Da qualche decennio, la riflessione antropologica ha radicalmente trasformato le categorie interpretative e la lettura dei fenomeni legati alle migrazioni. Trasmigranti, cosmopolitismo vernacolare (Sen, 2006), cosmopolitismo etnografico, campo sociale transnazionale (Glick-Schiller, 2006), antropologia del rimpatrio, e occidentalizzazione del mondo (Latouche 1992) possono essere le chiavi interpretative da seguire, per individuare flussi specifici all’interno dei nuovi grandi fenomeni migratori.
Il percorso delle ricerche che ho svolto in questi anni (Di Nuzzo, 2009)1 privilegia lo studio dei migranti nelle società complesse, assumendo il punto di vista dell’arrivo del migrante e dell’essere “qui”, piuttosto che “lì”, riattraversando i temi fondanti delle discipline antropologiche: i sistemi familiari, le nuove soggettività, i ruoli sociali, gli immaginari ovvero la sfera delle costruzioni immaginarie attraverso i grandi spostamenti che sempre più segnano le relazioni tra soggetti. Nella pagine che seguono ho ritagliato un ampio spazio alle diverse voci del campo sociale transnazionale che si compone, soprattutto, a partire dalle interviste che mi hanno dato la possibilità di assumere un punto di vista che parte dalla complessa condizione dell’antropologo nella sua riflessività.
I mutamenti e i paradossi che si determinano attraverso questi percorsi delineano articolazioni sovrapposte, come sostiene Marcus, visioni multifocali, identità pluridislocate e la necessità di acquisire una regola pratica di base per la teoria e il metodo: «qualsiasi problema esistenziale umano avrà trovato diverse soluzioni vale la pena di conoscerle, confrontarle e riflettere» (Marcus, 2000). Allora, luoghi e corpi di questo nuovo transnazionalismo (Grillo, 2000) e le relative trasmigrazioni che si determinano danno vita a correlazioni che hanno a che fare con diverse categorie di spazio, luogo, tempo, senza perdere di vista la costruzione degli immaginari reciproci che l’indagine sul campo mi ha restituito.
La lettura antropologica del campo sociale transazionale che ho assunto come necessaria per l’analisi dei processi migratori, individua e coniuga categorie sedimentate e nuovi apparentamenti disciplinari. Gli studi sulle migrazioni attuali in antropologia traggono alimento da nuovi cosmopolitismi, a partire da un cosmopolitismo etnografico a favore di un’antropologia transnazionale capace di studiare le forme culturali del mondo contemporaneo senza presupporre logicamente o cronologicamente né l’autorità dell’esperienza occidentale, né i modelli derivati da quell’esperienza. Indagini “micro” spesso assenti nelle analisi della globalizzazione, supportate da etnografie multilocali (Riccio, 2008) che si concentrano sulle esperienze quotidiane transnazionali.
Si colgono così i rapporti tra microcosmo–macrocosmo, individuando specifiche migrazioni che configurano mutamenti antropologici: in particolare, questo breve saggio fa il punto della situazione sulla mia ricerca sui soggetti migranti minori che intraprendono da soli lo spostamento verso un’unica meta che è l’Europa. La loro provenienza è varia: Afghanistan, Nord Africa, Siria, Albania. Le rotte sono diverse: sia la via di terra, lungo la rotta balcanica, ma anche e soprattutto il Mediterraneo. Seguendo i racconti di questi percorsi, l’antropologo non sarà uno specialista di una o diverse culture, bensì delle strategie di differenziazione che organizzano le dinamiche dei tratti scelti dai diversi gruppi per tessere i loro rapporti con gli altri. I diversi significati si incontrano/scontrano alle frontiere, in una sorta di sfera culturale; una “cultura pubblica” che ha una coerenza testuale, ma che viene interpretata localmente: come reti fragili di racconti e di significati tramandati da attori vulnerabili in situazioni inquietanti in quanto basi dell’agency e dell’intenzionalità nelle pratiche sociali correnti (Canclini, 2008).
Migrazioni silenziose, quasi invisibili, che emergono nel corso di questi anni in maniera sempre più prepotente. I minori non accompagnati sono presenti, sempre più frequentemente, nelle cronache e soprattutto nelle cifre e nei dati che le istituzioni internazionali e nazionali ci restituiscono. Nel linguaggio tecnico-giuridico sono definiti “vulnerabili”, ma la loro vulnerabilità si trasforma spesso in resilienza. La vulnerabilità è uno dei termini più usati dalla burocrazia internazionale per individuare specifiche categorie di migranti. Tale tipizzazione può essere definita nella sua complessità antropologica sia dal punto di vista dello spazio ecosostenibile, sia di quello socioeconomico, ma anche dei ruoli e delle condizioni individuali. Il mio percorso di ricerca è rivolto dunque a riconoscere, tra le maglie dei grandi processi di trasformazioni globale, i percorsi carsici di questi mutamenti che investono soggetti portatori di specifiche vulnerabilità, – di genere, come nel caso delle migrazioni femminili – o dei minori non accompagnati o “separati”, come la definizione internazionale più burocraticamente li definisce.
L’incontro con l’Occidente deve trasformare e può trasformare – come le mie ricerche sul campo in Campania dimostrano – la vulnerabilità in «capability» come sostiene Nussbaum (2001). Si può mettere in moto un meccanismo virtuoso che investe tutti i soggetti del campo sociale reticolarmente, nel tentativo di annullare le asimmetrie della diversità delle culture che si confrontano nell’incontro. Nel corso di questi ultimi anni ho assistito al progressivo mutamento del fenomeno e recentemente iniziano ad esserci approcci diversi soprattutto nelle strategie dei percorsi di accoglienza insieme ad una costante ambivalenza nelle strategie politico-istituzionali. La “fortezza” Europa si difende da questi specifici flussi e le legislazioni mutano rapidamente, a partire dal 2012 con i contraccolpi geopolitici che la primavera araba ha messo in moto. Prima di quella data l’Europa seppure in maniera difforme aveva garantito, incondizionatamente, l’accoglienza di questi minori non accompagnati almeno fino al compimento della maggiore età.
In questi particolari flussi migratori si è concretizzato un primo paradosso. A differenza delle grandi migrazioni dall’Europa avvenute durante la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, in cui erano i maschi adulti a guidare il flusso migratorio e a farsi carico del gruppo familiare, in queste migrazioni di minori è il giovane figlio a partire e a farsi carico della responsabilità di supportare i genitori e il gruppo familiare. Questi ragazzi intraprendono un viaggio che li vede partire come preadolescenti e che li trasforma rapidamente in adulti con un enorme carico di responsabilità. Il paradigma che vedeva il migrante come lacerato “tra due culture”, e intrappolato nella dicotomia assimilazione/esclusione, ha ceduto il posto ad una figura del migrante e del rifugiato come espressione di un meticciato se non di un cosmopolitismo progressista dal basso il quale, lungi dal vincolarsi ad un singolo progetto nazionale o culturale, attinge da fonti spazialmente e culturalmente plurali. Centrali nei processi identitari emergono quindi i percorsi di adattamento e negoziazione che simboli, idee, tratti culturali e senso di appartenenza attraversano nel processo di dispersione e rilocalizzazione. Un processo che implica un incessante lavorio di mediazione tra affiliazioni complesse e appartenenze multiple.
In particolare, nella condizione dei giovani migranti, si riconfigurano ruoli genitoriali e sistemi familiari, desideri di realizzazione e percorsi educativi. I ruoli familiari sono capovolti: i figli sostengono i padri, il motore economico diventa un adolescente e la sua identità plurima è una costruzione in cammino sia fisico che metaforico. Secondo quanto sostiene Robert I. Levy, è più che mai necessario privilegiare l’attore che talvolta è stato trascurato a favore della scena per cui il soggetto diventava spesso, una sorta di «soggetto antropologico a problematico» (Levy, 2002). Ho utilizzato allora le storie di vita, tenendo conto di tre sistemi fondamentali nell’azione sociale dell’uomo: personalità (psicologia), società (sociologia), cultura (antropologia). «La vita, così come ne facciamo esperienza, prima di abbracciare qualsiasi tipo di esperienza totalizzante, potente ed esemplificatrice, ci dimostra che le relazioni tra le persone e i vari elementi dei contesti sono molteplici e complesse» (Levy, 2002: 229). Delineare questi molteplici contesti è un problema empirico e rappresenta, per tutti gli antropologi, l’oggetto ideale per un’antropologia imperniata sulla persona.
I minori immigrati si trovano coinvolti in molteplici passaggi: dal paese di origine a quello che li ospita, dalla cultura familiare a quella della scuola, dal mondo interno della dimora a quello esterno, dai suoni familiari e affettivi della lingua madre alle parole indecifrabili della seconda lingua. Gli studi psicologici, psichiatrici e sociologici hanno mostrato gli effetti traumatici prodotti dall’immigrazione sui minori, che ne sono più o meno direttamente protagonisti. Si è parlato di separazione, di elaborazione del lutto e di processi di rimodellamento identitario, ponendo l’accento sul clima di conflitto interetnico e interculturale in cui essi avvengono (Favaro, 2002). Tuttavia, la mia ricerca è sempre stata rivolta a comprendere soprattutto le integrazioni di successo e dunque i fattori che aprono la strada ad una risultato di autentica dinamica transculturale. Questi approcci disciplinari hanno confermato, nella mia esperienza di indagine, come proprio questa vulnerabilità ha aspetti per così dire “positivi” e l’immigrazione può essere intesa come evento che mette alla prova le capacità degli individui di superare i traumi che ogni cambiamento, ogni “momento di passaggio” inevitabilmente comporta. Dopo quasi un decennio di migrazioni di minori, ho individuato alcuni elementi fondamentali che caratterizzano anche l’evoluzione del fenomeno: adultizzazione, resilienza, identità plurima, integrazione trasmigrante.
Se nel trasmigrante adulto (maschio o femmina che sia) l’identità etnica è una risorsa consolidata con radici profonde, che consentono di affrontare in maniera più consapevole l’incontro-scontro originato dai movimenti migratori nella dimensione del multidimensionale, per il minore migrante non accompagnato l’incontro con l’alterità avviene in una condizione più problematica rispetto agli altri, aggravata dal fatto che, prima nel Paese d’origine, poi nel Paese d’arrivo, non ha avuto esperienze familiari, sociali, culturali tali da consentire la formazione e il mantenimento di proprie radici pienamente interiorizzate. L’affermazione della propria identità etnica appare solo l’espressione di un atteggiamento difensivo e, spesso, diventa una manifestazione simbolica, di cui peraltro la comunità d’arrivo conosce poco o nulla. Ciò implica molte difficoltà a mantenere con coerenza gli elementi costitutivi del modello culturale d’origine, con possibili conseguenze a livello dell’integrità psicologica del soggetto. Ma se consideriamo la capacità di resilienza sollecitata dall’effetto dell’incontro con l’altro quando si realizzano comportamenti di apertura che il campo sociale transnazionale può avere da parte dei funzionari burocrati, degli operatori dei progetti di accoglienza, degli insegnanti delle scuole, e dei medici e degli operatori sanitari, si produce un circolo virtuoso di reciproca duttilità culturale che dà vita nel giovane migrante ad un proficuo effetto di resilienza piuttosto che di shock culturale e di relativa sindrome di Ulisse2. Allora la vulnerabilità diventa davvero capacità di costruire un’identità plurima che è funzionale al mondo globalizzato e transculturale. Cambiano così le sfere culturali di tutti gli attori del campo sociale, senza abdicare alla propria cultura di appartenenza, ma arricchendola con elementi dell’alterità.
Alcune di queste schegge etnografiche, di questi racconti raccolti in momenti diversi della mia ricerca sulle migrazioni dei minori non accompagnati, sono i segnali di un paradigma indiziario delle trasformazioni del fenomeno che ha ormai una sua storia, a dispetto di quanti credono che sia ancora un fenomeno recente emerso solo da qualche anno. Le storie di vita raccontate e il lavoro sul campo sono, per chi scrive, la parte più importante del lavoro dell’antropologo. A voler ripercorrere gli incontri e le tappe più significative che hanno segnato e continuano a segnare la ricerca sul campo, lo studio e l’evoluzione di questo specifico flusso migratorio, restano da trarre alcune riflessioni conclusive anche se non definitive3.
Un punto che resta centrale nell’antropologia delle società globalizzate e della relativa etnografia – come suggerisce Augé (2009) – riguarda la possibile mutevolezza dell’oggetto di ricerca e la sua ricezione da parte del pubblico. Soprattutto nella prospettiva dialogica e riflessiva che ho cercato di privilegiare è interessante vedere come l’obiettivo stesso della ricerca non sia immutabile nel tempo, ma è sottoposto anch’esso ai processi di produzione e ricezione dei messaggi che non sempre coincidono tra loro: «è l’etnologo che spaccavo in due per cercare di fargli capire (di farmi capire) cosa significasse essere interrogato da qualcuno come me» (Augé, 2009). L’antropologo non è un’entità fissa come non lo è il campo sociale che i soggetti abitano e dunque questo lavoro si può definire parafrasando Augè e Bourdieu (1992) come un lungo, si spera proficuo, “esercizio di riflessività” applicato alle categorie dell’antropologia e al soggetto stesso che le pratica. L’immaginazione etnografica che ne è il risultato diventa linguaggio che rende possibili forme di vita e interpretazioni.
Le interviste sono gli spazi possibili di queste forme di vita e restituiscono la possibilità dialogica più essenziale: un “io” e un “tu” che isola e preclude gli altri, ma allo stesso tempo apre un mondo di “altri” che determinano l’“io” e il “tu” in quell’incontro fatto di comunicazione, di gesti, di parole, di nomi. Il dialogico è inteso allora nel senso più ampio possibile, in cui individui – ma anche oggetti materiali e simbolici, enti più astratti e collettivi – si scambiano opinioni e punti di vista, messaggi, interagiscono per botte e risposte, storie e contro storie scritte e orali, visive e gestuali. In questa prospettiva, l’etnografia che ne deriva dovrebbe cercare anche, tra le altre cose, di seguire il ritmo libero delle improvvisazioni e dei piani d’azione che si presentano nella vita di un individuo. Vivere, in quest’ottica, significa prodursi nell’alternanza di obiettivi che programmiamo e direzioni che prendiamo senza una preliminare preparazione, sull’orientamento del momento. Una ragione in più per parlare, quindi, in questo senso, di una vera e propria antropologia della vita (Montes, 2015).
In quest’ irrimediabilità dialogica emerge quanto di vissuto e di autentico il campo sociale restituisce. I momenti significativi sono incarnati in altrettante storie di vita e nel mio percorso etnografico li riassumerei in tre nomi: Edil, Mustafà e Aurora. Queste tre storie attraversano un arco temporale che parte dagli anni Novanta del secolo scorso e arriva fino al secondo decennio di questo secondo millennio; più di un trentennio nel quale l’oggetto della ricerca con tutti i suoi attori insieme alle chiavi interpretative dell’antropologia e dell’etnografia sono mutati. Edil è il pioniere nel senso più autentico. Il suo status di migrante non era ancora neanche classificabile in quegli anni novanta del Novecento come minore non accompagnato, ma forse più di tutti è protagonista di un’antropologia del rimpatrio (Garofalo, 2014)4 in cui tutti siamo coinvolti come soggetti attivi del campo sociale transnazionale. Edil parte dall’Albania. È uno di quei bambini migranti che ha raggiunto l’Italia nel 1991 in una di quelle “carrette” stracolme di cui abbiamo immagini e filmati ormai datati. La sua non è una fuga da una situazione insostenibile. Aveva poco più di 16 anni quando per gioco, per sfida, per affermare la libertà, si è imbarcato. Ha attraversato quel tratto di mare non perché la sua famiglia lo aveva investito di un compito di grande responsabilità, ma per la sua curiosità e il suo mettersi alla prova, per conoscere l’Europa, l’Italia, il mondo della libertà. Questa decisione è avvenuta mantenendo, in seguito, legami con il proprio Paese d’origine, vivendo rapporti di autentica amicizia in Italia e riconoscendo anche le trasformazioni che l’Albania ha vissuto in questi anni. Per lui il Mediterraneo e le diverse rive che lo contraddistinguono non sono spartiacque che dividono irrimediabilmente, ma sponde di un arcipelago che ci tiene tutti in contatto. Così mi ha descritto la sua partenza:
«Avevo quasi 16 anni e me ne andai praticamente da scolaro, stavo a scuola. Sentii parlare che stavano programmando in un certo senso di aprire le dogane e una di queste, come dire, di queste navi che partivano e ci riuscii con alcuni degli amici miei uscendo da scuola, così con tutte le borse partimmo. Prendemmo la nave ci infilammo in mezzo ai grandi e arrivammo a Brindisi, così […]» (Di Nuzzo, 2013: 68).
Edil ora è un italo-albanese perfettamente integrato. Lavora come sociologo e mediatore culturale e ha riattraversato continuamente identità e appartenenze, ha messo a confronto continuamente le diverse culture ridefinendole in termini più dinamici in modo tale da superare la questione posta esclusivamente in termini di appartenenza o di cultura di partenza e di arrivo. In questo italiano-albanese ormai adulto il rimescolarsi di queste dicotomie è evidente nel rapporto tra Oriente e Occidente, tra vicino e lontano, domestico e straniero. L’Albania del momento della partenza e della sua infanzia era la radice e allo stesso tempo il discrimine della sua diversità che lo contrapponeva all’Occidente. Nel corso del tempo, nel suo andare e tornare l’Albania è diventata ai suoi occhi la nuova interprete dell’Occidente, mentre l’Italia si corrompe, si sgretola nella sua identificazione di modello occidentale, ne coglie le intime crepe e inadeguatezze, restituendomi un’etnografia di ritorno su cui riflettere. In questo senso, l’antropologo del rimpatrio occupa una prospettiva privilegiata che comporta un’intensa esperienza riflessiva sulle potenzialità interpretative che derivano dalla propria prospettiva di osservazione (Garofalo, 2014). Nelle varie fasi della ricerca etnografica l’antropologo della contemporaneità è al tempo stesso ‘osservatore’, ‘informatore’ e ‘indigeno’.
Al contrario, Mustafà vive le prime forme riconosciute di flussi migratori di minori non accompagnati. È in fuga da un Paese dilaniato dalla guerra. È un ragazzo afgano di Kabul che parte all’età di 13 anni. Siamo nel 2008 e così racconta la sua partenza:
«Io vengo da Afghanistan Kabul. Mio padre mi ha detto che scuole non ci stanno qui e mi ha detto salva tua vita e così mi hanno salvato mio padre e tutti quelli della mia famiglia; ho camminato tanto a piedi insieme ad altre dieci persone, poi siamo saliti su un camion, io sotto il camion, steso fino in Grecia e poi il mare fino Bari» (Di Nuzzo, 2013: 83).
Mustafà ha una fragile aderenza alle sue radici identitarie, alla sua lingua scritta che non conosce e assume l’Italia come simbolo dell’Occidente seppure dimezzato da una forte differenza tra l’immaginario virtuale che aveva elaborato e l’impatto concreto. L’Afghanistan resta per lui “l’altrove” e più che rimescolare le categorie come in Edil, queste sono sbiadite differenze che il mondo virtuale del web e della telefonia mobile rendono possibile tenere insieme. Ora Mustafà vive in provincia di Avellino, in Campania; ha un figlio nato dall’unione con una ragazza italiana. Il suo percorso di adultizzazione si è pienamente realizzato.
Per la giovanissima nigeriana Aurora la spinta alla partenza nasce da un bisogno personale insopprimibile. Lascia a 16 anni la Nigeria nel 2016. Mi racconta:
«Per me… io sono andata via per il motivo di studiare. Perché voglio studiare. Lì al mio Paese ho già fatto tutte le scuole che qua si chiamano scuola superiore. Io ho già fatto il certificato di tutta la scuola, però non posso andare all’università perché non ho soldi per andare all’università. Incontro una signora che sapeva questo… lei lo sa, mi piace la scuola. Se lei mi dice che c’è la possibilità di andare per studiare, io dico di sì, sì, va bene. Quando lei me l’ha detto, ho detto di sì, subito. Perché quando io ho sentito “studiare” e “scuola”, ho detto di sì subito. E così sono venuta. Noi abbiamo passato tanti posti. Tanti paesi per venire qua in Italia».
Per la giovane nigeriana, la contrapposizione dicotomica tra Oriente e Occidente non esiste, c’è il salto, l’ignoto che apre possibilità indefinite. Non c’è aspettativa per un confronto, non ci sono immaginari, c’è un vuoto da riempire, un desiderio da far aderire ad un vissuto che non ha ancora preso forma. Tre modi diversi di interpretare consolidate categorie del sapere antropologico, eppure appaiono legati ad un solo filo conduttore: l’alterità che non è radicale differenza, ma riplasmazione di elementi condivisi e di desideri legittimi. La partenza in questi resoconti etnografici, seppure in momenti profondamente diversi, sia per Edil che per Aurora, assume il ritmo di un’improvvisazione, di un colpo di testa che produce un universo di altre reazioni e orizzonti di vita imprevedibili, non ipotizzati, diversamente dis-locati – l’Albania per uno, la Nigeria per l’altra – oppure assimilabili nella modalità della messa in atto. Entrambi partono senza nessun preavviso, lasciando la famiglia senza informazioni, senza sapere quale sia la meta, solo con un desiderio di libertà e possibilità di costruire senza schemi e garanzie. La dislocazione viene interpretata e vissuta da ciascun attore del percorso migratorio secondo dinamiche diverse, a partire dagli immaginari, dalle aspettative, fino alle modalità di arrivo, alle paure, agli incontri e alle risoluzioni positive, come accade in questi casi, del progetto migratorio.
L’approccio alla ‘transnazionalità’ delle culture offre strumenti utili per interpretare le dinamiche di globalizzazione a livello mondiale. Tale approccio consente di creare un ponte dialogico nel discorso antropologico che attenua le antinomie noi/loro, vicino/lontano, dentro/fuori. Infatti, se da una parte, l’antropologia del rimpatrio rivolge uno sguardo attento al cambiamento sociale tout court, dall’altra cerca di ridefinire il concetto di alterità nelle relazioni spazio-temporali del mondo odierno, smorzando le classiche dicotomie del passato. In particolare, l’esotico, l’orientale, l’indigeno, sono continuamente sottoposti a ibridazioni nel confronto interculturale, come le storie di vita confermano. Un ulteriore elemento unificante è il momento di acquisizione della consapevolezza del “non ritorno”. Nessuno dei tre può tornare indietro: sia Edil, che Mustafà, e Aurora sono consapevoli in un momento preciso del loro viaggio, che non possono più oggettivamente farlo. Accomunati dalla paura e dalla temerarietà mista all’incoscienza, si sono trovati in un punto di non ritorno, ma tutti e tre hanno trovato il loro posto nel mondo. Mi confessa Aurora alla mia domanda se ci sono state persone che l’hanno aiutata quando è arrivata in Libia per attraversare il Mediterraneo:
«No, non c’è nessuno proprio che mi ha aiutato quando io stavo lì. La cosa che mi dava speranza è, diciamo, la stella e la luna. La notte quando io… perché lì in quel posto [Zuara in Libia], quando io mi guardo sopra, io vedo le stelle come stanno sopra la mia testa. Sono queste le cose che mi danno speranza, perché io credo, quando io chiedo una cosa in quel momento se io vedo…Stella cadente. Quando io dormivo, io dormivo sempre con la faccia sopra (all’insù) e osservavo sempre le stelle e la luna che era molto grande. E io dicevo: se tutti i giorni esce questa luna ed escono queste stelle, io posso vivere la mia vita».
E poi c’è il mare, l’acqua, la paura, la vita, la morte. L’acqua che può essere una barriera insormontabile, ma che può dare la vita quando la si può finalmente bere. Così racconta ancora Aurora:
«Io non ho avuta tanta paura quando stavo in Libia. Io ho avuto la paura più grande quando stavo in mare. Perché dopo che i motori si sono spenti. Da sola. C’è… l’acqua non era calma. C’era il vento… Osservavo me stessa come se fossi già morta. Io guardavo me stessa, non potevo aiutare me stessa. Io stavo morendo lì perché… Stavamo cadendo nell’acqua… la cosa più grave è che non so nuotare. Se fosse accaduto questo significava che ero la prima persona a morire, perché non so nuotare… c’era questa nave, una nave molto grande. Loro stavano passando. Noi stavamo gridando: “Aiuto!”. In inglese si dice “Help”. Stavamo gridando così. E loro ci hanno visto. C’era un filo molto lungo e loro ne hanno tirato due verso di noi. E ci hanno tirato più vicino a loro. E la prima cosa che abbiamo chiesto è stata l’acqua. Perché noi stavamo lì, in quella barca, in acqua da due giorni. E noi abbiamo chiesto loro acqua perché non c’era acqua. Non potevo bere acqua di mare, è troppo salata. Loro ci hanno dato acqua e dopo noi abbiamo chiesto di aiutarci».
In queste parole e in questa dinamica esistenziale sembra confermata la teoria che la geopolitica delle emozioni (Moïsi, 2009) produce mutamenti epocali della storia. La paura e la temerarietà spingono i cosiddetti deboli a prendere la scena. L’ho letto nei loro occhi, nei loro sguardi, nelle parole che mi hanno trasmesso; la resilienza della loro testarda temerarietà si è trasformata in capacità di agire e di interpretare nuovi ruoli sociali, come per Aurora che sta dando vita ad una soggettività femminile che è oltre le possibili definizioni attuali e frutto di un’ibridazione post-coloniale e post-occidentale.
Per Edil, Mustafà e Aurora la strada del transculturalismo passa attraverso la scuola. Per ciascuno di loro è stato come un passaggio necessario, una porta di accesso. Nei racconti emerge come sia stata fondamentale per passare dallo spaesamento all’appaesamento transculturale; è lo spazio dell’incontro (Callari Galli, 1996), non facile, eppure occasione imperdibile di confronto e di integrazione con tutti i limiti e le difficoltà che Edil mette in evidenza. La scuola è il luogo in cui il giovane albanese interiorizza e rielabora i valori della democrazia e della società occidentale anche se si meraviglia di alcuni comportamenti, a suo avviso, poco idonei degli studenti italiani. É sempre questa stessa scuola che gli dà la possibilità di valutare la crisi attuale della società italiana. Per Mustafà l’incontro con i professori è stato il suo punto di riferimento costante, ma anche la personificazione delle sue paure e della possibilità di non essere accettato. Ma per tutti e tre l’Italia è la scuola e la scuola è la possibilità di conoscere valori, linguaggi, contenuti che possono avvicinare alla complessità globale. Infine, Aurora ha finalmente trovato il luogo e lo spazio del suo desiderio: vive a Caserta ed è stata data in affido ad una giovane dottoressa, segue con abnegazione il corso per assistente socio-sanitario per diventare poi finalmente medico e non rinuncia per nessuna ragione al tempo da dedicare alla scuola.
L’approccio dell’antropologia transculturale pone la necessità, utilizzando anche le cifre interpretative dell’antropologia del rimpatrio, di dover di procedere da parte del ricercatore sempre più consapevolmente con fare autoriflessivo, ponendo se stesso come soggetto focale rappresentativo e avviando un confronto stretto fra individuo e collettività, fra soggetto e oggetto, all’interno dello stesso sistema culturale di appartenenza. Questa necessità riflessiva io l’ho vissuta nella relazione con i miei interlocutori che mi hanno fatto sentire per un verso oggetto della loro osservazione e per l’altro testimone della loro diversità. Fra le potenzialità del ‘fare’ antropologia del mondo contemporaneo è possibile inscrivere il superamento dell’antinomia locale-globale, così come quella speculare di interno ed esterno. L’antropologo dei mondi contemporanei privilegia, giustamente, un posizionamento dinamico del soggetto volto a cogliere le interconnessioni fra le realtà locali e la dimensione transnazionale dei processi relazionali fra le complesse entità culturali e sociali. Caleidoscopi possibili, puzzle difficilissimi da comporre, ma la strada non può essere altra che questa, tra ripensamenti, accelerazioni, ostacoli, paure, desideri, superficialità e intuizioni. Solo così da “fuori da casa” è possibile per questi giovani migranti trovare, vivere, e sentirsi finalmente “a casa”.
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
Note
[1] Il lavoro è incentrato sull’etnografia di donne migranti in Campania che hanno operato una rivoluzione silenziosa negli spazi discreti della domesticità, hanno di fatto cambiato il modello familiare del matricentrismo meridionale, partendo da sole e sostituendosi agli uomini nei loro sistemi familiari di provenienza per diventare motore economico di microsistemi sociali. Hanno dimostrato che è possibile coniugare mercato, solidarietà, autentica affettività, cittadinanze transnazionali.
[2] La sindrome di Ulisse, conosciuta anche con il nome di malattia degli immigrati, è una grave condizione di stress che colpisce chi emigra e va a vivere in un posto diverso dal Paese natale. Va oltre la normale sofferenza che colpisce chi lascia la propria casa e si trova in un ambiente estraneo. I sintomi e gli effetti possono essere anche molto gravi.
[3] Per una più ampia trattazione del fenomeno si rimanda al mio testo in corso di stampa per l’editore Carocci, A casa Lontano da casa
[4] Si fa riferimento ad alcuni autori: Augé M., Il metrò rivisitato, Raffaello Cortina, Milano, 2009, (ed. or. 2008), Clifford J., Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, (ed. or. 1997) e Geertz C., Opere e vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, Bologna, 1990 (1988).
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale e di Geografia delle lingue e delle migrazioni presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’Ateneo di Salerno, fa parte del gruppo di esperti del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale e il turismo diretto da Simona De Luna della stessa università; ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani. È autrice di numerosi studi. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: La morte, la cura, l’amore. Donne ucraine e rumene in area campana (2009); Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati (2013); Il mare, le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile (2014).
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