di Valentina Richichi
Le riflessioni sul rapporto con l’alterità hanno trovato il loro campo privilegiato nell’indagine delle produzioni retoriche contestuali al periodo coloniale. Arte, musica, letteratura e cinema hanno costituito il veicolo di ritorno dell’esperienza nelle terre conquistate. I manufatti di arte tribale arricchivano le collezioni e ispiravano gli artisti e i compositori europei. La produzione letteraria si pregiava di contesti esotici in cui affrontare la tematica dell’incontro con l’altro e, al tempo stesso, sulla meditazione identitaria profonda, talvolta ribaltando le parti, come in Storia di Gordon Pym di E.A. Poe. I campi dell’espressione artistica sono divenuti luoghi in cui la propaganda trovava il suo spazio d’elezione attraverso la diffusione di concetti penetrati nell’immaginario europeo in forme differenti.
Lo spunto per questa riflessione nasce dalla lettura di una interessante pagina del blog Samarra, dove si affronta una lettura diacronica delle Avventure di Tintin. L’autore ripercorre la storia del fumetto di Hergé a partire dai primi volumi degli anni Trenta. Nel secondo volume, edito nel 1931, l’eroe belga è alle prese con la vita in Congo e realizza le aspettative paternalistiche della patria d’origine nell’approccio bonario con la popolazione autoctona. Gli abitanti del Congo sono restituiti all’immaginario dei lettori come soggetti indifesi, bisognosi dell’istruzione, della tecnologia e della medicina occidentali, ma non solo: Tintin pone fine alle schermaglie locali con illuminata ragione e diventa una guida insostituibile verso una forma di redenzione culturale caldeggiata dalla propaganda nazionalistica del tempo. Cosa accade, esattamente, quando la rappresentazione dell’altro è unilaterale?
Il problema della rappresentazione è al centro di un processo indagato dall’antropologia moderna, specie a partire dalle immagini raccolte e prodotte da missionari e colonizzatori, ma anche dagli stessi antropologi, nella misura in cui si cominciò a protendere il punto d’osservazione verso una prospettiva che tenesse conto delle dovute negoziazioni con cui poter dar voce al protagonista stesso della narrazione. I racconti e le storie nate nel periodo in cui i territori lontani venivano segmentati e occupati dalle potenze europee hanno condotto la percezione occidentale verso una condivisa concezione dell’alterità come sottoposta alla ragione degli uomini bianchi. Nel caso dei fumetti, il veicolo propagandistico non era meno potente.
A torto considerata un’arte inferiore rispetto al cinema e alla letteratura, il fumetto costituisce un atto performativo in grado di costituire i miti contemporanei, come già osservato da Antonino Buttitta nella sua analisi strutturale delle avventure di The Phantom, ma anche come si riscontra nella produzione, più recente, dei fumetti di Tex, in cui il protagonista vive sul limite di una frontiera concettuale tra bianchi e rossi, restituita attraverso il gioco del mistero e la ricerca del bene. Il mito riesce a penetrare la fantasia del lettore grazie al doppio veicolo della scrittura e della rappresentazione grafica, costituendo così un efficace mezzo di diffusione, anche della rappresentazione dei popoli con cui gli Europei sono entrati in contatto pochi secoli orsono, nel caso specifico che qui stiamo trattando. Il tema è affrontato anche da Matilde Callari Galli (2005: 218) che così scrive: «ogni immagine figurativa contiene […] una miriade di elementi e rimandi culturali che si fissano in modo più o meno consapevole nella memoria dello spettatore. Occorre aggiungere, inoltre, che quest’ultimo assimila i materiali iconici che gli vengono sottoposti interpretandoli sulla base del proprio stile cognitivo e del proprio vissuto creando a sua volta nuovi significati che confermano o progressivamente sovvertono saperi e credenze».
Un discorso analogo va fatto per quanto concerne le immagini fotografiche. Le documentazioni prodotte dai fotografi inviati nelle colonie dagli atelier delle grandi città europee costituiscono degli interessanti corpora in grado di restituire fedelmente il risultato del contatto con i popoli autoctoni da parte delle cariche amministrative o dei missionari. Ciò che emerge dalla maggior parte degli scatti è una totale decontestualizzazione e spersonalizzazione dei soggetti immortalati, offerti allo sguardo europeo da una prospettiva esclusiva e priva di intenti conoscitivi reali. Come osserva Vera Osgnach in uno scritto sulle immagini storiche del Kenya, « il ritratto antropologico tipico dell’epoca missionaria, infatti, non è interessato a registrare le caratteristiche individuali e la personalità, ma scruta il modello di ricerca dei caratteri tipici, lo fissa e lo appiattisce al ruolo di “tipo”. Lo sconosciuto è incasellato in un sistema dove ogni figura ha senso e può essere accettata perché organizzata nel sistema di pensiero occidentale». Ciò che gli otturatori hanno catturato per decenni erano infatti uomini e donne nei loro abiti tradizionali o intenti a svolgere le loro attività quotidiane, nell’intento di mostrare al mondo occidentale che la missione civilizzatrice stava per mettere fine al presunto caos con cui doveva fare i conti. Le ricchezze dei Paesi colonizzati non si esaurivano nelle attività estrattive o manifatturiere, ma nella conquista culturale che avrebbe prodotto in differita nuovi spunti necessari al progresso. Anche la sperimentazione tecnologica trovava nelle terre lontane il luogo ideale da cui far partire l’innovazione necessaria al mantenimento del potere geopolitico agli occhi delle nazioni antagoniste. La retorica dell’espansione e del progresso non poteva che passare attraverso il proposito positivo del miglioramento concettualizzato dalla potenza europea nei confronti di culture ritenute inferiori, «dunque non solo presa di possesso e dominio di territori/economie del Sud del mondo, ma costruzione di strutture mentali e di modi di rappresentare le forme e i traguardi di accesso alla modernità», scrive A. Triulzi (2005:106).
A partire dal processo di decolonizzazione, l’atteggiamento ha mutato il suo volto senza che la sostanza abbia conosciuto variazioni. Quello che un tempo era il popolo assoggettato, adesso è il popolo che versa in condizioni di sottosviluppo e che per tale ragione va aiutato. I territori del Terzo mondo sarebbero così diventati i principali produttori di povertà quale materia prima per la creazione di reti di supporto internazionale deputate alle operazioni di sviluppo e di aiuto. Un simile processo ha determinato la creazione di una nuova frontiera tra lo sviluppo e il sottosviluppo che si risolve nella produzione di immagini e retoriche legate al proposito assistenzialista. Quali immagini? Prime tra tutte, i volti dei bambini denutriti sullo sfondo delle dimore fatiscenti: il cliché che da decenni caratterizza le campagne pubblicitarie delle agenzie di sviluppo e degli enti deputati alla raccolta di fondi destinati ad azioni di aiuto umanitario. Anche in questo caso, come già avveniva più di un secolo fa, non è mai il soggetto dell’osservazione a farsi portavoce dei propri problemi, ma l’occhio esterno di chi intende assisterlo. La rappresentazione della povertà non scaturisce come un concetto universale, ma ha gli occhi dei bambini africani, anche quando l’agenzia non si occupi prettamente del continente nero ma si faccia carico anche di realtà situate in differenti punti del globo.
Le più recenti forme rappresentative seguono lo stesso principio, come avvenuto nella campagna pubblicitaria di Save the Children, stavolta denunciata da numerosi internauti perché reputata lesiva dell’immagine dei popoli africani. L’utilizzo sempre più diffuso dei social network e la compressione spaziale dovuta alla rete di internet stanno dando luogo ad una forma di comunicazione che permette una riflessione condivisa sui temi qui trattati. Il disappunto per le immagini utilizzate all’interno dello spot mandato in onda nelle ultime settimane ha prodotto un’azione che ha raggiunto il numero verde dell’agenzia con numerosi reclami da parte di singoli ed associazioni. Altrove, si comincia a scrivere una storia differente: numerosi artisti e videomaker di origine africana hanno realizzato opere che raccontano il Continente in modo inedito. È quanto avvenuto, per fare un solo esempio, in occasione di un reportage presentato ad una mostra allestita a Roma nel 2011.
Si tratta della esposizione promossa da Officine Fotografiche Roma dal titolo See You See Me, di cui scrive AwamAmkpa: «In questo contesto, la mostra usa la pratica fotografica in Africa per attirare l’attenzione sui modi in cui gli africani rappresentano se stessi e la crescente influenza che queste autorappresentazioni hanno nel modellare le modalità contemporanee con cui l’Africa viene fotografata. I fotografi africani hanno ereditato modelli di rappresentazione fotografica mutuati dagli archetipi coloniali che raffiguravano gli africani come parti di una storia di cui facevano parte ma sulla quale non avevano alcun controllo. Questo paradigma di oggettivizzazione ha incoraggiato una formula di presenza / assenza, che ha però iniziato a cambiare nel momento in cui i fotografi africani hanno cominciato a posare per le loro stesse fotografie, così che sembravano dire: la macchina fotografica deve vedermi come io voglio essere visto».
A fronte di una riappropriazione del potere della autorappresentazione, è auspicabile chiedersi quanto spazio si sia disposti a fornire alla negoziazione delle immagini, in ragione dell’esistenza di un interlocutore che non possa più stare alla base di un rapporto di asimmetria, nell’ottica di una reale concezione dello sviluppo e di una radicale riorganizzazione occidentale dello sguardo postcoloniale. Chi per secoli è stato raccontato, oggi possiede una voce in capitolo che potrebbe riscrivere la storia della costruzione visiva e retorica dei Paesi e dei popoli oltraggiati dalla conquista europea.
Riferimenti bibliografici
Amkpa A., Africa: See You, See Me, http://officinefotografiche.org/cultura/mostre/45-africa-see-you-see-me.html
Bonelli , Galleppini, Il passato di Tex, Mondadori, Milano,1999.
Buttitta A., “The Phantom”: personnage mythique, in: Dei segni e dei miti, Palermo, Sellerio, 1996.
Callari Galli M., Antropologia senza confini. Percorsi nella contemporaneità, Sellerio, Palermo, 2005.
Samarra,“Tintin au Congo”ou la mission civilisatrice de la colonisation, http://blogs.mondomix.com/samarra.php/2009/11/28/tintin-au-congo-ou-la-mission-civilisatr
Osgnach V., Il ritratto come maschera: le immagini storiche del Kenya dall’archivio fotografico dei missionari della Consolata, http://www.fieldworksmagazine.org/il-ritratto-come-maschera/
Triulzi A., Lo sguardo coloniale. Appunti sulla costruzione dell’altro nella collezione fotografica della Società africana d’Italia, in: C. Pasquinelli, Occidentalismi, Carocci, Roma, 2005.
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Valentina Richichi, giovane laureata in Beni etnoantropologici presso l’Università degli studi di Palermo, sta conseguendo la laurea specialistica in Antropologia culturale. Si interessa di educazione nelle classi multietniche, di processi migratori e retoriche geopolitiche. Svolge ricerca nel contesto dell’accoglienza ai migranti ed è impegnata in progetti di cooperazione internazionale.
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