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Reati culturalmente motivati in ambito domestico e strategie difensive

 immagine-per-pdp-125-scaleddi Rosa Geraci  

La figura del reato culturalmente motivato nella società multiculturale 

L’arrivo in Italia di persone provenienti da Paesi spesso lontani, portatori di valori religiosi e culturali differenti dai nostri, pone l’esigenza di armonizzare e conciliare le diversità al fine di realizzare l’integrazione e arginare il rischio di una conflittualità che possa tradursi in disparità di trattamento sia culturali che sotto il profilo dell’esercizio della libertà religiosa [1]. Siffatta necessità involge fede, cultura e diritto, e impone che quest’ultimo sia elastico per venire incontro a quei comportamenti religiosi/culturali che possono avere anche rilevanza penale (c.d. cultural offences o culturally motivated crimes), per verificare la loro compatibilità con i principi giuridici assiologicamente fondanti e irrinunciabili che costituiscono il “cemento etico” della nostra compagine sociale.

All’apertura multiculturalista di un ordinamento conseguono sovente ampi spazi di scriminabilità dei comportamenti, sorretti da un fattore culturale e religioso, anche se ritenuti penalmente rilevanti, ovvero accade che a un’opzione multiculturalista si leghi un’ineliminabile dimensione conflittuale rispetto alla quale il ruolo del diritto, fuori dalla modalità repressiva, deve abdicare o è inefficace [2].

Invero, come si è osservato, 

«L’identità comporta la differenziazione. La differenziazione implica la comparazione, ossia l’identificazione degli aspetti in base ai quali il “nostro” gruppo differisce dal “loro”. La comparazione, a sua volta, genera la valutazione […] L’egotismo di gruppo porta alla giustificazione: le nostre logiche sono migliori delle loro. Poiché i membri dell’altro gruppo sono impegnati in un processo analogo, le giustificazioni in conflitto innescano la competizione. Dobbiamo dimostrare la superiorità delle nostre logiche rispetto alle loro. La competizione porta all’antagonismo e alla “dilatazione” di quelle che inizialmente apparivano divergenze limitate, che diventano così più intense e radicali. Si creano degli stereotipi, l’avversario viene demonizzato, l’altro si tramuta in nemico» [3]. 

2A tal proposito, è bene chiarire la definizione di “reato culturalmente motivato”. Parte della dottrina, nell’occuparsi della criminalità cd. culturale, ha accolto una nozione di reato culturalmente motivato fondata sul concetto di cultura riferibile a «gruppi socio-politici costituiti da un numero rilevante di individui, che condividono una lingua comune e che hanno un legame con un territorio geografico di regola di ampie dimensioni» [4]. Altra parte della dottrina si è invece concentrata sui problemi relativi alla collocazione sistematica e al trattamento sanzionatorio del fatto culturalmente motivato. Quest’ultimo indirizzo interpretativo identifica il reato culturalmente motivato in «un comportamento, realizzato da un soggetto appartenente a un gruppo etnico di minoranza, che è considerato reato dalle norme del sistema della cultura dominante; lo stesso comportamento, nella cultura del gruppi di appartenenza dell’agente, è invece condonato, accettato come normale, o è approvato o, in determinate situazioni, è addirittura imposto» [5]. Secondo questa impostazione, «l’istituto dell’ignoranza inevitabile si mostra capace di offrire un adeguato e corretto inquadramento per numerosi casi di reato ‘culturalmente motivato’» [6].

Questa opzione, in particolare, ha suscitato un ampio dibattito tra gli antropologi o i giuristi di impostazione antropologica, refrattari all’uso del concetto di “etnia”, compreso nel sintagma “gruppo etnico minoritario”. Il termine “etnico”, infatti, può rappresentare una qualificazione ingombrante, eccepibile dal punto di vista epistemologico, in quanto l’uso corrente dei termini afferenti all’area semantica “etnia” si riconduce alla relazione che la retorica statale relativa all’identità nazionale stabilisce più o meno impropriamente tra “etnìa” e “nazione”, tra “etnia” e “razza”, tra “etnia” e “cultura” [7]. Il concetto di “razza”, privo di rango scientifico ed evocativo di vicende di discriminazione e di esclusione, storicamente culminate nella negazione della diversità, fonda il suo utilizzo sull’implicita associazione all’idea di una nazionalità dominante prevalente all’interno di uno Stato o alla contrapposta idea di nazionalità minoritarie o di culture minoritarie [8].

È evidente che entrambe le opzioni interpretative pongono al centro una condotta che viene considerata reato nell’ordinamento della società di maggioranza, ma, al contempo rappresenta un comportamento approvato, condonato o prescritto nel sistema giuridico di provenienza del “soggetto agente”, consistendo, spesso, in una pratica di carattere culturale o religioso. Questa categoria di reato poggia pertanto sull’antinomia tra due norme aventi il medesimo destinatario: una norma di diritto penale, vigente in un determinato Stato, che incrimina una certa condotta, da un lato, e una norma propria del gruppo di appartenenza del soggetto, che nello Stato di provenienza di quest’ultimo può avere il rango di norma giuridica, dall’altro.

È bene evidenziare che l’associazione tra l’istanza multiculturalista e i reati culturalmente motivati sconta il riflesso del discorso “multicultifobico” che ha ribadito con forza, anche in relazione a Paesi estranei a multicultural policy choices, la necessità di superare gli effetti disgreganti e marginalizzanti del multiculturalismo verso un’era ‘postmulticulturalista’. Il multiculturalismo, allora, inteso secondo un approccio culturalizzante come ostinata salvaguardia di pratiche identitarie, diventerebbe una prerogativa del diritto penale [9]. 

IL ROVESCIO DEI DIRITTI UMANI. Razza, discriminazione, schiavitu'I reati culturalmente motivati come categoria eterogenea e il principio di offensività 

La categoria dei reati culturalmente motivati non può essere intesa in senso monolitico. Possono essere giudizialmente qualificati come reati culturalmente motivati i delitti contro la vita e la libertà sessuale, la riduzione in schiavitù a danno dei minori, le forme di escissione genitale femminile maggiormente invasive, le condotte consistenti nell’atto di indossare un simbolo religioso come il kirpan per i fedeli di religione sikh o il burqa – e, in certi casi, il “chador” e il “niqab” – per le donne musulmane. Dalla variegata casistica emerge come alla figura del “reato culturalmente motivato” siano riconducibili tanto fatti gravemente offensivi della vita, dell’incolumità o della dignità altrui, spesso commessi in ambito familiare, che comportamenti dall’offensività pressoché nulla o implicanti un “pericolo astratto”.

Un valido strumento interpretativo al fine di comprendere il motivo per cui in alcuni sistemi, alcune condotte vengano ritenute “diritti culturalmente o religiosamente fondati” e non fatti penalmente rilevanti mentre in altri non siano ricondotte all’esercizio di alcun diritto può rinvenirsi nel principio di offensività per cui nullum crimen sine iniuria. Detto principio subordina la sanzione penale all’offesa di un bene giuridico, sotto forma di lesione, intesa come danno effettivo o nocumento potenziale (esposizione a pericolo). La valutazione concreta dell’offensività consentirebbe dunque di circoscrivere i fatti penalmente rilevanti, vietando di incriminare le pratiche religiose o culturali oggettivamente inidonee ad arrecare offesa.

Va però ricordato come un’importante corrente di pensiero, facente capo a Marcello Gallo, ha constatato che il collegamento «tra fatto tipico ed offesa non costituisce (…) una costante riscontrabile in tutti i reati», ma vi sono «illeciti penali in cui la fattispecie è configurata in maniera tale che si può avere una condotta la quale, pur essendo conforme al modello normativo, non arrechi nel caso concreto alcun pregiudizio alla situazione oggetto di tutela» [10]. Secondo questa impostazione, l’art. 49 c.p. non rappresenterebbe un mero doppione negativo del delitto tentato: integrerebbe invece una norma-base dell’ordinamento, che legittimerebbe nel nostro sistema la concezione realistica dell’illecito, in base alla quale ogni comportamento, per essere considerato reato, deve sostanziarsi nella effettiva lesione del bene tutelato [11]. La rilevanza pratica del principio di offensività si manifesterebbe in tutte quelle ipotesi in cui non vi è coincidenza tra tipicità ed offesa dell’interesse tutelato. In altre parole, qualora vengano poste in essere delle condotte che da un punto di vista formale integrano la fattispecie incriminatrice, ma sotto il profilo sostanziale non sono in grado di scalfire il bene giuridico, la disposizione di cui all’art. 49 comma 2 c.p. darebbe cittadinanza alla concezione realistica, che conduce ad escludere la punibilità del fatto [12].

Questa teoria è stata sottoposta ad un fuoco di obiezioni, alcune delle quali particolarmente convincenti. In particolare, il dato che l’art. 49, 2 «non concorra in alcun modo ad erudirci sulla natura degli interessi tutelati» [13] rende indispensabile il ricorso agli elementi descrittivi del modello legale per individuare il bene protetto. A questa stregua, la contraddizione in cui tale teoria incappa diventa palese: «se l’interesse tutelato deve essere dedotto dall’intiera struttura della fattispecie», come dicono i suoi sostenitori, «riesce difficile immaginare un fatto conforme a quest’ultima e non lesivo del primo» [14].

La giurisprudenza ordinaria, di merito e di legittimità, ha infatti più volte ribadito come «la norma dell’art. 49, 2° comma, c.p., lungi dal porsi in funzione di limite negativo della fattispecie di delitto tentato, (…) affermi il principio dell’offensività del reato (che ne concretizza la concezione realistica), per cui non è punibile (…) il comportamento conforme alla fattispecie legale penale, che tuttavia non manifesta obiettivamente, nel caso concreto l’attitudine causale a ledere o porre in pericolo il bene giuridico protetto» [15]. Il principio di offensività non solo costituisce un vincolo insuperabile per il legislatore ma deve altresì rappresentare un canone ermeneutico per l’interprete, cui spetta l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della singola condotta. Inoltre, uno sguardo interdisciplinare sul sistema giuridico di provenienza della persona “incriminata” condurrebbe più agevolmente a valutare quali situazioni soggettive potrebbero essere tutelate a mezzo di soluzioni accomodative. In questo approccio, l’interdisciplinarietà potrebbe consentire una protezione giuridica più efficace e contribuirebbe a disarticolare il monolitismo della categoria dei reati culturalmente motivati.

Decisivi sulla questione, sono stati però gli interventi della Corte Costituzionale, che con grande limpidezza ha affermato la necessità che il fatto storico presenti una dimensione concreta di offensività [16]. Ciononostante, nel nostro Paese mancano istituti di diritto penale ad hoc allo scopo di scriminare condotte culturalmente o religiosamente motivate o che prevedano un trattamento sanzionatorio attenuato; questo fattore accresce i margini della discrezionalità giudiziale rispetto ai fattori culturale o religioso. Accade, infatti, che laddove il fatto criminoso comporti la lesione di diritti fondamentali, gli organi giudiziari escludano la rilevanza del fattore culturale o la sussumano entro una circostanza aggravante o entro una diversa qualificazione dell’elemento soggettivo del reato. Per converso, laddove il reato non è tale da ledere o mettere in pericolo un bene giuridico, gli orientamenti giudiziali non sono costanti. In base alle indicazioni della Corte Costituzionale, sarà allora compito del giudice ordinario accertare l’offensività in concreto del comportamento del soggetto attivo, valutando se le modalità di realizzazione della sua condotta sono state di fatto inidonee a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, pur senza intaccare la conformità al modello legale tipizzato dalla fattispecie [17]. In questo contesto, l’accertamento in concreto dell’offensività della singola condotta, secondo un’istanza di giustizia, escluderebbe l’incriminazione di fatti materiali non offensivi, evitando in queste ipotesi lo svolgersi di condanne e gravose vicende giudiziarie [18]. 

3Sulla nozione e collocazione sistematica della cultural defense 

La cultural defense identifica una causa di esclusione o di diminuzione della responsabilità penale, che può essere invocata dal soggetto appartenente ad una minoranza etnica con cultura, costumi e usi diversi, o addirittura contrastanti con quelli della cultura del sistema ospitante [19]. Per far valere la defense, l’agente deve dimostrare che «il comportamento illecito è stato realizzato nel ragionevole convincimento di agire in buona fede, basata sulla sua eredità o tradizione culturale» [20]. La dottrina distingue tra cultural defense cd. cognitiva e cultural defense cd. Volitiva [21]. La prima emergerebbe quando il retroterra culturale dell’agente gli impedisce di capire che il suo comportamento integra un reato; la seconda invece quando il soggetto agisce pur nella consapevolezza del fatto che le sue azioni sono vietate dalla criminal law dominante, in quanto costretto dalla forza imperativa della sua cultura d’origine.

La teoria delle cultural defenses mira inequivocabilmente ad ampliare il novero delle excuses volte a scriminare quelle condotte, altrimenti criminose, che trovano spiegazione nelle pressioni dell’ambiente e che hanno origine nella “società malata” [22]. Per esemplificare, basti pensare a: la defense costruita sulla “sindrome della donna maltrattata” (battered woman syndrome), quella applicabile al soggetto con “retroterra sociale deteriorato” (rotten social background), quella che riguarda l’imputato in stato di dipendenza da stupefacenti (addiction) [23].

Le excuses «sono riconosciute [dall’ordinamento] perché vi è l’esigenza di rendere giustizia al soggetto che ha realizzato l’illecito, anche se ciò ha un costo per l’utilità sociale» [24]. Esiste, in particolare, una connessione forte tra le excuses e il sentimento della “compassion” tale per cui l’esistenza di un’excuse comporta l’esclusione della punibilità dell’agente «nonostante il pericolo che egli può rappresentare per noi e nonostante egli abbia realizzato un illecito» [25]. Si pensi all’istituto della coazione (duress): in questa situazione, evidenzia Dressler, «sentiamo un collegamento forte con l’agente costretto a commettere il reato. Egli è considerato come una persona normale in una situazione anormale. La sua debolezza è la nostra debolezza. Ci sembra impossibile scinderci da lui. (…)» [26]. La compassion è dunque intimamente correlata con la ratio delle excuses. «L’excuse dimostra che siamo umani, che possiamo sentirci uniti alla persona che ci ha fatto del male» [27].

Vi è comunque un altro motivo, secondo la letteratura, alla base della proliferazione di new excuses nel sistema: la constatazione che molti criminali hanno sperimentato vite eccezionalmente dure. «Gli abusatori spesso sono stati bambini abusati; donne che hanno ucciso i loro mariti sono state da loro maltrattate; altre persone hanno commesso reati dopo un trauma ‘psicologico ‘generalmente fuori dall’ambito della normale esperienza umana’» [28]. L’emersione di nuove excuses rappresenterebbe, dunque, secondo alcuni, una sorta di compensazione, che il sistema riconosce all’offender per non essere riuscito a disinnescare le fonti del conflitto. Non sono mancate le opinioni contrarie di chi, invece, attacca le new excuses identificandole come una volgare “licenza ad uccidere” [29], ovvero come una “moderna forma di giustizia privata” [30]; «il sintomo di un’abdicazione generale della responsabilità da parte di individui, famiglie, gruppi e anche dallo Stato» [31].

Sembra ragionevole ritenere che l’emersione di new excuses, lungi dal costituire il frutto di un’aberrazione dottrinale, sia il frutto di un felice incontro tra la teoria e le nuove scoperte della scienza, da cui risulta l’influenza delle condizioni sociali sul comportamento criminale dell’individuo [32]. 

12Violenze e maltrattamenti nel contesto familiare 

Un precetto di matrice religiosa può, talora, indurre il genitore a violare o trascurare i doveri inerenti alla potestà sui figli o ad abusare dei relativi poteri o, addirittura, a porre in essere atti pregiudizievoli sia verso l’altro coniuge che verso la prole [33]. Nel silenzio della legge, la Corte di Cassazione, in tema di maltrattamenti in famiglia, ha affermato il principio per cui «l’assunto difensivo, secondo cui l’elemento soggettivo del delitto de quo sarebbe escluso dal concetto che l’imputato, quale cittadino di religione musulmana, ha della convivenza familiare e delle potestà anche maritali a lui spettanti quale capo-famiglia, non è in alcun modo accoglibile, in quanto si pone in contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali» [34]. È stato anche osservato che le «convinzioni religiose dei mariti sono ininfluenti quando si tratta di giudicare i loro comportamenti» [35]. Una violenza familiare che sfocia nella lesione dei diritti fondamentali della persona determina, quindi, la responsabilità dell’autore del delitto anche quando essa sia stata compiuta al fine di imporre il rispetto delle regole prescritte dalla religione di appartenenza [36].

Negli ultimi anni si è registrato un processo di accettazione delle diversità religiose e dei particolarismi culturali, nel quale troverebbe affermazione la c.d. “cultura della tolleranza” [37]. A tale riguardo, appare significativo l’art. 27 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in base al quale «negli Stati in cui vi sono minoranze etniche, religiose o linguistiche, le persone appartenenti a queste minoranze non possono essere private del diritto di avere, in comune con gli altri membri del loro gruppo, la propria vita culturale, di professare e praticare la loro religione, di utilizzare la loro lingua» [38], sempre che il loro comportamento e le loro consuetudini non siano contrastanti con i diritti fondamentali della persona e con i principi cardine dell’ordinamento giuridico nazionale intriso di democrazia.

Restando in tema di violenze e comportamenti prevaricatori nel contesto familiare, oltre al reato di maltrattamenti, è stato riconosciuto anche il reato di abuso di correzione o di disciplina ex art. 571 c.p. a carico del padre che costringeva fisicamente il figlio a scontare per punizione una condotta «degradante, umiliante, contraria a qualsiasi cultura o religione»[39], compresa quella islamica a cui appartiene il genitore.

Nella giurisprudenza italiana, inoltre, non sono mancati casi concernenti i delitti contro la libertà sessuale delle vittime, in genere tutte adolescenti, donne [40] e mogli, nei quali l’imputato ha sempre invocato a giustificazione della propria condotta norme vigenti nel suo ordinamento d’origine circa i rapporti sessuali tra un uomo e una donna. La difesa del marito si basava, principalmente, su tre assunti: primo, violazione della legge che regola il sistema italiano di diritto internazionale privato (art. 29, l. n. 218/1995); secondo, ignoranza inevitabile della legge penale e mancanza del dolo generico; e terzo, mancato riconoscimento dell’attenuante della provocazione (art. 62, n. 2, c.p.). Ciononostante, la Corte, in linea con la posizione recentemente assunta dalle istituzioni europee [41], respinse tutti e tre i motivi, in primo luogo perché «le circostanze invocate con il ricorso […] non sono assolutamente idonee a dimostrare, da un lato, la mancanza di dolo generico e, dall’altro, la assoluta inevitabilità della ignoranza della legge penale italiana». L’imputato, infatti, non avrebbe adempiuto, con il criterio della ordinaria diligenza, al dovere di informazione, ossia all’obbligo di espletare ogni utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente. Secondariamente, «non può considerarsi fatto ingiusto, e quindi provocazione, il rifiuto del coniuge di intrattenere rapporti sessuali, ciò costituendo pur sempre espressione della libertà di autodeterminazione, che non può mai essere conculcata, anche se può costituire violazione degli obblighi assunti con il matrimonio» [42]. 

9788814130588_0_424_0_75Cultural offences e asetticità del legislatore italiano: il delitto di mutilazione genitale femminile 

Altro settore in cui si manifesta una conflittualità tra diritto oggettivo e imperativo religioso è rappresentato dall’osservanza di prescrizioni e pratiche di culto, che tendono a menomare l’integrità fisica o psichica del fedele. Per anni la monoculturalità del nostro tessuto sociale si è riflettuta sulla struttura del codice penale, in cui sono assenti norme aperte al riconoscimento di altre strutture etniche. Questa asetticità di fronte alle diversità etnico-culturali emerge chiaramente dalla Relazione del Re, presentata per l’approvazione del codice penale ove si sottolinea, nelle considerazioni generali «l’unità non solo sociale, ma altresì etnica, legata da vincoli di razza, di lingua, di costume, di tradizioni storiche, di moralità, di religione (…)» [43], che caratterizza lo Stato italiano. Solo recentemente l’omogeneità etnica del nostro sistema ha cominciato a mostrare serie incrinature [44]: da pochi anni, infatti, importiamo immigrati e ci imbattiamo – per dirla come Sartori – in contronazionalità soprattutto di origine musulmana [45].

L’ideologia multiculturalista ha cominciato a diffondersi già dagli anni settanta conducendo, nella sua versione più estrema e radicale, a manifestazioni di vera e propria celebrazione della diversità e di critica dell’etnocentrismo. L’attenzione dottrinale si concentra sempre di più sul particolarismo e sulla dimensione etnica, fino a giungere all’affermazione “we are all multiculturalists now[46]. La letteratura sociologica indica in modo impeccabile i fattori di questa rivoluzione culturale, segnalando, innanzitutto l’impatto con le nuove ondate di immigrazioni. Ciononostante, la risposta del sistema giuridico italiano allo scontro di culture dovuto all’impatto dell’immigrazione è stata di chiusura secca, come emerge dall’introduzione, nel nostro Codice penale, del delitto di mutilazione genitale femminile [47].

Da quasi trent’anni i movimenti femministi e gli esponenti delle organizzazioni a tutela dei diritti umani si battono per l’eliminazione del rito dell’“ablazione dei genitali femminili”, una pratica antichissima realizzata non per necessità terapeutica, ma per motivi culturali o religiosi, sia in società islamiche che in comunità non musulmane [48]. La letteratura usa termini diversi per indicare questa usanza. Dal termine omnicomprensivo “ablazione genitale femminile”, neutro sul piano valutativo, si passa infatti al concetto più specifico di “circoncisione femminile”, per finire con il termine più crudo “mutilazione genitale femminile”. Ed è quest’ultima la definizione prescelta dall’OMS, che inserisce nella categoria delle MGF tutte le procedure che comportano la rimozione totale o parziale degli organi genitali femminili esterni, nonché ogni altra lesione prodotta a questi organi per motivi culturali, religiosi e comunque non terapeutici [49].

Leggi specifiche tese a bloccare o a contenere il fenomeno sono state introdotte in alcuni Paesi dell’Africa, in cui tradizionalmente le MGF sono eseguite [50]; analoghi provvedimenti sono stati adottati dai vari sistemi occidentali intra ed extraeuropei, in seguito all’intensificarsi dei flussi migratori [51]. Nel solco di questi provvedimenti è stata varata la legge italiana del 9 gennaio 2006 n. 7, che contiene le “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile”, il cui art. 1, specificando le finalità della legge e definendo le pratiche di MFG come «violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine», non sembra considerare che la MGF possa essere il frutto di un’adesione libera e volontaria di una donna adulta alla cultura d’origine, né che il diritto alla cultura rientri nel novero dei diritti fondamentali. Notevoli le criticità della normativa anche sotto l’aspetto sanzionatorio. L’art. 6 introduce nel nostro Codice all’art. 583 bis il delitto di “pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili” che, al primo comma, punisce, con la reclusione da quattro a dodici anni la condotta di «chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili» e specifica i comportamenti con cui si può realizzare la MGF.

La norma tuttavia, è bene rilevare, è lungi dal colmare una lacuna legislativa; si consideri, infatti, che le condotte di MGF ben avrebbero potuto essere sussunte nella disposizione di cui all’art. 583 c.p., che disciplina il reato di lesioni gravi o gravissime. In particolare, suscita perplessità l’ipotesi prevista al secondo comma, che prevede la condotta meno grave di «chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate dal primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente», punita con la reclusione da tre a sette anni nell’ipotesi base e con la diminuzione fino a due terzi se la lesione è di lieve entità. Questa disposizione rischia di rimanere lettera morta, essendo il dolo specifico che la qualifica molto difficile da provare. A complicare la situazione contribuisce anche il fatto che la giurisprudenza, pur a fronte di chiari casi di conflitto culturale, non abbia mai adoperato il concetto di reato culturalmente motivato, sicché la sua demarcazione non può dirsi giurisprudenzialmente delineata. 

Kirpman

Kirpan

Il porto del Kirpan nella giurisprudenza italiana

La giurisprudenza italiana sul porto del kirpan rappresenta un ambito utile per scandagliare la categoria dei reati culturalmente orientati in prospettiva pluralistica, prendendo ad esame condotte che potrebbero considerarsi espressione della libertà religiosa ma, tuttavia, perseguite e sussunte entro fattispecie di reato. L’atto di portare un kirpan in Italia è stato colonizzato dal diritto penale ove l’uso del termine “porto” incorpora il concetto penalistico del “portare un’arma”, dell’avere con sé, in luogo pubblico o aperto al pubblico, un’arma immediatamente disponibile e pronta per essere usata in modo rapido e immediato per recare offesa alla persona e per difendersi. Dunque, quando il credente sikh porta il pugnale sacrale fuori dalla propria abitazione o dalle sue pertinenze è perseguibile per il reato di “Porto di armi od oggetti ad offendere” ai sensi dell’art. 4 della legge n. 110 del 1975 [52], ove il kirpan venga riconosciuto come arma impropria, oppure ai sensi dell’art. 699, secondo comma, c.p rubricato “Porto abusivo d’armi” [53], se ritenuto un’arma propria [54].

Nella religione Sikh, il kirpan è un simbolo religioso che consente a chi lo indossa di realizzare l’unione di sé con la divinità e di portare a compimento la propria individualità. Pertanto, la funzione del pugnale sacrale, non è ovviamente quella di offendere alcunché, ma di consentire al credente sikh di esprimere un’identità religiosa. La matrice religiosa del “porto” del kirpan è stata riconosciuta dalla giurisprudenza di merito [55] ma non dalla giurisprudenza di legittimità che, nel rilevare come «è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale» sembra suggellare la chiusura dell’ordinamento giuridico italiano di fronte al sikhismo[56].

Il caso da cui muove la vicenda giudiziaria, sfociata nella pronuncia del 2017, riguardava Jatinder Singh, un ragazzo di confessione religiosa sikh che si era opposto alla richiesta della polizia locale di consegnare il kirpan portato alla cintura, spiegando, al momento dell’arresto, che l’atto di indossare il pugnale sacrale integrava l’esercizio di una pratica religiosa che, per il credente, non poteva considerarsi facoltativa. Con sentenza pronunciata il 5 febbraio 2015, il giudice di primo grado aveva condannato il giovane alla pena di 2.000,00 euro di ammenda per il reato di cui all’art. 4 della legge n. 110 del 1975, perché «portava fuori dalla propria abitazione senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di 18,5 centimetri idoneo all’offesa per le sue caratteristiche». La questione giunse fino in Cassazione, orientata nel collocare la condotta nel quadro di una incontestata incriminabilità, traducendo l’atto di indossare il kirpan nel comportamento costituito dal “porto di un coltello”.

Uno dei profili di interesse della decisione di legittimità si riscontra nel fatto che alla ricostruzione della fattispecie concreta, non si accompagna nella parte in diritto nessuna precisazione relativa alla circostanza che la particolare modalità con cui Singh Jatinder portava su di sé il pugnale sacrale riflettesse una prima soluzione di “accomodation”, spontaneamente praticata dalla comunità sikh italiana, ovvero il porto del pugnale sacrale sotto la cintura al fine di impedirne l’estraibilità. La Corte invoca a sostegno della propria decisione il principio secondo cui «il giustificato motivo di cui all’art. 4 L. 110 del 1975 ricorre quando le esigenze dell’agente siano corrispondenti a regole relazionali lecite rapportate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi di accadimento del fatto e alla normale funzione dell’oggetto». Il collegio giudicante esclude la rilevanza e, prima ancora, il “valore” della motivazione religiosa.

Invero, sembrerebbe ragionevole ricondurre il caso di specie alla categoria dei “reati culturalmente motivati” che imporrebbe all’organo giudicante di riconsiderare gli indici giurisprudenziali ordinari alla luce del singolo agente. Nella commentata controversia la Cassazione escludeva la sussistenza di una “scriminante culturale” e richiamava l’articolo 2 della Carta costituzionale per ascrivere una pratica religiosa non offensiva a una fattispecie di reato ed escludere che la norma potesse fondare il riconoscimento dell’esercizio della libertà religiosa e fungere da piattaforma costituzionale di partenza nella tutela del pluralismo. Risulta, pertanto, inderogabile per l’immigrato conformarsi ai valori del mondo occidentale in cui ha deciso di integrarsi, verificando preliminarmente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che regolano l’ordinamento giuridico occidentale [57] 

14Cultural offences e giurisprudenza statunitense (cenni) 

Un osservatorio privilegiato per lo studio dei reati culturalmente motivati è costituito dagli Stati Uniti, la cui composizione sociale multietnica ha avuto un impatto dirompente anche sul sistema penale. Gli Stati Uniti d’America rappresentano «la società multiculturale per eccellenza» [58], in virtù del fatto che, praticamente fin dall’origine di tale società, all’interno del medesimo territorio convivono etnie differenti, le quali costituiscono un eterogeneo corpus sociale.

In ambito penalistico il dibattito si è sviluppato mettendo a fuoco il fenomeno dei c.d. “reati culturali (cultural offences)” o “reati culturalmente motivati (culturally motivated crimes)”, cioè di quei comportamenti considerati reato dalla legge vigente di un Paese, ma commessi da soggetti, membri di gruppi etno-culturali di minoranza, nella convinzione della loro liceità o della loro minore illiceità, in quanto quei medesimi comportamenti, nel sistema etno-culturale d’origine, sono condonati, accettati come normali, approvati o addirittura incoraggiati [59].

È di matrice dottrinale e giurisprudenziale l’elaborazione della nozione di cultural defense, con cui si intende un «argomento che l’imputato può addurre a propria difesa per confutare l’accusa mossa a suo carico» [60]. Nello specifico, la cultural defense configura un “argomento” di difesa, fondato sulla diversità culturale dell’imputato e sul conseguente presupposto che la sua cultura abbia esercitato un’influenza, giuridicamente apprezzabile, sulla condotta realizzata, tale da poter attenuare, se non elidere, la responsabilità per il reato commesso. L’idea di fondo della cultural defense è, infatti, quella di valutare il reato culturalmente motivato anche alla luce della cultura dell’imputato, l’apprezzamento della quale può eventualmente condurre, in sede processuale, all’esclusione o all’attenuazione della sanzione penale [61].

Protagoniste dell’impatto tra culture diverse negli ultimi anni sono in particolar modo negli Stati Uniti le comunità asiatiche, che in seguito ai continui flussi migratori rappresentano la maggioranza della popolazione sul piano numerico [62]. Questi gruppi hanno usi, costumi e tradizioni particolari, per molti versi in contrasto con la criminal law americana. È così sorto il problema di come bilanciare gli interessi in conflitto tra l’ordinamento “ospitante” e quello “ospitato”. Di fronte a questo vero e proprio scontro ideologico, le Corti americane hanno optato per un modello intermedio di controllo della criminalità cd. culturale: ed è allora che si afferma nelle aule di giustizia la tattica della cultural evidence: una strategia processuale, che vuole tenere in considerazione la diversità culturale, senza però scardinare e stravolgere i principi su cui si fonda il diritto penale.

Attraverso questa tattica processuale il fattore culturale può, innanzitutto, essere fatto valere per far emergere l’esistenza di una defense tradizionale (insanity defense, diminished capacity, mistake of fact). Ad esempio, l’imputato può dimostrare che i suoi valori culturali sono talmente distanti da quelli della cultura del sistema di accoglienza da fargli mancare «la capacità sostanziale o di comprendere l’illiceità della sua condotta, o di conformare il suo comportamento alle disposizioni di legge» [63]. La cultural evidence può in concreto agire anche come una circostanza attenuante, perché ritenuta rilevante dal prosecutor nel momento dell’accusa o nella fase del plea-bargaining [64]. Infine, i fattori culturali possono incidere nel sentencing, condizionando in modo consistente, la determinazione della pena [65]. 

15Mediazione culturale di matrice giurisprudenziale e causa di non punibilità “culturale” 

Fin qui è emerso come anche in Italia, alla stessa stregua delle altre Nazioni, si avverte la necessità di garantire un’adeguata integrazione degli immigrati nel tessuto sociale ed economico del Paese [66]. Stando alle indagini criminologiche, infatti, l’emarginazione sociale ma soprattutto la diversità culturale dei cittadini extracomunitari, per la maggior parte proveniente dal Nordafrica, dal mondo arabo e dall’Albania [67], producono talvolta fenomeni di criminalizzazione basati su un conflitto tra valori della propria società e quelli imperanti in Italia [68].

La lentezza del legislatore nell’affrontare le rivendicazioni multiculturali ha tuttavia determinato una fuga dalla legislazione e la ricerca nelle aule giudiziarie di soluzioni immediatamente spendibili. Da questo punto di vista, «la giurisdizione è sembrata costituire un varco più accessibile per istanze nuove come quelle multiculturali, dimostrando di avere a disposizione mezzi più adeguati per intercettare e recepire domande sociali diversamente estromesse dai luoghi decisionali» [69]. In un simile scenario, il giudice riesce meglio di altri a svolgere, nel contempo, la funzione di mediatore culturale e di elemento di integrazione delle differenze [70]. Ciononostante, il futuro legislatore, non potendo rimanere insensibile al carattere multietnico e multiculturale della società odierna, non potrà che affrontare in modo ragionevole il problema dei conflitti culturali, trovando giustificazioni politico-criminali che concedano qualche spazio di apertura nei confronti delle culture “altre”. Al riguardo, si può ipotizzare una nozione molto ristretta di reato culturalmente motivato, centrata su una definizione circoscritta di cultura da intendersi nella sua accezione etnica [71]. Una costruzione del genere postula che il diritto alla cultura debba soccombere qualora entri in conflitto con le “immunità fondamentali”.

È di palmare evidenza come, nel settore dei reati culturalmente motivati – una peculiare tipologia di delitti, costruita sulla connessione specifica tra cultura del singolo e cultura del gruppo etnico di riferimento – la prevenzione nei suoi significati più tradizionali sia destinata irrimediabilmente a perdere funzionalità. Pertanto, si rivela necessario studiare nuove forme di prevenzione, che siano in grado sia di prevenire la recidiva, che di promuovere l’inserimento degli autori culturali nel contesto del sistema di accoglienza [72].

Il terreno più fertile per intervenire sul fattore culturale sembrerebbe essere costituito dalla categoria della punibilità, non sufficientemente valorizzata nel nostro sistema giuridico. L’utilizzo atecnico dell’espressione “non punibilità” ha costituito l’oggetto di un dibattito dottrinale che ha evidenziato come l’art. 59 del codice penale, quando parla di “circostanze di esclusione della pena”, colloca promiscuamente le ipotesi più disparate di cause di non punibilità: le scriminanti, le cause di esclusione della colpevolezza, le cause di non punibilità in senso stretto. Sarebbe auspicabile un intervento del Legislatore che attraverso l’introduzione di una causa di non punibilità ritagliata sull’autore culturalmente motivato manifestasse la tolleranza dell’ordinamento nei riguardi dei gruppi di minoranza.Una causa di non punibilità siffatta potrebbe sortire l’effetto di riassestare gli equilibri tra i vari gruppi etnici che compongono la società multiculturale e arginare i conflitti sociali [73]. Si consideri, inoltre, che una causa di non punibilità costruita sull’autore culturale, vista la sua natura giuridica di fattispecie eccezionale, non sarebbe estensibile analogicamente; inoltre non sarebbe comunicabile ai compartecipi e l’eventuale errore, cadendo su un fattore esterno al reato, non potrebbe essere valutato a favore dell’agente.

16Concludendo, la causa di non punibilità “culturale” dovrebbe presentare le seguenti caratteristiche:

- dovrebbe trattarsi di una causa di esclusione della pena personale, costruita sulla figura dell’autore del reato culturalmente motivato;

- la nozione di reato culturalmente motivato deve essere modellata sull’elemento normativo extragiuridico “cultura”, da concepirsi in modo limitato;

- il comportamento posto in essere non deve violare le c.d. immunità fondamentali;

- il modello culturale del gruppo etnico di riferimento dell’autore deve essere ragionevole.

In questo modo si darebbe concreta attuazione al principio costituzionale di uguaglianza che, lungi dal fondarsi sulla negazione aprioristica delle differenze, si basa sul loro riconoscimento, trovandovi le sue articolazioni concrete. Se il principio di uguaglianza viene interpretato alla luce della necessaria protezione dei diritti fondamentali in generale e in particolare del diritto di ognuno alla propria identità etnico-culturale, non solo esso non impone la cancellazione delle differenze culturali, ma ne richiede il riconoscimento e la protezione. Pertanto, la considerazione di una causa di non punibilità a favore dell’autore culturale – nei limiti e alle condizioni prima precisate – risulta essere uno strumento possibile e opportuno per far conseguire visibilità al diritto di ciascuno alla propria identica etnico-culturale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Note
[1] Sulla problematica si veda: EMANUELE SEVERINO, La ragione, la fede, Alboversorio, Milano, 2009: 20 ss.; STEFANO SICARDI, Questioni aperte nella disciplina del fenomeno religioso: dalla laicità al sistema delle fonti, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2005, I: 3-29; ANDREA BETTETINI, Religione, diritto canonico e diritto politico in una società dopo-moderna, in Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano, a cura di GIOVANNI B. VARNIER, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004: 163 ss.; FRANCESCO FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, Zanichelli , Bologna, 2003: 68 e 128; MARIA LUISA LO GIACCO, Libertà religiosa e circolazione dei modelli giuridici. Il disegno di legge italiano sulla libertà religiosa, in Dalla legge sui culti ammessi al progetto di legge sulla libertà religiosa (1 marzo 2002), a cura di GIUSEPPE LEZIROLI: 263-264; GIOVANNI BARBERINI, Lezioni di diritto ecclesiastico, 2ª ed., Giappichelli, Torino, 2001: 39; GAETANO DAMMACCO, Diritti umani e fattore religioso nel sistema multiculturale euromediterraneo, Cacucci, Bari, 2000: 44; SILVIO FERRARI, La nozione giuridica di confessione religiosa (come sopravvivere senza conoscerla), in Principio pattizio e realtà religiose minoritarie, a cura di VITTORIO PARLATO, GIOVANNI BATTISTA VARNIER, Giappichelli, Torino, 1995: 19-47; GIOVANNI BATTISTA VARNIER, Le problematiche del rapporto Stato-minoranze confessionali, in Normativa ed organizzazione delle minoranze confessionali in Italia, a cura di VITTORIO PARLATO, GIOVANNI BATTISTA VARNIER, Giappichelli, Torino, 1992: 7-8; ARTURO CARLO JEMOLO, Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni, Giulio Einaudi, Torino, 1971: 330 ss.
[2] «I conflitti culturali sono il risultato naturale di un processo di differenziazione sociale, che produce un’infinità di raggruppamenti sociali, ciascuno con la propria impostazione o situazione di vita, la propria interpretazione delle relazioni sociali, la propria ignoranza o interpretazione sbagliata dei valori sociali degli altri gruppi. La trasformazione di una cultura da un modello omogeneo e ben-integrato ad un modello eterogeneo non-integrato è perciò accompagnata da un aumento delle situazioni conflittuali. Viceversa, le operazioni connesse ad un processo di integrazione porteranno ad una riduzione delle situazioni conflittuali». Cfr. THORSTEN SELLIN, Culture Conflict and Crime, in Am. Jour. Soc., 1938: 64 ss.; ID., The Conflict of Conduct Norms, in WOLFGANG – SAVITZ – JOHNSTON (a cura di), The Sociology of Crime and Delinquency, 2nd ed., 1970: 188 ss. Secondo Sellin, questi conflitti si distinguono in due categorie: quelli primari emergono fra due culture diverse, quelli secondari si verificano nella stessa cultura. Questi ultimi hanno luogo quando, con il passaggio della società dal semplice al complesso, cresce la differenziazione sociale e si moltiplicano le sottoculture. I conflitti primari, invece, possono esplodere “quando l’oriente e l’occidente si incontrano” e si verificano in tre situazioni diverse: (1) quando codici diversi entrano in collisione alla frontiera di aree culturali contigue; (2) quando le leggi di un gruppo vengono imposte ad un altro in seguito ad operazioni di conquista del territorio di quest’ultimo; (3) Infine, il conflitto può realizzarsi quando i membri di un gruppo emigrano in un altro, che ha codici culturali completamente diversi.
[3] SAMUEL P. HUNTINGTON, La Nuova America. Le sfide della società multiculturale, Garzanti, Milano, 2005: 41.
[4] FABIO BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Giuffrè, Milano, 2010: 31 e 40.
[5] CRISTINA DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, ETS, Pisa, 2010: 30.
[6] FABIO BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit.: 405.
[7] ANTHONY D. SMITH, Il revival etnico, Il Mulino, Bologna, 1984: 81; VINCENZO CESAREO, Società multietniche e multiculturalismi, Vita e Pensiero Editrice, Università Cattolica di Milano, 2000: 11; ERIK ALLARDT, Le minoranze etniche nell’Europa occidentale: una ricerca comparata, in Riv. it. sc. pol., 1, 1981: 92 s.
[8] Sull’istituzionalizzazione dei processi discriminatori fondati sul fattore “razziale”, cfr. THOMAS CASADEI, Il rovescio dei diritti umani. Razza, Discriminazione, Schiavitù. Con un dialogo con Étienne Balibar, DeriveApprodi, Roma, 2016; THOMAS CASADEI, LUCIA RE (a cura di), Differenza razziale, discriminazione e razzismo nelle società multiculturali, Diabasis, Reggio Emilia, 2007; THOMAS CASADEI, “Razza”: il ritorno di una categoria controversa? in Iride. Filosofia e Discussione pubblica, Vol. 19, n. 3, 2006: 547-550; KENDALL THOMAS, GIANFRANCESCO ZANETTI (a cura di), Legge, Razza e Diritti, la Critical Race Theorynegli Stati Uniti, Diabasis, Reggio Emilia, 2005; GIANFRANCESCO ZANETTI, Nuove frontiere degli studi sulla razza: una messa a punto concettuale, in Iride. Filosofia e Discussione pubblica, Vol. 19, n. 3, 2006: 551-560; ALBERTO BURGIO, L’invenzione delle razze. Studi su razzismo e revisionismo storico, Manifestolibri, Roma, 1998; ALBERTO BURGIO, Critica della ragione razzista, DeriveApprodi, Roma, 2020; ANNAMARIA RIVERA, Razzismo. Gli atti, le parole, la propaganda, Edizioni Dedalo, Bari, 2020; FABIO BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit: 41-42.
[9] WILL KYMLICKA, Multicultural Citizenship, Oxford University Press, Oxford-New York, 1995, traduzione italiana di GIANCARLO GASPERONI La cittadinanza multiculturale, il Mulino, Bologna, 1995; WILL KYMLICKA, Multiculturalism without Citizenship? in ANNA TRIANDAFYLLIDOU (ed. by), Multicultural Governance in a Mobile World, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2017; WILL KYMLICKA, The Canadian Model of Multiculturalism in a Comparative Perspective, in STEPHEN TIERNEY (ed. by), Multiculturalism and the Canadian Constitution, University of British Columbia Press, 2007; JACOB T. LEVY, The multiculturalism of fear, Oxford University Press, Oxford-New York, 2000; BENJAMIN L. BERGER, RICHARD MOON, (eds.), Religion and the Exercise of Public Authority, Hart Publishing, London-Oxford, 2016; IRENE BLOEMRAAD, Becoming a Citizen, Incorporating Immigrants and Refugees in the United States and Canada, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, California, 2006; VICTOR MUNIZ FRATICELLI, The Distinctiveness of Religious Liberty in RENE PROVOST (ed. by), Mapping the Legal Boundaries of Belonging, Oxford University Press, Oxford-New York, 2014; CHARLES TAYLOR, The Politics of Recognition, traduzione italiana di GIANNI RIGAMONTI, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 1998; MICHAEL TEMELINI, Multicultural Rights, Multicultural Virtues: A History of Multiculturalism in Canada, in STEPHEN TIERNEY (ed. by), Multiculturalism and the Canadian Constitution, University of British Columbia Press, Vancouver-Toronto, 2007. Nel contesto italiano, si vedano: AGATA G. AMATO MANGIAMELI, GUIDO SARACENI, Lo straniero. Multiculturalismo, identità e diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2009; LUCA BACCELLI, I diritti dei popoli, Laterza, Roma-Bari, 2009; FRANCESCO BELVISI, Società multiculturale, diritti, costituzione. Una prospettiva realista, Clueb, Bologna, 2000; FRANCESCO D’AGOSTINO (a cura di), Diritto e multiculturalismo, Aracne, Roma, 2015; ALESSANDRA FACCHI, I diritti nell’Europa multiculturale, Laterza, Roma-Bari, 2004; LAURA M. LANZILLO, Il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari, 2005; B. PASTORE, L. LANZA, Multiculturalismo e giurisdizione penale, Giappichelli, Torino, 2008; FRANCESCO VIOLA, Il ruolo pubblico della religione nella società multiculturale, Vita e Pensiero, Milano, 2002. In campo europeo, si possono vedere, entro un’ampia letteratura: BHIKHU PAREKH, Rethinking Multiculturalism: Cultural Diversity and Political Theory, Harvard University Press, Cambridge, 2000; ANNA TRIANDAFYLLIDOU, TARIQ MODOOD, NASAR MEER (eds.), European Multiculturalisms: Cultural, Religious and Ethnic Challenges, Edimburgh University Press, Edinburgh, 2012; MICHEL WIEVIORKA, Multiculturalism: A Concept to Be Ridefined and Certainly Not Replaced by the Extremely Vague Term of Interculturalism, in Journal of Intercultural Studies, Vol. 33, n. 2, 2012; TARIQ MODOOD, Multiculturalism: A Civic Idea, Cambridge Polity Press, Cambridge, 2013; VARUN UBEROI, TARIQ MODOOD (eds.), Multiculturalism Rethought: Interpretations, Dilemmas and New Directions, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2015.
[10] MARCELLO GALLO, Il dolo. Oggetto e accertamento, in Studi Urbinati, 1951-1952: 269.
[11] GUIDO NEPPI MODONA, Reato impossibile, voce in Nss. dig. it., vol. XIV, 1967: 980; CARLO FIORE, Il reato impossibile, Jovene, Napoli, 1959: 41.
[12] GUIDO NEPPI MODONA, Il reato impossibile, 1965, passim. Sul significato e la vitalità della concezione realistica cfr. MASSIMO DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, CEDAM, PADOVA, 1996: 178 ss.
[13] FEDERICO STELLA, La teoria del bene giuridico e i c.d. fatti inoffensivi conformi al tipo, in RIDPP, 1973:. 28, CRISTINA DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati, cit.: 168.
[14] FEDERICO STELLA, La teoria del bene giuridico, cit.: 30; per analoghe considerazioni, cfr. DOMENICO PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Giuffrè, Padova, 1976: 153 ss.
[15] Cfr. per tutte Cass. sez I, 15 maggio 1989, in Cass. pen., 1991:572 ss. Per una ricostruzione dell’orientamento della giurisprudenza della Corte Costituzionale sul principio di offensività cfr. CARLO FIORE, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione del principio di offensività, in GIULIANO VASSALLI (a cura di), Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, ESI, Napoli, 2006: 91 ss.; GUIDO NEPPI MODONA, Il lungo cammino del principio di offensività, in Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi, Giappichelli, Torino, 2004: 96 ss.
[16] Per una ricostruzione dell’orientamento della giurisprudenza della Corte Costituzionale sul principio di offensività cfr. CARLO FIORE, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione del principio di offensività, cit.: 91 ss.; GUIDO NEPPI MODONA, Il lungo cammino del principio di offensività, cit.: 96 ss. V. anche Corte Cost. n. 62/1986, in Cass. pen., 1986: 1053 ss., con nota di FRANCESCO C. PALAZZO, Ragionevolezza delle previsioni sanzionatorie e disciplina delle armi e degli esplodenti, ivi: 1964 ss.; Corte Cost. n. 957/1988, in Cass. pen., 1989: 186 ss., con nota di FEDERICO SORRENTINO, L’interesse minorile e il principio di offensività nella giurisprudenza costituzionale, ivi. 189.
[17] Si consideri il caso Kargar: si tratta di una questione delicata e complessa perché chiama in causa il problema della possibile violazione dei diritti relativi all’intangibilità del corpo umano: diritti fondamentali della persona che, in caso di conflitto con il diritto alla cultura, prevalgono su quest’ultimo. Invero, il comportamento del padre, appartenente ad un gruppo etnico di origine afgana, che bacia l’organo sessuale del figlio neonato, è astrattamente riconducibile, nel nostro sistema, all’ipotesi prevista dall’art. 609 quater c.p., che punisce la commissione di atti sessuali con persona minore dei dieci anni con la reclusione dai sette ai quattordici anni. Cfr. sul punto FABIO BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit.: 367.
[18] Cfr. LETIZIA MANCINI, Introduzione all’antropologia giuridica, Giappichelli, Torino, 2015.
[19] Cfr. per tutti, DUNDES RENTELN, In Defense of Culture in the Courtroom, in RICHARD SHWEDER – MARTHA MINOW – HAZEL ROSE MARKUS (a cura di), Engaging Cultural Differences. The Multicultural Challenge in Liberal Democracies, in The Russel Sage Foundation Journal, 2002: 196; IDEM, Raising Cultural Defenses, in LINDA FRIEDMAN RAMIREZ (a cura di), Cultural Issues in Criminal Defense, Juris Publishing, Huntington NY, 2007: 423 ss. Cfr. Nella letteratura italiana CRISTINA DE MAGLIE, Società multiculturali e diritto penale: la cultural defense, in Scritti in onore di Giorgio Marinucci, I, Giuffrè, Milano, 2006: 215 ss.
[20] TARYN F. GOLDSTEIN, Cultural Conflicts in Court: Should the American Criminal Justice System Formally Recognize a Cultural Defense?, in Dick. L. Rev., 1994: 143.
[21] Cfr. ALISON DUNDES RENTELN, A Justification of the Cultural Defense as a Partial Excuse, in S. Cal. Rev. L. & Women’s Stud., 1993: 439 s.; ALISON DUNDES RENTELN, The Cultural Defense, OUP, USA, 2005.
[22] Cfr. STEPHEN J. MORSE, The “New Syndrome Excuse Syndrome”, in Crim. Jus. Ethics, 1995, v. 14, n. 1: 3 ss.
[23] SANFORD H. KADISH, Fifty Years of Criminal Law: An Opinionated Review, in Cal. L. Rev., 1999: 961 ss.; JAMES Q. WILSON, Moral Judgement. Does the Abuse Excuse Threaten Our Legal System?, Basic Books, UK, 1998.
[24] JOSHUA DRESSLER, Reflections on Excusing Wrongdoers: Moral Theory, New Excuses and the Model Penal Code, in Rutgers L. J., 1988: 681.
[25] JOSHUA DRESSLER, Reflections, cit.: 692.
[26] JOSHUA DRESSLER, Reflections, cit.: 683.
[27] JOSHUA DRESSLER, Reflections, cit.: 684.
[28] JOSHUA DRESSLER, Reflections, cit.: 685.
[29] ALAN MORTON DERSHOWITZ, The Abuse Excuse: And Other Cop-outs, Sob Stories, and Evasions of Responsibility, Little Brown & Company, Boston, 1994: 3 ss.
[30] ALAN MORTON DERSHOWITZ, The Abuse, cit.: 4.
[31] Ibidem.
[32] Cfr. PATRICIA J. FALK, Novel Theories of Criminal Defense Based upon the Toxicity of the Social Envinronment: Urban Psychosis, Television Intoxication, and Black Rage, in North Car. L. Rew., 1996: 731 ss.
[33] Su questi temi, si vedano LAURA PIRONE, Osservazioni in tema di libertà religiosa nella realtà familiare, in Il diritto ecclesiastico, 1, 1998: 666 ss.; ALBERTO GARGANI, Libertà religiosa e precetto penale nei rapporti familiari, in Il diritto ecclesiastico, 3, 2003: 1013 ss.
[34] Cfr. Corte di Cassazione, 16 dicembre 2008, n. 46300, in Giurisprudenza italiana, 2010: 416, con nota di F. PAVESI, Sull’esimente culturale dei reati contro la persona: 417. Negli stessi sensi, v. anche Corte di Cassazione, 8 novembre 2002, n. 55, in https://www.lawpluralism.unimib.it/oggetti/631-corte-di-cassazione-italiana-sez-vi-penale-n-55-2002-8-novembre-2002. In tema di maltrattamenti e consenso dell’avente diritto, cfr. Corte di Cassazione, 20 ottobre 1999, n. 3398, in https://www.lawpluralism.unimib.it/oggetti/560-corte-di-cassazione-italiana-sez-vi-penale-n-3398-1999-20-ottobre-1999, stando alla quale il reato contestato non può essere scriminato dal consenso dell’avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni subculturali relative ad ordinamenti diversi da quello italiano, poiché si porrebbero in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base del nostro ordinamento giuridico. Sul punto, cfr. anche GIANDOMENICO SALCUNI, Libertà di religione e limiti alla punibilità. Dalla “paura del diverso” al dialogo, in L’Indice penale, 2006: 615
[35] Corte di Cassazione, 10 agosto 2009, n. 32824, in Cassazione penale, 2009: 137 ss., in cui la Corte respinge la tesi di un marito musulmano, residente a Forlì, che maltrattava la moglie perché lo prescrive il Corano, confermando la condanna per l’imputato per maltrattamenti (lesioni e minacce) nei confronti della donna. Ad una fattispecie relativa più a fenomeni di machismo che a problemi di multiculturalismo può riferirsi la pronuncia della Corte di Cassazione, 26 aprile 2011, n. 26153, in Cassazione penale, 9, 2012: 2960, con nota di FLAVIA PIQUÈ, La subcultura del marito non elide l’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti né esclude l’imputabilità del reo. Infine, sul tema di maltrattamenti, lesioni e principio dell’ignorantia juris, emblematico il monito di Papa Giovanni Paolo II: «oggi più che mai occorre una decisa condanna dei crimini contro l’umanità giustificati da ideologiche scusanti religiose», con cui invita l’umanità ad abbandonare ogni cultura di morte e a ritrovare la strada della pace e della fratellanza». Sulla stessa scia si pone Papa Francesco, in occasione di un incontro tenutosi in Vaticano ad ottobre 2014 con l’Associazione Penale Internazionale: «tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare […] per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, […] nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà». A suo avviso, il sistema penale sta varcando i suoi confini – quelli sanzionatori – per estendersi sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone: «c’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione […]. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana».
[36] Cfr. Tribunale di Arezzo, 27 novembre 1997, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 3, 1999: 848, che ha ritenuto responsabile del delitto di maltrattamenti in famiglia un padre, di fede musulmana, per aver esercitato violenze e minacce nei confronti dei familiari, al fine di imporre il rispetto delle regole prescritte dalla religione di appartenenza (non alimentarsi durante il ramadan, portare il chador a scuola, inginocchiarsi di fronte al genitore, etc.).
[37] Cfr. OTFRIED HÖFFE, Globalizzazione e diritto penale, traduzione italiana di SERGIO DELLAVALLE, Einaudi, Torino, 2001: 118 ss.
[38] INEKE HAINE MARSHALL, Minorities, crime and criminal justice in Italy, in AA.VV., Migrants, minorities and crime: diversity and similarity across Europe and United States, Sage, Thounsand Oaks, 1997: 51 ss.; ALESSANDRO BERNARDI, Il diritto penale tra globalizzazione e multiculturalismo, Pisa University Press, Pisa, 2007: 521.
[39] Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 15 ottobre 2003, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2003: 959. Sempre in tema di abuso di strumenti di correzione e maltrattamenti in famiglia, cfr. Corte di Cassazione, 7 ottobre 2009, n. 48272, annotata da LUCA PEDULLÀ, Principi fondamentali e reati culturali: il criterio d’imparzialità versus le soggettive convinzioni religiose, in Forum costituzionale (www.forumcostituzionale.it).
[40] Per approfondimenti sulla condizione della donna nel diritto europeo e nei diritti religiosi mediterranei, si rinvia ampiamente al contributo di GAETANO DAMMACCO, La condizione della donna nel diritto delle religioni, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), dicembre 2007. Invece, sui reati culturalmente motivati che riguardano casi di violenza contro donne, cfr. ERIKA BERNACCHI, L’istituto della «cultural defense» nei casi di violenza contro le donne: un utile strumento per proteggere le minoranze o un dispositivo pericoloso nella promozione dei diritti delle donne?, in Ragion pratica, 1, 2013: 105  ss.
[41] Cfr. ex plurimis Parlamento europeo, risoluzione 18 marzo 2011, n. 2010/2209(INI), Sulle priorità e sulla definizione di un nuovo quadro politico dell’UE in materia di lotta alla violenza contro le donne, dove si sottolinea la necessità che tutti gli Stati membri dovrebbero riconoscere come delitti la violenza sessuale e lo stupro a danno di donne, in particolare all’interno del matrimonio e di relazioni intime non ufficializzate e/o commessi da parenti maschi, nei casi in cui la vittima non era consenziente. Il Parlamento condanna, altresì, i c.d. delitti d’onore e le pratiche di mutilazione genitale femminile.
[42] Cfr. Corte di Cassazione, 17 settembre 2007, n. 34909, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2008: 407, con nota di AMBRA GENTILE, Violenza sessuale in matrimonio retto da diritto straniero: il prudente approccio della Cassazione ai c.d. “reati culturali”, ivi, 2009: 417. In tema di violenze sessuali su ragazze minorenni, cfr. Corte di Cassazione, 15 marzo 1994, n. 3114 (ud. 7 dicembre 1993), in Il Foro Italiano, vol. 117, 1997: 2958. Sul punto, voce Imputato Tabib, in Giustizia penale, 2, 1994: 489, dove i giudici ritengono che “la differenza tra la legge penale italiana e la legge penale del Paese d’origine di per sé non basta certo per integrare una situazione di ignoranza inevitabile ai sensi dell’art. 5 c.p.”.
[43] Codice Penale. Relazione al Re del Ministro Guardasigilli, in G.U., 26 ottobre 1930, n. 251: 4446 s.
[44] ENRICO GROSSO, Multiculturalismo e diritti fondamentali nella Costituzione italiana, in ALESSANDRO BERNARDI (a cura di), Multiculturalismo, diritti umani, pena, Giuffrè, Milano, 2006: 117.
[45] GIOVANNI SARTORI, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, BUR, Rizzoli, 2002: 47; LETIZIA MANCINI, Percezione del diritto e impatto tra culture giuridiche nell’esperienza migratoria, in Soc. dir., 1999: 104; CARLO CARDIA, Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, San Paolo Edizioni, Roma, 2007: 159 ss.; CRISTINA DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati, cit.: 37 ss.
[46] NATHAN GLAZER, We Are All Multiculturalists Now, Harvard University Press, 1997.
[47] Sulle mutilazioni genitali femminili in termini giuridici, anche per i necessari richiami bibliografici, FABIO BASILE, Società multiculturali, immigrazione e reati  ‘culturalmente motivati’ (comprese le mutilazioni genitali femminili), in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2007: 1323 ss.; ID., La nuova  incriminazione delle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, in Diritto penale e processuale, 2006: 680 ss.; ALESSANDRO BERNARDI, L’ondivaga rilevanza del “fattore culturale”, in Politica del diritto, 2007: 10 ss.; RAFFAELE BOTTA, Tutela del sentimento religioso ed appartenenza confessionale nella società globale, Giappichelli, Torino, 2002: 268-270; VINCENZO PACILLO, Le mutilazioni religiose a valenza simbolica nell’ordinamento italiano, in Aa.Vv., I simboli religiosi tra diritto e culture, a cura di EDOARDO DIENI – ALESSANDRO FERRARI – VINCENZO PACILLO, Giuffrè, Milano, 2006: 219 ss.; PIERLUIGI CONSORTI, Diritto e religione. Basi e prospettive, Laterza, Bari, 2020: 186-188; FEDERICA BOTTI, Manipolazioni del corpo e mutilazioni genitali femminili, Bononia University Press, Bologna, 2009; GERMANA CAROBENE, Le escissioni rituali femminili tra precetto religioso, costume tradizionale e tutela dell’identità del soggetto in una società pluralista, in Diritto e Religioni, 2, 2007: 33-48; GIUSEPPE CASSANO – FRANCESCO PATRUNO, Mutilazioni genitali femminili ed ordinamento italiano, in Aa.Vv., Valori costituzionali e nuove politiche del diritto. Scritti raccolti in occasione del decennale della rivista Cahiers Européens, a cura di LORENZO CUOCOLO – LUCA LUPARIA, Halley, Matelica, 2007: 57 ss.; ANDREA GENTILOMO, Mutilazioni genitali femminili. La risposta giudiziaria e le questioni connesse, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), maggio 2007; GIOVANNI DEL MISSIER, Le mutilazioni genitali femminili, in Medicina e morale, 6, 2000: 362 ss.; CRISTINA COLOMBO, L’art. 583 bis c.p. un illecito compiuto in nome della religione?, in Rivista di criminologia, vittimologia e sicurezza, 2, 2009: 60 ss.; Aa.Vv., Diritto penale dell’immigrazione. Aspetti sostanziali e processuali, a cura di STEFANO CENTONZE, Giappichelli, Torino, 2010: 313 ss.; CARLO LONGOBARDO, Le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, in Aa.Vv., La tutela dei minori di cultura islamica nell’area mediterranea. Aspetti sociali, giuridici e medici, a cura di AGOSTINO CILARDO, Esi, Napoli, 2011: 55-85; AGOSTINO CILARDO, Il minore nel diritto islamico. Il nuovo istituto della kafala, in Aa.Vv., La tutela dei minori di cultura islamica nell’area mediterranea. Aspetti sociali, giuridici e medici, cit.: 228-231; ELISA ABBATE, Le mutilazioni genitali femminili (MGF): lesione dei diritti umani fondamentali della donna. Dimensione normativa, sanitaria e sociale, in Persona, Revista electrónica de derechos existenciales (www.revistapersona.com.ar), gennaio-febbraio 2010. Da un punto di vista antropologico, MICHELA FUSASCHI, I segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili, Bollati Boringhieri, Torino, 2003; ID., Quando il corpo è delle Altre. Retoriche della pietà e umanitarismo-spettacolo, Bollati Boringhieri, Torino, 2011; ID., Luoghi della migrazione e corpi della tradizione: aggravanti e attenuanti culturali in materia di modificazioni dei genitali femminili, in Studi emigrazione, 193, 2014: 161 ss. Contributi di taglio prevalentemente sociologico sono invece quelli di Aa.Vv., Senza le ali. Le mutilazioni genitali femminili, a cura di MICHELA MAZZETTI, Franco Angeli, Milano, 2000; ALESSANDRA FACCHI, L’escissione. Un caso giudiziario, in Sociologia del diritto, 1, 1992: 115 ss. Nel panorama internazionale si segnalano AA.VV., Female Genital Mutilation. A guide to laws and policies worldwide, a cura di ANIKE RAHMAN, NAHID TOUBIA, Zed Books, Londra-NewYork, 2001; ELLEN GRUENBAUM, The Female Circumcision Controversy. An Anthropological Perspective, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2001; MICHEL ERLICH, La femme blasée: essai sur les mutilations sexuelles féminines, L’Harmattan, Parigi, 1986: 198 ss.; URIEL ELCHALAL ET AL., Female circumcision: the peril remains, in BJU International, 83, 1999:103.
[48] La letteratura sul fenomeno è cospicua. Cfr., fra gli altri, DEBORAH SCOLART, Riflessioni sulle mutilazioni genitali femminili, in FRANCESCO D’AGOSTINO (a cura di), Corpo esibito, corpo violato, corpo venduto, corpo donato, 2003: 143 ss.; SERAFINO RICCI, Le mutilazioni genitali femminili, in Arch. giur., 4/2003: 575 ss.; MATTEO PAGANELLI – FLAMINIA VENTURA, La nuova fattispecie delittuosa: le mutilazioni genitali femminili, in Rass. it. crim., 2004: 453 ss.; GIOVANNI DEL MISSIER, Le mutilazioni genitali femminili, in Medicina e morale, 6/2000: 1079 ss.; ALBERTO GARGANI, Libertà religiosa e precetto penale nei rapporti familiari, in Il Diritto Ecclesiastico, 2003: 1016 s.; ANNABELLA VITALONE, Mutilazione genitale femminile e diritti umani, in Giur. mer., 2002: 854 ss.; STANLEY FRENCH – WANDA TEAYS – LAURA M. PURDY (a cura di), Violence against women. Philosophical Perspectives, 1998, spec.: 92 ss.; SHARON BOYLE – ELISABETH HEGER PREVES, National Politics as International Process: The Case of Anti-Female- Genital-Cutting Laws, in L. & Soc. Rev., 2000: 703 ss.; CORINNE A. A. PACKER, Using Human Rights to change tradition, Intersentia, Oxford, 2002: 17 ss.; FAREDA BANDA, Women, Law and Human Rights. An African Perspective, Hart Pub Ltd, UK, 2005: 207 ss.; ROGAIA MUSTAFA ABUSHARAF (a cura di), Female Circumcision. Multicultural Perspective, University of Pennsylvania Press, Pennsylvania, 2006; ANIKA RAHMAN – NAHID TOUBIA (a cura di), Female Genital Mutilation, Zed Books, UK, 2000; MYRIAM HERRERA-MORENO, Multiculturalismo y tutela penal: a propósito de la problemática sobre mutilación genital femenina, in Rev. Der. Pen., 2002: 49 ss.
[49] Cfr. sul punto ISABELLE R. GUNNING, Female Genital Surgeries: Eradication Measures at the Western Local Level. A Cautionary Tale, in STANLIE M. JAMES – CLAIRE C. ROBERTSON (a cura di). Genital Cutting and Transational Sisterhood, University of Illinois Press, Illinois, 2002: 118; LESLEY: VICKERS – JOYCE BOARD, Female Circumcision or Female Genital Mutilation, in New L. J., 2001, 151: 208 s.; ANNA VANZAN – LORENZO MIAZZI, Modificazioni genitali: tradizioni culturali, strategie di contrasto e nuove norme penali, in Dir. immigr. citt., 2006: 13 n. 1.
[50] ALEXI NICOLE WOOD, A Cultural Rite of Passage or a Form of Torture: Female Genital Mutilation from an International Law Perspective, in Hastings Women L. J., 2001: 352 s. Cfr. per tutti, sul punto, GIUSEPPE LA MONACA – FRANCESCO AUSANIA – GIUSEPPE SCASSELLATI SFORZOLINI, Le mutilazioni genitali femminili. Aspetti socio-antropologici, giuridici e medico-legali e contributo casistico, in Riv. it. med. leg., 2004:649 ss. Per una rassegna delle più importanti iniziative di rilievo giuridico, cfr. FABIO BASILE, La nuova incriminazione delle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, in Dir. pen. proc., 2006: 683 s. v. anche ANDREA GENTILOMO, Mutilazioni genitali femminili. La risposta giudiziaria e le questioni connesse, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, maggio 2007, reperibile alla seguente URL:
 http://www.statoechiese.it/images/stories/papers/200705/gentiluomo_mutilazioni.pdf: 2 ss.
[51] Cfr. sul punto, tra gli altri, JENNIFER J. RASMUSSEN, Innocence Lost: The Evolution of a Successful Antifemale Genital Mutilation Program, in Val. U. L. Rev., 2007: 945 ss.
[52] «Senza giustificato motivo, non possono portarsi fuori dalla propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona».
[53] «Soggiace all’arresto da diciotto mesi a tre anni chi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa è punito con l’arresto fino a 18 mesi».
[54] Sono considerate “armi proprie” quelle previste dagli articoli 5, 85 e 704 del Codice Penale, nell’articolo 30 del t.u.l.p.s e nella legge n. 110 del 1975 con le successive modificazioni e integrazioni. Con il termine arma propria si indica qualsiasi oggetto la cui funzione primaria sia l’offesa alla persona. Pertanto, rientrano in questa categoria armi ad aria compressa, armi da fuoco, armi da getto, armi da taglio o da punta, armi batteriologiche o chimiche.
[55] Tribunale Penale di Cremona, Sentenza n. 15 del 19 febbraio 2009, in https://www.giurcost.org/casi_scelti/GM/TribunaleCremona19febbraio2009.pdf; Tribunale Penale di Vicenza, decreto di archiviazione del 28 gennaio 2009, in http://www1.unipa.it/gpino/Kirpan%20Tribunale%20di%20Cremona%20e%20Vicenza.pdf; Tribunale Penale di Piacenza, decreto di assoluzione del 24 novembre 2014, citato in http://www1.unipa.it/gpino/303_2016_sentenza%20singh_.pdf.
[56] Cass. pen., sez. I, 15 maggio 2017, sent. n. 24084, in https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2017/05/cass-pen-24084-2017.pdf.  
[57] Vedasi GURPREET MAHAJAN, Living with Religious Diversity: The Limits of the Secular Paradigm, in ANNA TRIANDAFYLLIDOU, TARIQ MODOOD, (eds.) The Problem of Religious Diversity, European Challenges, Asian Approach, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2017: 1-23; RICHARD MOON, Freedom of Religion Under the Charter of Rights: The Limits of State Neutrality, in UBC Law Review, Vol. 45, n. 2, 2012: 497-549, in particolare: 507.
[58] V. CRISTINA DE MAGLIE, Multiculturalismo e diritto penale. Il caso americano, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2005: 175. Sul multiculturalismo quale tratto tipico della società statunitense, v., ex pluris, WILL KYMLICKA, Multicultural Citizenship: A Liberal Theory of Minority Rights, Oxford University Press, Oxford, 1995: 13-14.
[59] JEROEN VAN BROECK, The Cultural Defense, and Culturally Motivated Crimes (Cultural Offences), in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 2001, n. 1: 5; nello stesso senso, nella dottrina italiana, CRISTINA DE MAGLIE, Società multiculturali e diritto penale: la cultural defense, in Scritti in onore di Giorgio Marinucci, Giuffrè, Milano, 2006: 219 e ss.; CRISTINA DE MAGLIE, Multiculturalismo, cit.: 175, ove si rileva che la composizione multiculturale della società statunitense non ha tardato ad entrare “nelle aule della giustizia penale”.
[60] ENZO GRANDE, voce Justification and Excuse (le cause di non punibilità nel diritto angloamericano), in Dig. Disc. Pen., vol. VII, Torino, 1993: 310.
[61] ALISON DUNDES RENTELN, The Use and Abuse of the Cultural Defense, in Canadian Journal of Law and Society, Vol. 20, 1, 2005: 48. In senso analogo, v. pure DIANE CHIU, The Cultural Defense: Beyond Exclusion, Assimilation and Guilty Liberalism, in California Law Review, vol. 82, 1994: 1118.
[62] AKIRA MAEDA, Subject to Justice: The “Cultural Defense” and Legal Constructions of Race, Culture, and Nation, in RICHARD KING (a cura di), Postcolonial America, University Illinois press, Illinois, 2000: 87 ss.
[63] MODEL PENAL CODE, § 4.01.
[64] Note, The Cultural Defense in the Criminal Law, in Harv. L. Rev., 1986: 1295.
[65] CYNTHIA LEE, Cultural Convergence: Interest convergence theory meets the cultural defense, in Arizona Law Review, 49, 2007: 925, 915 ss.
[66] Cfr. LUCA MONTICELLI, Le «cultural defense» (esimenti culturali) e i reati “culturalmente orientati”. Possibili divergenze tra pluralismo culturale e sistema penale, in L’Indice penale, 2, 2003: 563.
[67] In Albania, ad esempio, è tutt’oggi vigente il Kanun, il più importante codice consuetudinario albanese, tramandato per millenni oralmente. Il codice, che è legge in quanto interiorizzata dal suo popolo, si occupa sia di diritto civile che penale disciplinando numerosi aspetti tra cui: i diritti e le immunità della Chiesa, la famiglia, il fidanzamento e il matrimonio, la proprietà privata e la successione, il lavoro, il giuramento, l’onore, il risarcimento dei danni, i delitti infamanti e infine la vendetta. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, viene fissato in maniera rigorosa il diritto di vendicare l’uccisione del proprio familiare, colpendo fino al terzo grado i parenti maschi dell’assassino. Adempiere alla vendetta è considerato un obbligo, pena il disprezzo da parte della collettività. Per maggiori approfondimenti sul Kanun albanese, si rinvia ex plurimis a PATRIZIA RESTA, Il Kanun di Lek Dukagjini. Le basi morali e giuridiche della società albanese, Besa, Nardò, 1997. In particolare, sull’istituto della vendetta, MIREL RUSHANI, La vendetta ed il perdono nella tradizione consuetudinaria albanese, in Religioni e società, 29, 1997: 137-152.
[68] Cfr. GIANDOMENICO SALCUNI, Libertà di religione e limiti alla punibilità. Dalla “paura del diverso” al dialogo, in L’Indice penale, 1, 2006: 609. Circa uno studio più approfondito del medesimo problema in Inghilterra e Stati Uniti, cfr. LUCA MONTICELLI, Consenso dell’avente diritto e norme di cultura, in ALBERTO CADOPPI – STEFANO CANESTRARI, Casi materiali di diritto penale/parte generale, Giuffrè, Milano, 2002: 202 ss.; ENZO GRANDE, voce Justification and excuse (le cause di non punibilità nel diritto anglo-americano), cit.: 309 ss.; CARLO SORIO, I reati culturalmente motivati: la cultural defense in alcune sentenze statunitensi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), novembre 2008: 1-25; ALESSANDRO BERNARDI, Modelli penali e società multiculturali, cit.: 86 ss.; ID., “Fattore culturale” e personalizzazione dell’illecito penale, in AA.VV., Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, Atti del Convegno (Messina, 13-14 giugno 2008), a cura di LUCA RISICATO e EMANUELE DE ROSA, Giappichelli, Torino, 2010: 126 ss.
[69] ELISA OLIVITO, Giudici e legislatori di fronte alla multiculturalità, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), maggio 2011: 17-18. Allo stesso modo, BALDASSARE PASTORE, Multiculturalismo e processo penale, in Cass. pen., 2006: 3034, per il quale «la giurisprudenza, più e meglio della legislazione, sta al centro dell’opera di integrazione che il diritto è chiamato a realizzare».
[70] Cfr. Corte di Cassazione, 16 dicembre 2008, n. 46300, CED 242229, per cui «il ruolo di mediatore culturale che la dottrina attribuisce al giudice penale, non può mai attuarsi […] al di fuori o contro le regole che, nel nostro sistema, fissano i limiti della condotta consentita ed i profili soggettivi che presiedono ai comportamenti, che integrano ipotesi di reato, nella cornice dell’irrilevanza della “ignorantia juris”, pur letta nell’alveo interpretativo della Corte delle leggi».
[71] CRISTINA DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati, cit.: 246 ss.
[72] ERIK CLAES, JOGCHUM VRIELINK, Cultural Defence and Societal Dynamics, in MARIE CLAIRE FOBLETS – ALISON DUNDES RENTELN (a cura di), Multicultural Jurisprudence. Comparative Perspectives on the Cultural Defense, Hart Publishing, UK, 2009: 306.
[73] CARLO PIERGALLINI, Fondamento, unzioni e limiti delle moderne forme di impunità retroattiva, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di EMILIO DOLCINI-CARLO ENRICO PALIERO, Giuffrè, Milano, II, 2007:. 1653 ss.; CRISTINA DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati, cit.: 252.

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Rosa Geraci, laureatasi a pieni voti presso l’Università degli studi di Palermo, ha conseguito il titolo di dottoressa di ricerca e attualmente ricopre il ruolo di Ricercatrice in Diritto Tributario, oltre a esercitare la professione forense. Nominata membro esperto in materia fiscale all’interno dell’Osservatorio Giuridico-legislativo della Conferenza Episcopale Siciliana e relatrice in convegni nazionali e internazionali, è autrice di due monografie e di numerosi saggi pubblicati sulle principali riviste accademiche italiane. Tra i principali scritti si segnalano: Usura ed interessi nelle tre religioni del libro, in Anna Sammassimo, Paolo Lobiati, Rosa Palavera (a cura di), I tuoi decreti sono il mio canto: riflessioni dall’esperienza giuridica ebraica, Educatt, Milano, 2024; Marketing halal e finanza islamica: tra inclusione e diversificazione, in Antonio Fuccillo, Paolo Palumbo (a cura di), Pluralismo confessione e dinamiche interculturali: le best practices per una società inclusiva, Editoriale Scientifica, Napoli, 2023; Il ritmo giuridico delle processioni religiose: riflessioni critiche a margine di una recente e ancipite sentenza in materia di turbatio sacrorum (Cass. pen., III, 2242/2022), in CALUMET, n. 15/2022; Etica e finanza islamica: Etica e finanza islamica: sharīʿa e mercato, edizioni Efesto, Roma, 2022; I simboli religiosi e il marketing commerciale, in Alessandro Negri, Giada Ragone, Marcello Toscano, Luca Pietro Vanoni (a cura di), I simboli religiosi nella società contemporanea, Giappichelli, Torino, 2021; Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte di Cassazione del 23 gennaio 2019 N. 1882, in Diritto e Religioni, n. 2/2020; Osservazioni sulle confessioni prive di adeguata rappresentanza istituzionale alla luce del mutato contesto etnico-sociale, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale, n. 2/2020; L’integrazione dei musulmani in Europa e la circolazione della banca e della finanza islamica, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale, n. 3/2019; Religion and Finance from the Muslims perspective, in Diritto e Religioni, n. 2/2019; Il sistema finanziario islamico tra diritto e religione, in Gaetano Dammacco, Carmela Ventrella (a cura di), Religione, diritto e regole dell’economia, Cacucci, Bari, 2018; L’esenzione dal pagamento dell’IMU per gli edifici degli enti ecclesiastici sotto la lente dei giudici europei, in Diritto e Pratica Tributaria, n. 6/2018; L’influenza del fattore religiosi islamico nella finanza e nell’economia, in AA.VV., Itinerari di diritto islamico, EDUcatt, Milano, 2018; La controversa questione del pagamento dell’IMU per gli edifici ecclesiastici affrontata e (non) risolta dai giudici europei, in Il Diritto Ecclesiastico, n.ri 3 e 4/2016.

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