire Priapo in tutta la sua energia vitale, a stravolgere lo status erotico della donna, esercitando una irriverente e liberatoria analisi sul maschile. Finalmente l’orizzonte fallocratico prende corpo nella completa gestione e introiezione di una disinibita sfera del femminile, spesso con una voluttà, come è stato rilevato, antropofagica. Questa cultura, tali cambiamenti della sessualità, del costume sono filtrati dalle nuove esperienze artistiche, dalle conoscenze scientifiche, dagli avanzamenti della sociologia, della psicologia, della psichiatria.

9788888585888_0_200_289_75Palermo, tra le capitali del liberty, ha spontaneamente favorito l’eluizione di tali prodotti estetici, sociali, neurobiologici; Raniero non poteva – pur nel suo tendenziale isolamento ben smorzato da un’esistenza ludica – non cogliere e amplificare le sue pulsioni, la sua scoscesa (e se vogliamo dolente) visione del mondo. È indubbio che ci sia da parte di Raniero Alliata anche una spinta mesmerica ad accostarsi ai quadri delle Scienze naturali; egli, – sulla orme del castelbuonese Luigi Failla Tedaldi, allievo di Francesco Minà Palumbo, con il suo Glossario entomologico (1900) e lo studio dei lepidotteri, e di Enrico Ragusa (ricordiamo la Breve escursione entomologica fatta sulle Madonie e ne’ boschi di Caronia del 1871) e le sue ricerche sui coleotteri, – sviluppa un profondo interesse per Lepidotteri (farfalle), coleotteri, imenotteri. Negli anni allestisce una preziosissima collezione di 465 scatole entomologiche. Saranno i luoghi madoniti e nebroidei il palcoscenico delle osservazioni naturalistiche, gli stessi che alla fine degli anni Venti accolsero il tedesco Ernst Jünger, scrittore e appassionato entomologo, il quale vi incontra, non lontano da Caronia, un coleottero, il Capnodis, un «bupreste simile nella forma ad una barca appiattita», tracciando, nella commossa solarità del paesaggio, intense riflessioni.

Raniero vive la promiscua oscurità del sentire, consegna, simbolicamente, la sua curiosità di ricercatore anche al percorso misteriosamente sotterraneo dei suoi artropodi, delle loro defatiganti trasformazioni per raggiungere, sì, ma per poco tempo, una luce, il tocco di un petalo, ma soprattutto per conquistare risposte migliori della vita, come per certi insetti accolti nei lacerti letterari di Edith de la Héronniere descritti in Guerre (2006): nella speranza, per ogni essere vivente, di un poter finalmente andare, oltre le crudeltà, “esente dalla paura”. 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023 

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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014).

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